Domenico Cosentino non te la manda a dire. Mai.
Le sue poesie sono graffi, urla rabbiose, sospiri eccitati, sbadigli indolenti e fotografie ingiallite ma precise di una realtà dura, fatta di pochi soldi, sporcizia, indifferenza, fumate e bevute.
A Domenico Cosentino importano poche cose, o almeno è quello che lui stesso grida tra le riga scegliendo parole anche imbarazzanti per chi legge ma pulsanti nel loro esprimere soltanto quello che è. Domenico Cosentino è incazzato, non ci sono dubbi, ma sarebbe troppo semplice fermarsi qui. Ci sono altri moti, sentimenti tra i versi che sembrano storti, devono esserlo per descrivere una vita sbagliata, troppo dura e disperata. Poi ci sono l’amore e il sesso dove l’autore è si, esplicito, cinico e a tratti rozzo ma non si nasconde, non gioca con le frasi per abbellire la scena, tutt’altro.
Ogni cosa, elemento, persona, circostanza si proietta nell’occhio del lettore attraverso un’angolazione che arriva dal basso ma non è bassa (il gioco di parole è più che calzante).
Così ci sono le consapevolezze di quei sentimenti vissuti correndo e di quel carattere difficile, complicato che l’autore non si risparmia, anzi si riconosce con la stessa naturalezza con cui addenta una banana.

“La noia ucciderà il nostro rapporto,
il nostro stare insieme ed amarci.
ti avevo avvisata.
tu ora ce ora cerchi negli altri qualsiasi sfogo.
ci si arriva facilmente a questo punto,
quando non si è presi dall’altro
quando ci si ama troppo in fretta.” (pag.16)

Poi ci sono le dichiarazioni, le parole che parlano per il Domenico Cosentino in crescita come individuo che si trova a confrontarsi con un mondo ostile, difficile, sordo.

“non voglio fare concorsi.
non voglio fare corsi di formazione,
né seminari.
non voglio iscrivermi al collocamento.
non voglio cercare casa.
non voglio respirare
bere
mangiare.ànon voglio scopare
non voglio parlare. “ (pag.32)

E quelle parole che sono interiorizzazione, scavo, ricerca di un se stesso imperfetto ma vero, vivo.

“ Io sono i miei sogni che non si avverano
io sono la bottiglia di birra con un dito di birra sul fondo
io sono un sigaro spento, e lasciato a morire nel posacenere.
Io sono le miei mutande sporche.
Io sono la puzza dei miei calzini sudati.” (pag.37)

C’è spazio per tutto, in questi versi, per l’interno come l’esterno che l’autore esplora con sputi e morsi ma non si risparmia. Osserva e descrive tutto senza freni, con l’acidità nello stomaco e la voglia di spezzare quelle catene che sembrano immobilizzare anche l’ambiente, la gente.

“ sono giorni che non ritirano la mondezza,
il puzzo è arrivato fin dentro la mia stanza.
al quarto piano.
la notte mi affaccio al piccolo balconcino
per prendere una boccata d’aria,
e riesco a vedere i topi
grossi come gatti, panciuti
che si danno da fare tra i rifiuti, freneticamente
tutto sta andando in malora e nessuno fa nulla. “ (pag.43)

oppure:

“ in via acquaviva
c’è sempre un’ambulanza,
sia di giorno, sia di notte
con il buono e il cattivo tempo.
sempre lì a caricare qualche povero vecchio,
derelitto, pazzo.
vi chiedo solo una cosa,
quando sarà il mio momento
NON chiamate quell’ambulanza
lì, in via acquaviva. (pag.83)

Ma anche la precarietà, le violenze subite per strada e la paura di non uscirne vivo perché in fondo, nel mondo di Domenico Cosentino sono tutti affamati e moribondi con il corpo o lo spirito.

“ ti puntano un coltello alla gola
e vogliono i tuoi soldi.
come se fosse dovuto.
sono in tre e non hai speranze.
in tasca hai solo cinque euro,
per loro sono pochi.
non sanno che con quei soldi
tu devi camparci per una settimana.
iniziano a picchiarti. “ (pag.95)

Le parole, come accennavo poco sopra, sono dure, a volte grezze, pesanti e usate con l’intento di colpire duro, sempre ma non sono un artifizio. Sono lì per un motivo, per liberare la rabbia e l’odio, per tratteggiare una realtà che negli occhi dell’autore è esattamente come descrive, frustate e indifferenza sorda, morte e fame. Ci sono alcuni componimenti dove si sentono vibrare intenti empatici, sensibili, a dispetto del linguaggio e delle imperfezioni nella punteggiatura che viene snaturata, usata secondo una logica che forse solo l’autore conosce.

