I non sogni

7 aprile 2007

Il vuoto. Un senso di nausea al collo dello stomaco. Mi guardo in basso e vedo del tessuto nero. Seta nera. Il vuoto è un drappo infinito di seta nera che non mi fa respirare…
Ho un senso di nausea al collo dello stomaco, solo che non ho più lo stomaco. Ho solo il vuoto. E per un attimo sono felice. Poi qualcosa mi sveglia.
E’sempre così. Quando torno.
Stavolta è stato Luca a strapparmi anzitempo al vuoto. Non so perché, ma ogni volta che chiama lui mi sembra che la suoneria si alzi di volume. Sta di fatto che il cosetto ultratecnologico che mi ha regalato per Natale sta suonando e vibrando come un ossesso.
Mi alzo a fatica, ancora sudata e tremante, ma quando riesco a raggiungerlo smette di dimenarsi. Il fastidio è uno sciame di pizzicotti sulla pianta dei piedi. Perché diavolo mi ha chiamato, sapendo del nuovo attacco di stamattina?
Divento intrattabile quando non riesco a starmene in santa pace quel pugno di ore necessarie a stare meglio. Poi mi riprendo. Ma non devo essere disturbata.
Mi preparo il caffè e il ronzio dello strumento elettronico riporta a galla un vago pulsare alla tempia destra. Male. Molto male. Vuol dire che stavolta non se n’è andato del tutto.
Mi siedo sul divano con la tazza fumante in mano. Due dita di caffè e un litro di latte, più o meno. La caffeina mi rende nervosa ma senza non riesco a tornare alla realtà. Non del tutto. E ormai l’idea di recuperare la via del letto è scartata a priori. Quando mi sveglio è fatta, i sogni sono svaniti per sempre… che poi, proprio sogni non sono. Vedo sempre avvenimenti passati. Situazioni realmente accadute. Persone che ho conosciuto, a volte ancora in vita. Altre no.
Niente fantasmi ne morti che parlano. Non devo aiutare nessuno a raggiungere la luce considerando che non sono una fattucchiera o una strega o una sensitiva (la mia vita non è un fiction per carità!)… sono solo vecchi ricordi che riaffiorano. Un po’ più vivi di come li ricordavo prima dell’attacco. Non so spiegarmi perché tornino proprio quando sto più male. E’così e basta.
Soffio sul liquido bianco sporco e fisso il televisore spento, è ora di recuperare quello che ho visto.
Le prime volte facevo di tutto per dimenticare, pensavo che non servisse riportarli a galla. Ma loro continuavano a tornarmi in mente, a distanza di tempo. I frammenti. Di qualcosa che avevo vissuto. Due anni prima. Dieci. O addirittura quand’ero bambina. Sequenze senza senso, dapprima, che si trasformavano in fotogrammi collegati con il passare del tempo.
Adesso non li contrasto più. I non sogni. Li richiamo a me quando mi sveglio e cerco di fissarli in una delle tante pareti della mente.
Il cellulare riprende il suo show. Stavolta perdo la pazienza. Gli rispondo in fretta, a monosillabi. ‘Si, sto bene. Non importa, stavo per svegliarmi. Si, le solite medicine. No, sono sola. Ti chiamo io stasera.’ E piantala di rompere proprio adesso che inizio a recuperare il ricordo.
Povero Luca. Le fasi del pre e post sono sempre difficili per me. Divento irritabile e scontrosa. E lui, così premuroso e maniacale, proprio non riesce a lasciarmi il giusto spazio. Mia madre direbbe che è un uomo da sposare. Ma quando fa così è difficile non pensare che la colla appiccica e basta.

Quando sento i nervi del collo che si irrigidiscono so già cosa mi aspetta. Tre anni sono un tempo sufficiente per imparare a capire i segnali che il corpo mi invia. Ho almeno un’ora e mezzo prima che mi salga al cervello l’emicrania vera e propria. Ovunque sono mi precipito a casa. Preparo il cocktail di medicine e quando sento arrivare il fiume in piena le ingoio tutte insieme. Mi infilo a letto e mi copro fino alla radice dei capelli. Dentro al bozzolo lascio che il nero arrivi. Per un po’ il dolore è quasi insopportabile ma poi si trasforma. Centri concentrici lo assorbono per portarlo verso l’oscurità che lo annulla dentro di sé. Allora arrivano. I non sogni. Lentamente focalizzo una scena e parte la sequenza. Terminata la sbirciatina, torna il nero accompagnato dal vuoto. E’meraviglioso perché mi trasformo in un vaso privo di contenuti. E’una sensazione di leggerezza indescrivibile. Purtroppo dura solo alcuni minuti. Poi riapro gli occhi e l’attacco è ufficialmente terminato. L’emicrania è scomparsa e mi ritrovo in compagnia dell’ennesimo frammento del passato. Da liberare nel presente.

Stavolta è più complicato perché sono stata svegliata di soprassalto. Ho constatato che, se vengo riportata alla realtà prima che la sequenza dell’attacco sia terminata, qualcosa gira storto. Infatti oggi fatico a ricordare con esattezza quello che ho visto. Anzi, sognato.

Mi concentro. Abbandono la tazza ancora piena tra le cosce, le stringo per bene così da evitare una caduta rumorosa.
Ho bisogno di tranquillità. Immobilità. Tepore.
Chiudo gli occhi e abbandono il corpo sullo schienale morbido del divano. La tempia destra pulsa ancora. Insistente. Intermittente. Un ronzio altalenante. Si avvicina per martellarmi alcuni secondi poi scappa in alto, prendendo la giusta rincorsa per il prossimo assalto.
Ritento. Mi concentro. Richiamo il nero intorno a me. Con lui è tutto più facile. Torna anche la nausea al collo dello stomaco. Fingo di non notarla. Mi basta riacchiappare un fotogramma, uno qualsiasi. Il resto lo seguirà a ruota.

