Senza cuore

30 dicembre 2007

Mi sono precipitata alla stazione.

Così com’ero. Vestito da lavoro e portafoglio.

Ho camminato a testa bassa fissando l’asfalto irregolare, la gente intorno mi infastidiva. Un’occhiata al tabellone elettronico e via. Di corsa. Verso il binario due.

Il treno era in ritardo di cinque minuti e già fremevo. Mi guardavo in giro cercando il controllore. Dovevo sapere se c’erano dei problemi. Se saremmo arrivati lo stesso per l’una. Se.

I primi movimenti ondulatori mi hanno rassicurato. Per tutto il resto del viaggio mi sono rotta le labbra a morsi, strappato unghie e pellicine inesistenti, massacrato un vecchio pizzicotto trasformandolo in un cratere eruttante muco biancastro e sangue. L’uomo seduto davanti a me leggeva. Calmo, concentrato. Mi ha lanciato sguardi fugaci, sospettosi. Qualsiasi cosa pensasse di me era ininfluente. Dovevo arrivare per l’una. Dovevo.

Sono saltata giù dal treno come in quei film in bianco e nero dove l’amato aspetta alla fermata. Trepidante, sorridente. Altro scenario, altra vita. Non c’era nessuno ad aspettarmi, non era il caso che venissero a prendermi.

Mi sono infilata in un taxi senza guardare la faccia dell’autista. Ho pagato allungando banconote a caso. Tutt’ora non so quanto gli ho lasciato in più.

Sono scesa sbattendo la portiera e lì mi sono bloccata. Piombata nel buco. Fagocitata da loro, le tre sorelle. Ansia, Incertezza e Paura. Un vago tremore al braccio sinistro. Suggestione.

Sono entrata usando la mia chiave. Erano anni che non lavorava, la poverina, e ha faticato a girare.

Lo scatto brusco sembrava il boato di un bicchiere che si frantumava sul pavimento.

Ho ripreso a correre, non era il momento di vacillare.

Ero arrivata.

Mancava così poco.

Lungo il corridoio non c’era nessuno, accaldata e sudata ho proseguito. Ampie falcate, rigide, silenziose.

Davanti alla porta c’era gente. Che solo dopo avrei riconosciuto.

Nessun saluto, nessun cenno.

Li ho oltrepassati e già le gambe si facevano pesanti. Il cuore martellava. Mi arrivava alle orecchie un brusio di fondo. Strizzate alla gola. Formicolii alle braccia. Avevo il naso rosso, nessuno me l’ha detto in realtà, l’ho sentito io, rosso.

La camera era sempre la stessa. Nella penombra mi ha risucchiato verso tempi lontani, nascosti nella memoria di bimba curiosa. Risate. Ti prendo? Cucù! Baci sulla fronte. Passa la febbre, piccola? Letture alla luce della vecchia lampada sul comodino basso. Magie. Bollicine. Gelato alla fragola. Torte di mele bollenti. Farina. Matite colorate. Profumi fruttati dentro i cassetti. Il bagno allagato. Risate.

Il letto era al suo posto, esattamente nella stessa posizione di sempre, attaccato alla finestra aperta con il comodino in angolo.

Gli scuri accostati bloccavano il calore ma fasci di luce sfuggivano alla fragile barriera e illuminavano squarci del materasso. Le lenzuola chiare erano accartocciate. Spiegazzate all’inverosimile. Il cuscino sottile piangeva. Lo sentivo singhiozzare avvolto dall’aria stantia. L’odore di disinfettante si mescolava a qualcos’altro. Pelle secca, abbrustolita, in decomposizione.

Le lacrime hanno iniziato a rigarmi le guance rispondendo ad un impulso. Non potevo controllarle, non ne avevo il tempo.

Il nonno non c’era.

Avevo fatto tutto quel viaggio all’improvviso. Con il cuore in mano. Trascinandomi, sperando perfino. Perfino.

Ma lui non c’era.

Sono rimasta sulla soglia, con gli occhi sbarrati, le braccia molli e le gambe inchiodate al pavimento rovinato dal tempo.

Il nonno era morto.

Senza di me.

Così l’ho lanciato, il mio cuore, dritto sul letto, tra le lenzuola scomposte. Lui ha rotolato per un po’ poi è scivolato sul pavimento.

Sono uscita.

Il sole mi ha bruciato la faccia. Ma era più facile continuare a camminare fino alla stazione.

Senza cuore.

Morire non era nei miei piani.

Mi spettavano altri quarant’anni (almeno) di vita. Cinquanta se ero fortunato. Forse non avrei combinato granché.

Forse.

Ma mi fa impazzire l’idea di non saperlo, cos’avrei potuto combinare.

Soprattutto non pensavo di morire abbandonato, solo.

—–

Info qui.

