Palahniuk Chuck – Soffocare

23 settembre 2008

Il titolo non potrebbe essere più azzeccato. Soffocare, descrive alla perfezione la storia di questo libro, un certo narrare e tutta una serie di simboli precisi che si rincorrono.

Victor Mancini finge di soffocare, ogni sera in ristoranti diversi, in modo da farsi salvare da qualcuno che si trasforma in eroe e che gli è riconoscente al punto da preoccuparsi per lui e inviargli soldi a distanza di anni dall’episodio. È praticamente un metodo scientifico. Un mestiere a tutti gli effetti. Scenetta, salvataggio poi, a casa, apertura delle buste, smistamento dei soldi ricevuti e compilazione dei bigliettini di ringraziamento. Così ogni giorno. Anni di soffocamenti inscenati ripagati da donazioni più o meno spontanee.

Ma soffocare è anche la percezione subdola che arriva al lettore, immerso in una trama che sembra semplice, ma si rivela complessa, insidiosa. Perché Victor Mancini è anche un sessodipendente che pur riconoscendo la patologia continua a cercare occasioni per fare sesso (anche con altri sessodipendenti boicottando le sedute di terapia di gruppo) finché incontrerà una dottoressa misteriosa che lo intrigherà al punto da non riuscire a farlo, niente sesso con lei ma tanti – tantissimi – pensieri, ragionamenti, verso l’unica donna che, in fondo, gli interessa in quanto tale.

Poi c’è il soffocatr come stile di vita, come approccio scelto dal protagonista che ha un passato scomodo alla spalle, una madre incomprensibile che entra ed esce dalla sua vita, e varie famiglie adottive. È un soffocare lento, in un presente tra mestieri strani, anche difficili da immaginare (almeno in Italia) e dialoghi rivelatori.

Tutto in questo romanzo è gestito con intelligenza, ritmo e consapevolezza.

Palahniuk vuole stupire, sorprendere, confondere, scatenare qualcosa nel lettore, una reazione, qualunque essa sia. E ci riesce. Infila il dito in piaghe puzzolenti e imbarazzanti, e lo fa col sorriso sulle labbra perché non c’è spigolatura che non è disposto ad affrontare con la più cruda ironia possibile, un paradosso disgustoso eppure vibrante.

Uno dei personaggi più complessi e sorprendenti è quello della Madre. Molto ci sarebbe da spiegare su una donna che nel corso della narrazione principale è ormai una vecchia prossima alla morte, rinchiusa in una clinica, che chiama il figlio con molti nomi tranne che col suo e che l’ha costretto a fuggire infinite volte, da bambino, per portarlo con sé. Una Madre che gli ha trasmesso un ‘suo senso’ della vita e del vivere, che ha cercato comunque di insegnargli qualcosa, in mezzo al caos perenne delle continue fughe. Forse già da allora il piccolo Victor si sentiva affogare, costretto a imparare a sopravvivere ‘inventandosi’ sempre qualcosa, espedienti per lo più, fino alla prossima famiglia adottiva poi la fuga, giri di valzer descritti con crudeltà ma che non trascurano la drammaticità della realtà.

<Non voglio che accetti il mondo così com’è> disse.

Disse:< Voglio che te lo inventi. Voglio che tu abbia questa capacità. Di creare la tua realtà. Le tue leggi. E’ questo che voglio tentare di insegnarti.>
(pag.273, è la Madre che parla a Victor bambino)

L’aspetto che personalmente mi ha più colpito è l’abilità di inserire frasi profondamente vere, intense e forti in momenti ridicoli o diametralmente opposti nei significati. Come se il contesto assurdo, allucinato, rafforzasse la profonda verità celata nella narrazione.

L’irreale è più potente del reale.
Perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l’immaginazione.
Perché soltanto ciò che è intangibile, le idee, i concetti, le convinzioni, le fantasie, dura. Le pietre si sgretolano. Il legno marcisce. La gente, bé… la gente muore.
(pag.160 – parole della Madre al piccolo Victor, proprio lei che ha vissuto in una realtà fantastica per tutta al vita)

Non c’è niente di prevedibile, in questo romanzo. Perfino il sesso, elemento onnipotente a cui si attribuiscono molti interessi, in questa storia si tende verso il disgusto, l’eccesso descritto come fosse scienza ma anche ossessione. Perché qui non si tratta di ‘scrivere di sesso’ ma di mostrare come può diventare fonte di salvezza. Non ci sono scene con amplessi che attirano, eccitano insomma. Ci sono frammenti di gesti necessari, dove l’istinto è verso la sopravvivenza più che per il piacere innescato dall’azione.

L’istante in cui ci ritroveremo a sentire freddo e a sudare sul pavimento del bagno, un attimo dopo essere venuti, ci passerà persino la voglia di guardarci in faccia.
L’unica persona che ci farà più schifo di quella che abbiamo davanti saremo noi stessi.
E’ solo in questi pochi minuti che posso diventare un essere umano.
Solo in questi pochi minuti non mi sento solo.
(pag.25)

Lo stile di Palahniuk cattura. Si entra in un ritmo preciso dalle prime pagine, che disorientano. Ma è proprio questa caratteristica che non mi ha fatto staccare dal libro: la non linearità. Quasi ogni capitolo ha un suo registro. Il narratore cambia, si alterna in modo da non dare tregua al lettore che deve rimanere attento, cogliere le sfumature per capire ‘dove si trova’ e ‘in compagnia di chi’. Decisamente un’ottima strategia per scacciare la noia, non che ce ne sia bisogno, ma ho avuto l’impressione che per Palahniuk sia parte del processo narrativo, questo alternare voci, cambiare registro, saltare. Anche questo ‘è’ la storia. Ed è stimolante.