Il nonno mi da un bacio sulla fronte. Sorride e sembra una giraffa. Di quelle simpatiche dei cartoni. Se ne va lasciando la porta della camera socchiusa e io non resisto alla tentazione. Scendo dal letto in punta di piedi e, scalza, raggiungo quella fessura magica da cui posso vedere cosa succede fuori dal mio mondo. Il nonno brontola a bassa voce…

Il suono del campanello mi arriva al cervello come un martello pneumatico. La tempia destra pulsa sempre più forte, mi precipito a rispondere per interrompere quel supplizio. Sono fuori di me dalla rabbia.
Ma è Stefania, mia sorella. Le sento fare le scale di corsa – abito al terzo piano di una vecchia palazzina senza ascensore – e quando la guardo in faccia ogni traccia d’ira evapora. Ha le guance in fiamme e gli occhi stravolti. Se non la conoscessi come le mie tasche direi che ha in corpo dell’ecstasy.
Si muove per casa come un animale in gabbia. Ha parlato con Luca. E il furbacchione si è lasciato sfuggire qualcosa sui miei attacchi. Qualcosa è riduttivo.
Quando lo becco vede come lo concio, il genio! Aveva promesso di starne fuori e tenere chiusa la bocca!
Vengo raggiunta da un’onda di domande a raffica. ‘Da quanto tempo’. ‘ Cosa mi ricordo’. ‘Perché non gliene ho mai parlato’. Quesiti più che leciti ma che mi infastidiscono all’inverosimile. Le emicranie sono mie e me le tengo. Non sono libera neanche di scegliere come gestirle? Per quanto riguarda i non sogni… anche quelli non li ho richiesti. Arrivano. Ma sono semplici sequenze passate. Il più delle volte mi rinfresco la memoria e basta. Non capisco qual è il problema.
Poi mi fissa, Stefania, con quegli occhi rigati di rosso e mi chiede se so com’è morto il nonno. Un brivido involontario mi attraversa il corpo. E’ successo più di venticinque anni fa, cosa dovrei sapere? Tentativo ridicolo, lei non demorde. Si avvicina con aria sempre più indemoniata, muovendo quelle mani lunghe e appuntite come fossero armi pericolose. Non ho mai temuto seriamente per la mia vita. Fino a oggi. Per un secondo mi sento ridicola. Sono in casa mia. Quella che si dimena come una tarantola è mia sorella. La maggiore. Cosa può succedermi?
Ma lei è incontrollabile. Ha iniziato a urlare. Un misto tra un attacco isterico e un lucido interrogatorio. Inizio a balbettare e mentre indietreggio la rivedo com’era allora. Una bambina alta e magra di dieci anni che litigava con il nonno sul pianerottolo. La camicia da notte con gli orsetti si muoveva stizzita. Senza essere chiamati i frammenti tornano e si sostituiscono alla faccia di Stefania.

Il nonno brontola a bassa voce. Distinguo nitidamente la sagoma di mio sorella accanto all’abatjour del corridoio. Piagnucola e mette il muso ma lui è irremovibile. Alla fine si volta per dirigersi verso la sua camera mentre il nonno le da le spalle avvicinandosi alle scale. Prima di dormire si fa sempre una tazza enorme di camomilla, il nonno. Alza il piede destro per iniziare la discesa…

Stefania insiste. Dice che non mi crede. Se davvero riesco a ricordare certi episodi del passato meglio di quando li ho vissuti, non posso non sapere niente di quello. Le faccio presente che ho sempre dichiarato di non aver visto niente perché ero già a letto. Ma lei è irremovibile. Mi segue attraverso il divano e il tavolo della cucina. E’una caccia. E io sono la preda. Continuo a non trovare le parole giuste. Ho sempre creduto di non aver visto niente da sotto le coperte. Eppure i flash che mi appaiono a intermittenza stanno cercando di dirmi qualcos’altro.

Alza il piede destro per iniziare la discesa e incontra un ostacolo imprevisto. La punta delle ciabatte di mia sorella. La piccola Stefania è tornata indietro con un balzo e si è buttata per terra con le gambe in avanti. Ha fatto lo sgambetto al nonno proprio mentre iniziava a scendere le scale. E lui è caduto. Rovinosamente. Fino al piano di sotto. Emorragia cerebrale.

L’espressione della mia faccia deve avermi tradito.
Quando ritornano, i frammenti, sono spesso molto realistici. Sento il rumore del mio cuore che batte all’impazzata. Ho visto davvero quella scena dalla fessura della mia cameretta.
Non ero a letto. Però lo credevo. L’episodio era stato oscurato dalla mia mente. Avevo sei anni.
Ma adesso ricordo alla perfezione e la fisso come si guarda un leone che ha appena banchettato con un cervo indifeso.
Sbatto contro la finestra aperta.
Stefania ha qualcosa in mano.
Lo noto solo adesso.
Ha smesso di urlarmi domande. Entrambe abbiamo già le risposte che cercavamo.
E una di noi è di troppo.
Ma chi?

Freddy

24 marzo 2007

Io non so come facevo a sopportarlo, col suo naso pieno di peli, le orecchie piene di peli, e l’alito, Dio solo sa cosa era il suo alito. E pensare che una volta mi sembrava profumo di viole misto a lamponi; e i peli pero? cosa mi sembravano?
Non lo ricordavo più. Stavo vomitando mentre lui continuava a girarmi intorno come se fosse uno spettacolo meritevole di attenzione. Che pazienza…
La prima volta che l’ho visto era grande poco più di due palmi aperti. Un batuffolo morbido e piagnucolante. Tenero, comunque. Come solo i cuccioli possono esserlo. L’ho tenuto con me perché mi serviva un po’ di compagnia. Mi sentivo sola.
Il mio matrimonio era finito in gloria da alcuni mesi. Patrizio, mio marito, si era trovatoun’altra. Non più giovane, no. Solo più qualcosa. Energica, forse. Allegra, magari. Insomma non ne avevo idea e lui non si era preoccupato di spiegarmi alcunché.