Il rosso è arrivato

21 dicembre 2007

Il rosso è arrivato.
Quel rosso che abbraccia tutto prima di scomparire, prima di lasciarsi inghiottire dalla notte che incalza, pretende, vuole essere la padrona anzitempo. Ma lui, il rosso del sole che tramonta in un pomeriggio invernale, lui non la manda a dire. Illumina i vetri, si riflette sulle superfi, scaccia le tende (le trapassa addirittura).
Ha aperto la finestra, l’aria fredda è entrata subito, un soffio gentile.
Ma è un freddo che sa di buono, di aspettative cullate, tempo allungato. Perchè l’aria lo sente, il rosso, e sorride.
Marco inspira. Lentamente. Assapora l’eccitazione, assorbe l’attesa, la voglia di fare (che di solito gli scivola addosso, lo stordisce giusto il tempo di farglielo credere, che farà insomma. Poi evapora, non c’è verso di ritrovarla e finisce spossato, confuso, tediato).
Marco aspetta.
Che il rosso gli entri dentro. E spera.
Che stasera. Stanotte. Finalmente sarà. Arriverà.

Sai

16 dicembre 2007

Sai che così non si può.
So che lo sai perché ti si arriccia la fronte quando mi guardi. E tenti di sorridere alle scemenze della tv.

Sai che certe volte c’è bisogno.
E non è per te. Sono io che mi sono persa, annaspo in acque grigie, torbide (forse non le guardo davvero, per questo sembrano putride, lancio occhiate svelte come faccio ogni volta che mi convinco di non farcela, non riesco, ogni volta che sento quel fastidio alle ossa, il battito che trema e la paura di rimare, rimanerci piantata, immersa in sabbie mobili dense, filamentose, raggrumate ).

Sai che gli spazi sono stretti, convulsi, strizzano i polmoni fino a farli sussultare dal dolore. Non c’è soluzione, però, è così. Di meglio non possiamo permetterci, non è proprio possibile che. E anche qui, se ti guardo riflesso nel vetro della bottiglia (la tua, quella frizzante fredda che posizioni a tavola con maniacale precisione ogni sera) se tento di acchiappare i tuoi occhi allungati, i contorni deformati, la bocca enorme, se lo faccio sento un disagio sotterraneo. Che striscia e si contorce a ogni gesto ripetuto, ogni volta che ci sfioriamo, rubiamo un bacio che scivola via (lontano, non è nostro).

Non mi sento.
Poi la nebbia è un animale selvatico che per sopravvivere mi afferra da dietro, con i gomiti preme sul collo e mi zittisce. Allora non ho più parole (come del resto capita spesso anche a te) e se non le dico, certe cose, poi di notte mi torturano. Sfregano la pelle e la fanno morire, succhiano linfa direttamente dal cervello (c’è una cannuccia speciale per queste cose, è spessa e sottile, affonda tra le cellule della testa e si arpiona con facilità alla materia, non risente dei movimenti – perché io mentre dormo non riesco a stare ferma, mi si informicolano le braccia – comunque lei entra attraverso le orecchie e loro escono. Loro, i pensieri trattenuti, mi odiano perché ho negato la libertà, ho impedito all’aria fresca di accarezzarli, ho frenato la gioia dell’uscita, ho allontanato la liberazione dalla scatola chiusa.)
Ecco perché non mi sento.

Sai che succede qualcosa quando arriva la nebbia, quando ci accarezziamo attraverso le bottiglie piene. Lo sai ma non capisci. Non è possibile che tu, che poi, che.
E non mi arrabbio più, mi sento abbandonata, lontana, persa in quelle acque che.

Quando un libro mi lascia un sapore, un certo sapore ecco. Penso che la lettura doveva arrivarmi proprio per quello, il sapore che mi è rimasto e che probabilmente porterò con me, è parte di me adesso.

‘Effetti collaterali’ è un romanzo che si potrebbe scomporre in due macro parti. La prima dove il lettore rimane disorientato, confuso, barcolla tra due personaggi che sembrano camminare su binari paralleli e di rado si sfiorano. Dopo, però, taluni pensieri si ricompongono, la maglia acquista consistenza e i punti passati diventano finalmente comprensibili. Allora il lettore esce dalla nebbia e inizia a farsi delle domande. Tenta di capire, spiegare, quei comportamenti che l’avevano lasciato perplesso, forse ha addirittura storto il naso di fronte a certe scene poi però.

I personaggi sono due, un uomo e una donna anche se è attraverso gli occhi di lei che il lettore arriva ad afferrare i fili, passati e presenti, perché è la voce della donna che racconta, piano, lentamente (molto lentamente) gli eventi (i suoi ma anche quelli del compagno). E’quindi una narrazione che può disorientare perché la storia passa attraverso una voce sola che salta tra i ricordi lontani e quelli più vicini, tra pensieri attuali e annotazioni passate, digerite eppure ancora latenti.

Questa è la storia di due persone sole, che vivono le rispettive solitudini dividendo un letto, una casa e qualche gesto. Come pupazzi che compiono gesti rituali e non si accorgono che insieme esiste un noi, che potrebbero confrontarsi, compiere azioni comuni. Non si accorgono perché il loro mondo è un altro. E’un mondo fatto di dolori taciuti, ferite celate, parole che sfuggono, si mescolano e sembrano così poco importanti da non meritare.