Unica annotazione personale riguarda il finale dove i capitoli tendono a inspessirsi, ho avuto l’impressione che, specie in alcune pagine, ci fosse un eccesso di parole, come a voler allungare il tempo, un cercare di dare maggior corpo a una storia che ormai è delineata, il lettore la conosce e la segue senza bisogno di ulteriori tratteggi. O forse è solo un rallentamento necessario che, da lettrice vorace e curiosa quale sono, ho sentito fuori luogo, appena un po’.

In conclusione Palahniuk non racconta una storia assurda fine a se stessa. Realizza un’opera d’arte. Dove realtà e finzione si mescolano, il lettore lo sente, il sottile confine tra ‘normalità’ e ‘pazzia’. Tra coerenza e ‘follia’, tra ‘ordine’ e ‘caos’. Dunque c’è, quel confine, ma si finisce per perderlo spesso e certi nodi, certi svolgimenti, si confondo, sembrano ma poi non sono. Il protagonista stesso, disilluso e abituato ai fallimenti, ai cambiamenti e agli equilibri fragili, vuole – pretende – una precisa immagine di sé stesso e fa di tutto per alimentarla pur rendendosi conto che finirà solo e abbandonato, e, per certi versi, questa solitudine la cerca anche.

Si vive e si muore e il resto è solo un’illusione. Puttanate da femmine sottomesse che si riempiono la bocca di sentimenti e sensibilità. Un mucchio di stronzate soggettive ed emotive. L’anima non esiste. Dio non esiste. Esistono le decisioni e le malattie e la morte.
Io non sono altro che un lurido porco schifoso, un caso disperato di sesso dipendenza, e non posso cambiare, e non posso fermarmi e non sarò mai nient’altro.
(pag.155)

Una delle associazioni più frequenti, che rimbombano spesso, è legata a Gesù.
“ Chiediti sempre: cos’è che Gesù non farebbe?” è un quasi un ritornello. Il protagonista ha motivi precisi per nominarlo, ma allo stesso tempo tenta di stravolgerne il senso, di mettere a testa in giù quelle convinzioni, credenze, che sono cardini religiosi precisi. Di fatto Gesù farebbe di tutto, secondo Victor, perché non ci sono limiti alla sopravvivenza. E per Victor, Gesù è un termine di paragone ingombrante, un’ossessione che lo costringe a scontrarsi continuamente con quel confine, giusto o sbagliato, che invece ha sempre ignorato.

Una buona prova di talento narrativo, strutturazione e gestione di una trama piena di sottintesi e simboli, un affresco del vivere oggi dove il vero e unico obbiettivo è ‘non soffocare’, sopravvivere sempre e comunque fino alla resa finale, l’abbandono che però non lenisce, sfalda le certezze.

Mentre gli investigatori sfogliano il diario rosso di mia mamma, mi guardo intorno in cerca di qualcosa di più grosso. Qualcosa di troppo grosso da mandare in giù.
Ormai sono anni che soffoco fin quasi a morire. Non dovrebbe essere difficile.
(pag.269)

Per avvicinarsi al testo, propongo proprio l’inizio, l’incipit:

Se stai per metterti a leggere, evita.
Tra un paio di pagine vorrai essere da un’altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene. Sparisci, finché sei ancora intero.
Salvati.
Ci sarà pure qualcosa di meglio alla tv. Oppure, se proprio hai del tempo da buttare, che so, potresti iscriverti a un corso serale. Diventare un dottore. Così magari riesci a tirare su due soldi. Ti regali una cena fuori. Ti tingi i capelli.
Tanto, ringiovanire non ringiovanisci.
Quello che succede qui all’inizio ti farà incazzare. E poi sarà sempre peggio.
(pag.7)

Soffocare di Chuck Palahniuk
Oscar Mondadori
Isbn: 978-88-04-52438-0
traduttore M.Colombo

L’ibuprofene è finito.

23 settembre 2008

Mi ha detto che non ci capiva più niente, che si era persa.
Io devo averla guardata male, cioè poco convinto. In realtà non avevo capito granché, pure io. Era un’ora che blaterava su questo e quello.
Diceva che non distingueva più chi le era amico amico.
Amico amico in che senso, dico io.
Quando non ti devi guardare le spalle, ha risposto ma si vedeva che era seccata, di doversi interrompere.
Così non le ho più chiesto niente.
Io sono quella roba lì, amico amico. Ti pare che me sto qui ad ascoltare le sue stronzate ossessive se no? Appunto. Anche questo dovrebbe essere considerato, invece no, non sembra almeno. Cioè. Lei è troppo presa, e lo so che ha paura. Ma poi, voglio dire, cosa le cambia? Assillarmi, annegarsi di parole, pensare, pensare, pensare. Mi viene mal di stomaco, quando fa così. E le spalle si contraggono. Cavoli suoi. Adesso le faccio venire l’emicrania, così la finiamo di tribolare, che cavolo!

Ricordati che l’ibuprofene è finito. E le farmacie sono chiuse.