I guai sono iniziati perché li ho visti. Cioè, se fosse stato solo il male di separarci, io equell’ingellato di Patrizio, forse ne sarei uscita ammaccata ma non devastata. Ci siamo amati per molti anni e sapevo che anche lui se ne ricordava da qualche parte tra un processo e un fascicolo. Ma ormai era molto tempo che ci sopportavamo e basta.
Capita. Il tempo ti cambia, inizi a non riconoscere più chi russa sul cuscino accanto al tuo… poi la routine… ci si vede meno… la sera io guardavo la televisione e lui si trastullava con il portatile… ‘robe di lavoro’ mi diceva le prima volte, poi ho smesso di chiedere.
Ad ogni modo lasciarsi era anche sopportabile. Ma il fatto di averli visti insieme, seminudi sulla audi A6 metallizzata che era anche mia all’epoca, in qualità di moglie ancora in carica… sono rimasta paralizzata. Lo shock mi ha trasformato.
Se ci penso adesso mi viene quasi da ridere. Patrizio non era più un ragazzino e il suo fisico ha risentito degli anni – troppi – passati seduto a lavorare di dita tra fogli e tastiere. Neanche lei era così perfetta, ora che ricordo meglio, i sacrosanti rotolini non glieli toglieva nessuno.

Di nuovo quei peli che mi solleticavano la faccia… e quel puzzo di marcio che gli usciva dalla bocca… avevo smesso di vomitare. Forse pensava di dovermi consolare, di rendersi utile. Ma non riuscivo a vederlo sotto questa luce, l’odore si faceva insopportabile. Ero stanca. Confusa.


A un certo punto Patrizio mi ha vista. Era in una di quelle fasi in cui abbandonava la testa a occhi chiusi. E io me ne stavo lì davanti impalata… non proprio attaccata alla macchina ma abbastanza vicina da vederli bene. Poi li ha aperti, gli occhi, e ha capito. Ormai girare i tacchi non serviva a niente eppure me ne sono andata lo stesso. Non mi andava di vederli mentre si rivestivano in tutta fretta tra imprecazioni e parole sussurrate. Penoso.
Da quel momento sono diventata un’altra. Non saprei dire se in meglio o in peggio. I primi tempi ce li avevo sempre davanti agli occhi. Nudi e sudati. Sono stata a letto una settimana con la febbre. Nervosa. Poi la routine mi ha riassorbito e tutto è ricominciato come prima. Solo che Patrizio non c’era più e io mi sentivo come se mi avessero strappato un arto a forza. Alcune colleghe hanno provato a psicanalizzarmi elargendo consigli sulla solitudine, gli abbandoni… e tutte quelle stupidaggini lì. La verità era che dentro a quella macchina avevo visto le mie illusioni dissolversi. Alla velocità della luce. ‘Finché morti non ci separi’ era il mio credo più forte. Vivo. Porto sicuro per ogni giornata dura. Tutto rovinato.
Il mio corpo si è ribellato con doloretti sparsi e costanti. Gastriti, emicranie, nausee. Poi ho deciso che meritavo di più.


Si era addormentato. L’odore non era più così pungente. O forse ero io che mi stavo abituando al marcio. Fuori e dentro di me. Se giravo la testa potevo vederlo, tutto rannicchiato. La moltitudine di peli si alzava e abbassava a ritmo. E lo sentivo russare. Ho provato ad allungare una mano ma non sono riuscita a raggiungerlo. E di spostarmi non se ne parlava neanche.


Cambiare vita era una gran bella cosa, tutto dipendeva dallo scegliere come e dove. Io avevo trovato una strada abbastanza semplice. Una scorciatoia direbbero in molti. Fatto sta che le miei giornate non erano cambiate. Lavoro, casa. Casa, lavoro. Solo che, a intervalli irregolari, facevo l’amore con una polverina magica. Miracolosa.
Non mi sentivo più sola. Né triste. Né strana.
Era tutto luminoso, eccitante. Pieno di colori che non avevo mai notato.
Per farla breve il mio nuovo amante, la cocaina, si è insediato dentro di me. Giù, ma proprio giù, dove la mia anima pulsava disperata. Era come un calmante potente, qualcosa che solo nelle favole sentivo raccontare. La pozione che tutto poteva.
L’unico difetto che mi riusciva di trovargli era che durava poco. I primi mesi avevo azzeccato un ritmo preciso. Perfetto. Avevo i miei spacciatori di fiducia e gli orari migliori in cui rintracciarli. Poi però il mio corpo ha iniziato a lamentarsi. Si ribellava con forza perché ne sentiva la mancanza e io lo capivo. Quando stavo con lei, tutto il resto spariva in una bolla di sapone. Patrizio che faceva l’amore sulla nostra macchina di lusso sembrava un cartone animato estremamente esilarante.
Mi piaceva. Non c’era molto altro da dire. Così ho ravvicinato i tempi, sempre di più. E ho capito il senso profondo della parola ‘dipendenza’. Annullamento.


Si era svegliato all’improvviso. Aveva mosso la coda solleticandomi un ginocchio. Quei peli proprio non riuscivo a digerirli. Erano troppi. Spessi. Irti. Sapevo che presto avrei dato di stomaco. C’era odore di piscio.


Con un nuovo amante di quella portata mi sentivo sicura di me. Quasi felice, oserei dire. Ma è durata poco. Troppo poco.
Purtroppo avevo trascurato l’unico fattore che, invece, avrebbe dovuto frenarmi: il Dio Denaro. La cocaina aveva prezzi oscillanti: dipendeva dal fornitore, dal tipo, dal taglio… ma comunque la si voleva girare costava. E alla lunga diventava sempre più complicato far fronte a quella spesa fissa mensile. E più ci pensavo e peggio era. Perché ne avevo sempre bisogno, non potevo stare senza. Diventavo un’indemoniata. Avevo freddo e caldo insieme. Sudavo come sotto il sole del deserto. E smaniavo. Ero disgustosa, insomma.
Sono arrivata a chiedere anticipi sullo stipendio. Prestiti a finanziarie strozzine. Ho perfino inscenato un teatrino per Patrizio che, pur di non vedermi più, mi ha dato un assegno generoso.
La settimana scorsa ho finito anche quello. Ero sfinita. Distrutta. Avevo mille aghi che mi martoriavano il corpo a ogni ora. Rischiavo di impazzire.
Così mi ha fatto credito ‘Il Rosso’. Il mio fornitore più fidato.