Lei è commessa in una panetteria. Lui lavora nella farmacia vicina. Si incontrano ogni giorno due volte, a pranzo quando lui compra il panino al prosciutto e poco prima della chiusura quando lei entra in farmacia a fare scorta di farmaci che lui le fornisce senza ricetta (e senza fare domande).
Si incontrano dunque e poco alla volta iniziano a cercarsi, ma non è un corteggiamento, non nel senso comune del termine. A un certo punto lui la invita a salire in casa sua (un piccolo appartamento sopra la farmacia) e lei non se ne andrà più. Non ci sono richieste, promesse o progetti. Perché non ci sono tante parole tra loro, non quelle ad alta voce, alla luce del giorno insomma. Le parole che si scambiano sono sussurri notturni.

‘ Abbiamo iniziato a dormire insieme. Ogni sera. Ogni sera, a letto, siamo stati vicini nella penombra. Ogni sera, mi hai raccontato qualcosa di te.’ (pag.42) e ‘Ogni sera mi hai raccontato un pezzo di questa storia.’ (pag.44)

‘Certe notti non dormivo.[…] Avvicinavo la bocca al tuo orecchio. Come se volessi mettermi a parlare, a raccontarti sottovoce anch’io le storie di quando ero bambina. I miei ricordi. Il tuo sonno era cullato dai miei pensieri.’ (pag.51)

Eccolo dunque il linguaggio adottato, il compromesso per rimanere estranei e sentirsi nello stesso tempo vicini, accomunati da traumi, dolori, ferite.
Perché questi personaggi coprono con il silenzio mali profondi, solchi indelebili. Lui schiacciato da una madre possessiva, ossessionata dal bene del figlio, e che si scopre fragile quando deve muovere i primi passi da solo (nell’appartamento lontano dalla famiglia). Un uomo pieno di insicurezze, che teme i rumori notturni e accetta la convivenza con una donna che non può avere (gli nega il sesso e ogni tocco più intimo) eppure la cerca, si preoccupa, tenta di guarirla, le procura ogni medicina poi le butta via in un ultimo gesto estremo. Un uomo sperduto.
Lei straripante di sofferenza acquisita, cresciuta dai nonni perché la madre si è ammalata poco dopo averla partorita (il padre si è poi accompagnato con un’altra donna). Lei che ha interiorizzato tutto, moti, sentimenti, l’atmosfera familiare di colpa e le frasi bisbigliate. Lei che vive una bulimia farmacologica perché i farmaci sono l’unica variabile certa in un equilibrio instabile, i farmaci dovevano curare sua madre così oggi li usa su se stessa, li cucina, li mischia a ingredienti, succhia pomate, ingoia pillole colorate.

‘ Mi immaginavo di rubare le medicine e di portarle alla mamma, per farla guarire. Ma non l’ho mai fatto. Me le mangiavo, invece, di nascosto. E non sono più riuscita a smettere. Non ce l’ho fatta.’ (pag.86)

Si tratta quindi di un corpo violentato, forzato, sul quale è stato scaricato tutto. Frustrazione, paure, dolore. Un corpo costretto a subire, che si trasforma, deforma. I capelli cadono. La pancia si riempie di bolle e croste, le prude, la fa urlare e le impedisce di riposare. Ma non è la pancia, in realtà, bensì quello che rappresenta (la maternità e quindi la madre che l’ha messa al mondo e poi è stata male, è ingrassata a dismisura ed è stata ricoverata, praticamente abbandonata da tutti, marito compreso). Il nodo cruciale è lì. Tra medicine incapaci di curare dolori dell’anima, sguardi che sottintendono e un passato scomodo, difficile da evocare, fatto di frammenti, aneddoti, pezzi di sofferenza sparsa.
Questa è la storia di una donna che racconta di una bambina convinta di aver provocato la malattia della madre. Colpevole quindi, alla ricerca di una pace chimica che non troverà mai. In continua fuga. Fuga dalla madre, dal nonno, poi da lui. Fuga da se stessa, dalle croste, dalla pancia e dai cibi cucinati con le medicine che solo lei mangia nel silenzio della cucina.

‘ Non è colpa tua. Non è vero che lo pensano tutti. Sono io, nonna. La mamma sta male da quando sono nata io’.(pag.78)

E’una narrazione sociale, che mostra i danni di un’infanzia pesante, desolante e desolata. Svela com’è possibile crescere una bambina con ferite così profonde da impedirle di essere libera, di lasciarsi ‘essere’.

Il romanzo è breve, scivola davvero come un tazza di tè fumante. Ma non ci si deve lasciar ingannare dalle frasi svelte, spezzate, ritmate. Ogni paragrafo è un tassello, una riflessione, un dettaglio vitale per la comprensione di un’opera più articolata di quanto il formato induca a pensare.

‘Effetti collaterali’
di Marta Pastorino
Merdiano Zero
Collana ‘Gli intemperati’
Isbn: 888237120-4
Euro : 6