All’improvviso ha iniziato a leccarmi. Avevo un ematoma violaceo sulla coscia. Si stava ingrandendo. E lui me lo leccava con quella lingua ruvida che mi procurava brividi lungo la schiena. Avrei dovuto considerarlo per quello che era: un animale impaurito che cercava di tranquillizzare il suo patrone. Ovvero io. Avevo troppo male dappertutto per prestargli attenzione, questa è la cruda realtà. Il sangue sui capelli iniziava a seccarsi formando grumi fastidiosi. Le braccia le muovevo appena, mi sembrava di dover spostare una montagna quando invece sarebbe bastato rialzarmi. Neanche con un montacarichi ci sarei riuscita.
Il telefono era sulla mensola dell’ingresso. C’era un altro posto più insulso e lontano per abbandonarci un oggetto così utile? Chiaramente no. Avevo già provato a strisciare ma il risultato non era proporzionato al dolore.
Quando palla di pelo si è avvicinato al mio viso ho risentito quel tanfo opprimente. Mi sentivo come se avessi infilato la testa in mezzo al letame e non mi riusciva di uscirne.
Ricordo solo che ho chiuso gli occhi. Sentivo i suoi lamenti sommessi e il sangue che sgorgava. Fluido. Caldo. Non capivo da dove, però. La pancia? Una spalla? Il collo?
‘ Il Rosso’ era venuto a trovarmi dopo una deliziosa settimana di consegne a credito. Solo che con lui c’erano due amici. Feroci.
Non potevo pagarlo. Nero su bianco.
E lui mi aveva ridotto in quel modo. A casa mia. Lasciandomi semi svenuta sul pavimento sporco, con Freddy come unico aiuto. Peccato che non avesse l’uso della parola.

Gli inesistenti

10 marzo 2007

Saranno stati quindici o venti giorni fa. Quanti non importa: il fatto è che – benedetta curiosità – mi sono infilato in quel portone socchiuso.
Ci passavo davanti due volte al giorno, la mattina e verso le diciannove, all’uscita dal lavoro. E ogni volta vedevo gente che entrava e usciva. Un viavai ininterrotto. Sotto gocce di pioggia o raggi di sole. Circa un mese fa un collega, di ritorno da una nottata al solito pub e solleticato dai miei racconti, si è fermato davanti al portone – rigorosamente socchiuso – ma non ha fatto in tempo ad entrare; un signore distinto gli si è materializzato davanti chiedendogli di spostarsi per lasciarlo uscire. E l’episodio si è chiuso con il collega che se avviava verso casa.
Ma io non riuscivo a smettere di pensarci. La curiosità è una brutta bestia, in effetti, e io avevo perso il controllo. Alla fine ho ceduto aprendo il portone quel tanto che bastava per farci passare il mio corpo secco e, una volta dentro, ho ricreato la fessura magica ‘attira ficca naso’.
Mi trovavo in un piccolo atrio chiaro, pulito e dal vago odore di disinfettante. Alla mia destra c’era una porta dipinta di bianco che cercava di amalgamarsi con il muro. Forse uno sgabuzzino. A sinistra, invece, era impossibile non notare un’ampia scalinata di vecchio fatturato, con la ringhiera scrostata. Ho mosso i primi passi sui gradini con circospezione, mi sembrava strano non veder passare nessuno. Dopo alcune brevi rampe mi sono ritrovato al primo piano con due portoni, ai lati opposti, e annessi campanelli con tanto di targhe lucide. Studio notarile DeBenedetti. Fam.Gigli. Niente di strano insomma. Potevo tornare indietro in quel momento – perché no? Ne uscivo pulito e senza guai – ma non ero soddisfatto. Un vago senso di solletico mi infastidiva lo stomaco, tanto valeva proseguire. Al secondo piano c’era una porta sola, blindata e orfana della targa. Basta, mi sono detto, non c’è niente da scoprire qui. Ma ormai era tardi. Proprio mentre riprendevo in mano la ringhiera per scendere, una ragazza slanciata e con un berretto in testa mi è venuta in contro.
« Ah, sei arrivato. Alla buon ora! Su, seguimi. Non perdiamo altro tempo… ». Mi è passata davanti sfiorandomi e ha estratto un enorme mazzo di chiavi. Stavo per presentarmi ma la ragazza mi ha preceduto con un’aria stizzita che mi ha paralizzato.
« Allora? Ti muovi si o no? » Mentre la seguivo dentro, l’ho sentita brontolare sottovoce. Ce l’aveva con me, era ovvio. Sembravo un pesce lesso con la faccia ebete e lo sguardo incerto. Richiusa la porta alle mie spalle, mi sono trovato in un appartamento senza stanze. Open space. In pratica c’era un’unica camera dalle dimensioni irregolari a seguire la forma della struttura principale dell’edificio. Le poche finestre presenti erano coperte da pesanti tendaggi in stile retrò mentre ovunque serpeggiavano tavoli in legno chiaro sostenuti da cavalletti spartani. Attorno a ogni tavolo, a testa china, c’erano uomini e donne multicolore. Misti in tutto. Per età, sesso e pelle. Se ne stavano curvi, con le mani che ormeggiavano davanti a loro. In silenzio. Gli unici rumori che si avvertivano erano cigolii, strisciate e tonfi leggeri.
Era il momento di svelarmi e uscire, avevo già visto fin troppo per una persona sensata. E invece no, di nuovo la curiosità – maledetta tentatrice – mi ha bisbigliato all’orecchio. La ragazza che mi aveva fatto entrare, dopo un rapido giro di saluti, è tornata verso di me e si è sforzata di sorridermi. Non era male, in effetti, senza il berretto le era scesa una folta chioma color nocciola. Riccioli morbidi e luminosi.
« Ok, io sono Sonia. Riccardo mi ha detto che te ne intendi di computer. Come ti chiami? »
« Enrico.» Ho risposto automaticamente. Poi mi sono dato dell’idiota perché potevo almeno usare un nome falso. Niente. Ormai era fatta.
« Bene Enrico, vieni con me.» Si è voltata in fretta e io l’ho seguita imprimendomi nella mente ogni nuova faccia che riuscivo a mettere a fuoco nella penombra. La situazione era tragicomica, vista da una certa angolazione, eppure mi attirava l’aria misteriosa che aleggiava ovunque. Cosa facevano tutti?
« Eccoci arrivati.» In un angolo era stata allestita una piccola postazione con scrivania multifunzionale in plastica – del genere che, con Euro 39,99 chiavi in mano, ti forniva il porta case esterno, un cassetto per nascondere la tastiera sotto il tavolo, lo spazio per la stampante proprio dove dovresti mettere i piedi e una serie di porta cd ai due lati del monitor. Tutto in settanta centimetri quadrati.
Mi sono seduto sulla piccola sedia da ufficio con le classiche imbottiture blu.
« Dunque… si tratta di questo: ti colleghi al database dell’anagrafe cittadina, trovi i nomi dell’elenco, li cancelli e inserisci quelli nuovi.» Mi ha fissato con le mani sui fianchi. « Non fare quella faccia per favore! Trovi tutto quello che ti serve nei fogli lì, davanti a te… » Stava per andarsene quando si è voltata di nuovo e mi ha fissato, seria. « Oh, per essere un amico di Riccardo sei proprio strano sai? Non è che sei uno di quelli senza palle, vero? No, perché, l’uscita sai dove trovarla… caso mai avessi cambiato idea, e non vuoi più aiutarci, amici come prima.» Di nuovo un’altra ottima occasione per inscenare una ritirata coi fiocchi.
« Nessun problema. Cercavo solo di capire come funziona.» Il grado di stupidità di un individuo si misura nei momenti di difficoltà. E io non potevo smentirmi!
Sta di fatto che Sonia se l’è filata sculettando e io mi sono messo al lavoro. Il destino mi ha fatto studiare ragioneria, prima, e mi ha trovato un posto tranquillo alla biblioteca comunale, poi. Il punto era che sapevo con esattezza come entrare negli archivi dell’anagrafe. Un giochetto.
Singolare non trovate?
Per non dare nell’occhio ho avviato il computer e, mentre fingevo di ormeggiare, studiavo i fogli lasciati da Sonia. Il primo era un elenco completo di individui e relativi dati personali. Tutti. ‘Gli inesistenti’, diceva il titolo in alto. L’ho scorso in fretta ma non ci ho visto niente di strano. Cosa poi? Il documento sotto conteneva un altro elenco dove, però, tutti i dati erano diversi dal precedente. Nomi. Indirizzi. Codici fiscali. Niente coincideva. Nella prima riga degli ‘Inesistenti’, ad esempio, c’era la signora Loretta Ladu, mentre nell’altro foglio che stringevo trovavo la signora Martina Stanzani. Stessa età e sesso, però. Interessante.
Nel frattempo il computer era pronto. Sono entrato nel database in pochi minuti. Per forza, conoscevo tutte le passworld del Comune a memoria!
D’un tratto la mia mente si è messa in movimento per riordinare i tasselli che avevo memorizzato. C’erano delle persone che lavoravano chiuse in una specie di appartamento trasformato in laboratorio. E avevano bisogno che qualcuno – nella fattispecie io – cancellasse alcuni nominativi dai registri anagrafici e ne inserissi dei nuovi. Era un po’ come far svanire nel nulla una persona.
Con l’avvento dei nuovi meccanismi informatici, da alcuni anni, tutti i dati personali sono agganciati agli estremi anagrafici. Codice fiscale, ma credo che fosse già così anche prima. Codice identificativo inserito nella tessera sanitaria magnetica. Numero di matricola Inps e Inail. Numero della patente di guida. Tutto insomma. Agendo sui dati anagrafici si modificano anche le informazioni degli altri identificativi. Infatti, per eseguire cambiamenti bisogna inserire più di una chiave d’accesso – e io le conoscevo tutte, per l’appunto – .
Sono entrato qualificandomi come Federica Rigamonti, una delle segretarie del sindaco con la puzza sotto il naso e il seno disponibile a orario continuato. Nel caso qualcuno avesse voluto rintracciare chi aveva fatto le modifiche, la bella svampita avrebbe avuto qualcosa da fare.
Dopo circa due ore ho rivisto Sonia, stanca e meno agguerrita, venirmi vicino, quasi addosso. « Puoi controllare se hai già sistemato questo?» Mi sono trovato davanti agli occhi un passaporto nuovo di zecca. Ottavio Fachin. Ho scorso l’elenco degli Inesistenti, avevo gli occhi affaticati, probabilmente rossi per lo sforzo prolungato. « Ma non lì! Si può sapere di cosa ti sei fatto per essere così lento quando parlo? » Mi ha strappato di mano il passaporto e si è allungata sul tavolo per prendere il secondo documento.
Ho visto una lampadina accendersi davanti a me.
« Perché tanta fretta? » Com’era il detto? ‘Fatto trenta, tanto vale fare trentuno’.
« Ah, ma allora parli! Sbrigati, deve andare via adesso. Non può più aspettare. A che riga sei arrivato con le sostituzioni?»
« Trentadue.» Mi ha sorriso, per la prima volta con slancio.
« Ottimo. Gli porto questo e gli dico che è tutto in ordine. » Come a voler ripetere la scena di qualche ora prima, si è allontanata di alcuni passi per poi rigirarsi. « Non sei poi così male, Riccardo aveva ragione.» Sparita.
I tasselli sono ripartiti per incastrasi nel punto giusto: puzzle completato.
Le vere identità venivano cancellate.
Al loro posto se ne inserivano altre. False.
E si fabbricavano documenti con i nuovi dati anagrafici.
Lì dentro si cancellavano gli Inesistenti. Ecco svelato il mistero! Forse si trattava di disperati in cerca di una vita nuova. Migliore, speravo io per loro.
Riccardo. Mi sono ricordato che conosco qualcuno con quel nome.
E’ il collega che, un mese fa all’uscita dal solito pub, mi ha detto di non essere riuscito a entrare e, così facendo, ha seminato una scia di curiosità. Apposta. E io mi sono lasciato ammaliare.
Adesso faccio un’altra strada per andare al lavoro e Riccardo non mi parla più. Non ho chiesto spiegazioni, né ho mai pensato di denunciare il fatto.
Se gli Inesistenti cercano una seconda occasione, chi sono io per negargliela? Chissà dove sono adesso…

Raccontano che un giorno, nella primavera del 96, un signore di Reggio Emilia si è svegliato convinto di sapere il cinese. Sua moglie, che aveva 15 anni in meno di lui e che come lui aveva fatto solo la scuola dell’obbligo lo aveva lasciato parlare. ‘Figuriamoci! Ci mancava solo questa!’, aveva pensato l’astuta signora, terminando la sua opera d’arte, la faccia impiastricata, con uno strato di rossetto il cui colore avrebbe fatto impallidire i papaveri più rossi.
Eppure continuava a dirlo, Vito, suo marito appunto. Al bar, dal macellaio e perfino in chiesa durante la funzione domenicale. La donna non poteva più tacere, certe fissazioni andavano estirpate alla radice, o li avrebbero etichettati a vita come i matti di Reggio. Per carità!
Alcuni ricordano che si è presentata in piazza Prampolini, in una giornata ventosa, e gli ha chiesto di tornare a casa. Doveva parlargli, era una cosa urgente. Vito aveva una routine tutta sua e gestiva i pomeriggi rispettando i programmi scelti anni addietro. Gli piaceva così. Ma quella volta aveva dovuto interrompere l’abituale partita a carte, e si vedeva che era contrariato.
‘Fammi vedere, allora!’, lo aveva sfidato lei, mostrandogli carta e penna posati storti sul tavolo della cucina (ancora puzzolente per il pesce bruciato la sera prima con la pentola regalata da quelli del detersivo in sconto).
Vito si era seduto in silenzio, tanto valeva accontentarla. Solo così l’avrebbe lasciato in pace. Dopo una pagina di geroglifici si è fermato e le ha sorriso. ‘Posso andare adesso o devo anche cantare in cinese?’, stava dicendo quel sorriso. ‘Ma come faccio a sapere che quello è cinese?’, aveva prontamente ribattuto lei, con la voce sempre più stridula. E, di nuovo, Vito ha dovuto chinare la testa e spiegare.
‘C’è uno Studio nuovo, nel centro storico di Correggio, in una di quelle viuzze laterali ciottolate dove l’odore della muffa ti arriva alle narici appena ci metti piede…’
‘E tu cosa ci sei andato a fare fin là?’, lo aveva interrotto subito la moglie.
‘Mi ci hanno portato!’, aveva replicato con uno scatto d’ira, ‘cosa vuoi che vada a fare fuori Reggio, vecchio come sono! Lo Studio professionale è nato per realizzare sogni e se la smetti di interrompermi ti spiegherò anche come.’
Nessuno sa cosa si sono detti i due dopo, non con esattezza almeno. Però la signora è uscita tutta trafelata, ha preso possesso dell’utilitaria usata, anno di immatricolazione 1980, e si è diretta a tutta velocità verso la località indicata dal marito.
L’indirizzo preciso dello studio in questione non risultava in nessun elenco, si vocifera che fosse aperto solo in orari strani come dopo le nove di sera o la mattina presto. Ma quel pomeriggio la moglie di Vito trovò la porta in legno marcio aperta in fessura, ed entrò. Per dovere di cronaca non è stata trovata nessuna porta così nel centro di Correggio, non per un’attività professionale almeno, ma chi ha visto la targa dello Studio ne descrive l’ingresso sempre nello stesso modo.
La titolare era una donna bassa e minuta. Purtroppo su alcune sue caratteristiche estetiche ci sono pareri contrastanti. Alcuni sostengono che avesse lunghi capelli neri raccolti all’insù in modo che alcuni ciuffi scendessero ribelli. Altri sono convinti che fosse bionda, ma proprio platino, con le ciocche lasciate libere sulle spalle. In ogni caso era bella e raffinata (altrimenti il fatto non sarebbe stato ricordato così a lungo).
All’astuta signora non interessava molto com’era, per questo non ha mai saputo descriverla con precisione e la fantasia dei narratori si è sbizzarrita libera. A lei premeva arrivare al sodo. E chiudere in fretta quella faccenda ridicola.
Le ha chiesto se ricordava Vito e perché gli avesse fatto credere di sapere il cinese. ‘Come no’, le aveva risposto annuendo, ‘è venuto poco tempo fa! Certo che conosce la lingua, era la sua richiesta!’
A quel punto la moglie, sempre più frastornata, non sapeva se ridere o piangere talmente era grottesca la situazione. ‘Ma no’, aveva continuato la strega (o fata a seconda di chi racconta la vicenda), ‘è tutto a posto. Suo marito voleva solo imparare a comunicare con il futuro.’
‘Come sarebbe? Cosa c’entra il futuro, diamine!’ Era rabbiosa, la moglie, continuava a non capirci niente e detestava perdere tempo. Oltre tutto per colpa di quello svitato di suo marito, capirai che soddisfazione!
‘Il futuro. Conosce più di un significato per la parola, signora?’ La strega era paziente ed educata.’ I cinesi sono il futuro del mondo. Sono arrivati, forse, a unmiliardo di abitanti solo nella stessa Cina, provi a immaginare considerando tutti quelli sparsi sulla terra!. Saranno i padroni di ogni cosa molto presto, fra una decina d’anni arriveranno al miliardo e mezzo, mi creda… ha mai fatto caso a quei nuovi ristoranti che aprono qui in Italia? Presto li troveremo a dirigere ogni tipo di negozio. Si fidi di me, senza sapere il cinese non si entra nel futuro. E suo marito desiderava esserci. Ecco svelato il mistero.’
Sembrava così semplice, messa in quel modo, che stava per uscire quando labbra rosso tulipano si è voltata all’improvviso e ha estratto il foglio con i geroglifici di Vito. L’ha allungato alla donna minuta chiedendole di tradurlo per lei. Se davvero aveva realizzato il sogno di suo marito, non poteva non sapere il cinese! La curiosità la solleticava peggio di un’orticaria.
Gli occhi della strega hanno osservato le linee e le forme rigirandosi il foglio tra le mani come fosse un puzzle a incastri mobili. Ha riso a bassa voce prima di iniziare a leggere in italiano, anche se, in sottofondo, si mescolavano altre lingue che simultaneamente uscivano dalla bocca misteriosa a forma di cuore (alcuni aggiungono le labbra carnose e sensuali ma non sono propriamente rilevanti per la narrazione).

Ode a te, visitatore stolto.
Ascolta senza fiatare
tu che pensi di sapere ogni cosa
quando ignori ciò che va oltre il tuo naso…

Non tutto è spiegabile
oggettivo e dimostrabile.
Fattene una ragione.
E impara dagli errori.

Non illuderti di vivere nella realtà
perché anche tu sei un’illusione
quando credi di essere qualcosa
che non esiste, se non nella tua testa.

Apri la mente
e lasciati andare.
Forse c’è speranza anche per te…

Non tutti concordano, però, sul testo del sonetto sopraccitato. Anche Vito è un nome di fantasia usato solo per snellire il racconto ed evitare contorsioni tra ‘egli’ e ‘lui’.
Lo Studio però, quello lo ricordano in molti e i pochi arditi che avevano dichiarato di esserci entrati hanno poi negato, fingendo una burla o qualcosa del genere.

Illusione im-mortale

28 gennaio 2007

Avevo 17 anni. La breve età in cui chiunque è immortale.
E, di fatto, lo ero.
La mia vita sembrava avviarsi verso una di quelle salite memorabili e io, segretamente soddisfatto di me stesso, non perdevo occasione per cavalcare l’onda. Mi presentavo con un fisico invidiabile – dopo due anni di palestra era il minimo – e avevo aggiunto un piglio malandrino al repertorio espressivo che riscuoteva consensi nell’universo femminile. Mi piacevo.
Specialmente perché non dovevo fare quasi niente. Evitare le abbuffate e perseverare con gli esercizi – ormai non mi pesavano più, ero allenato -.
Il resto veniva da sé. I vestiti che odoravano di marca e successo comprati con la carta di credito di papà. Le uscite nei locali ‘giusti’. Una lampada ogni due settimane. Il cellulare, mastro custode di contatti e parole. Sorridere. Ammiccare. Muovere il bacino. Camminare dritto con gli occhiali da sole che dicevano a tutti chi ero. Una bevuta, ogni tanto, con gli amici che contavano. Baciare con quel modo un po’ rude che mi trasformava in un esperto.
L’immortalità è davvero la condizione ideale, basta raggiungerla e non lasciarsela scappare.

 

Un pomeriggio sono rientrato a casa eccitato, la prova di italiano era andata bene, per cui sapevo che il bonus-stima dei miei genitori avrebbe subito un’impennata; in più avevo strappato un appuntamento a Elisa Gigli. Un anno più di me, bionda, tutto al posto giusto. In una parola: bellissima. E molto corteggiata.
Ero su di giri mentre giravo la chiave nella toppa della porta blindata, la casa era immersa nel silenzio ma, quando mi sono avviato verso la mia stanza, ho visto mamma sdraiata sul letto matrimoniale e sono entrato.
Ho iniziato a parlare.
Con i miei vecchi avevo una specie di tacito accordo: io non esageravo e loro non mi assillavano. Così, negli ultimi mesi, capitava anche che raccontassi qualcosa di me, non era un obbligo, piuttosto un moto istintivo che sentivo ogni tanto. Più che altro con mia madre, che sapeva ascoltare senza fare smorfie o commenti da sapientona.
Quella volta ho iniziato a descrivere la giornata convinto che si stesse solo riposando, non so perché mi fossi fatto quest’idea, dal momento che non mi aveva neanche salutato, eppure lo davo per scontato.
Alle quindici e trenta non poteva dormire perché non ce n’era motivo. Semplice.
Così ho sintonizzato la frequenza su Elisa e il prof. di italiano, camminando avanti e indietro. Senza guardarla. Tanto sapevo che si era messa a sedere con la schiena sulla testata del letto e mi stava fissando con quell’aria curiosamente pacata di sempre.
Non saprei dire per quanto tempo ho chiacchierato, ma a un certo punto mi sono voltato, aspettavo una risposta. Che non è mai arrivata.
Lei era ancora sdraiata, nella stessa posizione di poco prima, perfino gli occhi erano rimasti chiusi. Non si era mossa di un centimetro nonostante il mio discorso concitato.
All’improvviso una strana sensazione mi ha raggiunto, un intero battaglione di formiche si addestrava alla camminata sui miei piedi, poi sulle gambe, su sempre più su verso la pancia. Lì si sono fermate e hanno iniziato a scavare. Avevo le interiora che friggevano.
C’era qualcosa che stonava.
Era troppo fredda.
Non riuscivo a svegliarla.
Il suo corpo sembrava da un’altra parte. Solo più tardi ho capito di aver sbagliato tutto perché quello che vedevo era tutto ciò che rimaneva di mia madre.

 

Di quello che successe dopo la telefonata al 118 ho ricordi strappati, un minestrone di facce, urla, corse e attese. Un particolare, però, mi è rimasto marchiato addosso: i flaconi trasparenti e le scatole di medicinali sparsi sul comodino. Alcuni in piedi, altri sdraiati e gli ultimi per terra, con il sedere in fuori. Tutti rigorosamente vuoti. Il contenuto aveva assicurato a mia madre un viaggio di sola andata per una destinazione nuova. Lontana. Irraggiungibile.
Mio padre era arrivato di corsa, sudato e con la testa per aria. Sembrava un gambero. Andava avanti e indietro perché non riusciva a stare fermo, spostava e rimetteva a posto, faceva domande, sempre le stesse, come un disco rotto. Era inesauribile. I dottori lo guardavano con un’aria di finta compassione che, in altre circostanze, lo avrebbe fatto incazzare ma quel giorno neanche ci faceva caso.
Mia madre era morta.
Tutto il resto assumeva le sembianze di un contorno fastidioso. Nebbia umida che si appiccicava ai vestiti. Ma sotto lo strato di tessuto, il suo cuore batteva senza capire. Si rifiutava di farlo. O almeno così sembrava a me, quando lo fissavo senza accorgermi di essere di troppo.
Mio padre non mi vedeva, non poteva e io lo capivo. Davvero. Il suo cuore stava vomitando e non c’era posto per niente e nessuno.
Io no. Avevo bisogno di parlare, di riprendere il discorso da dove lo aveva lasciato mentre lei rimaneva immobile.
Avevo paura.
Mi sentivo solo.
Volevo la mia mamma.

 

Un mese dopo ho iniziato a mettere via alcune delle sue cose, mio padre si rifiutava di entrare nella camera padronale. Dormiva sul divano. Aveva attrezzato tutto l’occorrente nel cassettone sotto le molle e ogni notte si faceva il letto. In silenzio. Con meticolosa precisione. La mattina dopo disfava tutto e quanto lo raggiungevo in cucina era sbarbato e odorava di colonia.
L’ultimo cassetto del suo comodino era un garage. Ci ho trovato di tutto: penne, segnalibri, campioncini di profumi, creme da viaggio, pettini e lega capelli. La tessera della biblioteca e un biglietto da visita.
‘Marzia Costantini.
Pittrice e Art designer’.
Così recitava il cartoncino pieno di rampicanti che si attorcigliavano negli angoli.
Non ci ho pensato.
Ho telefonato.
Senza un motivo. Forse mia madre aveva comprato qualcosa e non aveva potuto ritirarlo.
Marzia Costantini era una donna sulla cinquantina, con due occhi vivaci e una lunga coda di cavallo. Le si vedevano le ossa a ogni movimento ma aveva un viso disteso, liscio come una pesca.
Mi ha ricevuto subito, nel suo studio in pieno centro storico. C’erano dipinti dappertutto. Incorniciati e lasciati per terra. Nudi e appesi a ogni altezza del muro. Su cavalletti imponenti. Era la festa dei colori, delle forme e della vita.
Mi sono presentato di nuovo, pensavo di dover spiegare ma lei mi ha preceduto.
– So chi sei. Tua madre parlava sempre di te. Era molto orgogliosa.
Le formiche sono tornate, ma questa volta si esercitavano sul petto, all’altezza del cuore. Un, due, tre e quattro. Un, due, tre e quattro. Dietro front!
Mi ha accompagnato attraverso un corridoio lungo e stretto, nella penombra potevo vedere la carta da parati scrostata. Poi mi ha fatto entrare in una stanza e ha chiuso la porta dietro di me.
C’erano due enormi finestre aperte, la luce entrava ovunque, irriverente e forte. Potevo anche non muovermi da lì, sapevo dove mi trovavo.
Il regno di mamma. Ogni singolo oggetto parlava di lei. L’enorme tappeto rosso scuro di chiara origine persiana. Le vetrine dai ripiani lucidi, stracolme di oggetti di ogni tipo. Impeccabili. Rumorose. Ognuna aveva una storia da raccontare, di certo mamma le conosceva tutte, non comprava mai a caso.
Poi le ho viste. Tele di medie dimensioni, riposte su cavalletti bassi, cinque in tutto, occupavano la stanza in ordine sparso. Una era rivolta verso la finestra più lontana, forse guardava fuori mentre dipingeva. Un’altra riposava al centro della stanza, in attesa. Le rimanenti tre non avevano senso, non per me almeno, perché se ne stavano storte, qua e là.
Dipingeva. Mia madre.
Sono rimasto così, in piedi a pochi passi dalla porta. Impalato. Solo gli occhi spaziavano liberamente. Non riuscivo a muovermi. Ricordavo che al liceo aveva frequentato corsi d’arte, da bambino mi aiutava sempre con i disegni. Prendeva la mia manina dentro la sua e mi guidava nelle linee, finiva nasi e bocche o correggeva soli e alberi. Ma non sapevo altro.
Ignoravo chi era. E quel posto me lo stava urlando così forte da assordarmi.

 

Prima di andarmene mi ha offerto un tè. Bollente. Fruttato.
Marzia Costantini.
Mi fissava sorseggiando.
Sosteneva il mio sguardo.
Un sorriso accennato, gli occhi che diventavano tristi quando guardavano lontano.
Avevo un immagine nella testa che non riuscivo a scacciare. Là, in quella stanza dove mia madre si librava nell’aria libera e serena. Su un tavolino in legno scuro, dietro a una ballerina che mi faceva l’occhiolino avevo visto una fotografia. Dolorosamente recente. Mamma rideva, i capelli mossi dal vento, gli occhi come due bagliori notturni. Poi Marzia Costantini. Si abbracciavano. Strette. I cappotti non bastavano a tenerle lontane come vorrebbe il buon costume.
Mamma.
E Marzia Costantini.
Ho lasciato la gola in balia delle fiamme, ma non era abbastanza. Ci voleva qualcosa di più forte, che facesse molto male. Dentro ero già corroso, sentivo la carne viva che si agitava nello stomaco, tanti piccoli vermicelli viscidi che si grattavano scontrandosi su quel cuore che credevo stabile. Invincibile.
Ho visto l’illusione dei miei diciassette anni evaporare sopra di me e l’ho lasciata andare. Ormai non ne avevo più bisogno.