“ la gente muore
e non si sa il perché.
la gente muore perché ha i polmoni distrutti
divorati,
da finissime fibre di vetro
provenienti dalla vecchia fabbrica,
che lavora metalli, lì a cento metri da casa mia.” (pag.107)

In alcuni componimenti non sono riuscita a entrare, la poesia è soggettività ai massimi livelli per me. Forse ancora più della prosa perché nei brevi componimenti le parole sono ricercate, anche una pausa, una virgola o un punto diventano importanti. E Domenico Cosentino come già ho spiegato non te la manda a dire. E’ duro, crudo, selvatico potrei dire, non si preoccupa di apparire troppo cinico o esplicito o feroce.
Ma resta una prosa che spurga, sputa e alza le mani, cerca di farsi sentire in mezzo al frastuono, prova a lasciare tracce e vuole colpire. Ci riesce quasi sempre, per quanto mi riguarda.
Pur restando una lettura meno diffusa, la poesia, in questi versi si sentono delle potenzialità che spero, l’autore continuerà a coltivare, tracciare nero su bianco.
Brevissima annotazione per la prefazione dove il libraio Michele Paparella aiuta il lettore ad avvicinarsi a un Domenico Cosentino che conosce bene e ne svela gli intenti, le fragilità e la voglia di scrivere a tutti i costi, contro tutti. Pagine delicate e sincere che dovrebbero essere rilette anche a libro terminato.
Meglio per tutti dare la colpa a me
di Domenico Cosentino
Graus Editore
Isbn: 978-88-8346-209-2

‘Cronaca di un disamore’ è un romanzo che parla d’amore certo, ma anche di demolizioni, ossessioni, mancanze feroci, ricordi che sopraffaggono, desideri e disperazioni.
È un romanzo semplice nella struttura della trama e nell’esposizione che diventa però assai complesso, un gioco di incastri, più affonda nelle viscere del personaggio, più strappa brandelli di un sentimento passato quanto presente.
Maurizio ha lasciato Luca e Luca non capisce, non riesce ad accettare la perdita, l’assenza, una fine che non gli torna, sembra un incubo da cui cerca disperatamente di svegliarsi. Allora ci passa sopra, ogni giorno un po’, ogni volta un frammento che rivive per poi gettarselo alle spalle. È un percorso lento, quello di Luca, che lui stesso non capisce, non è consapevole della strada che sta percorrendo, sente solo il dolore insopportabile e la perdita un organo vitale, il cuore che gli è strato strappato dallo stesso Maurizio il giorno in cui l’ha lasciato con ‘belle’ parole. Il cuore di Luca, dunque, si sposta con Maurizio mentre il suo corpo muta, dimagrisce e si contorce, si riempie di nuove cicatrici che sembrano sempre più vive e pulsanti. Sembrano.

“ Il semaforo scatta, tutti ripartono, e Luca resta lì a domandarsi dove sia Maurizio, e dove stia portando in giro il suo cuore.” (pag.94)

Di fatto in questo romanzo tutto è già scritto dai primi capitoli eppure c’è un’energia, una forza tra le righe che si afferrano solo assaporando i brevi capitoletti con calma, lasciando fluire i respiri di Luca, i brandelli passati che riemergono per poi essere lanciati lontano, sempre più lontano, proprio là dove non lo possono più scalfire solo che lui stesso non lo sa, non si accorge che sta percorrendo la strada del disamore. Perché Luca ama. Sempre e comunque. E fa di tutto per ritornare con Maurizio, lo cerca e lo desidera con l’intensità dei grandi sentimenti, lo sogna con la forza dei programmi mai realizzati, lo aspetta con la voglia di assaporare quel corpo imperfetto eppure rassicurante, che lo ha fatto stare bene.

“ Dormì. Non mangiò. Si svegliò di notte chiedendosi cosa gli avessero strappato dal petto. Capì che essere lasciati significa più di tutto essere derubati del futuro.” (pag. 96)

I due protagonisti sono adulti moderni, trentacinque anni Luca, più di quaranta Maurizio, eppure sono palpabili le incertezze, i ritmi ancora irregolari, le ricerche quasi adolescenziali che li portano a piacersi ma anche a dividersi.
In questo romanzo l’amore ha colori, odori, sapori, luoghi, voci, risate e singhiozzi. È un amore poliforme, mutevole. Tutto e il contrario di tutto perché, di fatto, è un amore che sta cercando in tutti i modi di andarsene, scomparire, zittirsi, allontanarsi. Disamore dunque, un processo strano, complicato, che il lettore avverte con certezza solo verso la fine, quando i gesti di Luca sono ormai esasperati, stralunati, sconclusionati nella loro dignitosa lucidità.
C’è una scena in particolare che decreta il percorso, che svela cosa sta davvero facendo Luca in mezzo al caos dei ricordi, delle finte speranze e dell’annullamento, ed è una scena semplice, delicata che Cotroneo infila delicatamente nella trama aspettando che il lettore se ne accorga da solo, che non è una scena della tante, è la scena che identifica il disamore.
Luca va a farsi una nuotata in mare, ha lasciato la città per concedersi una breve vacanza nella stessa casetta dove lui e Maurizio erano stati mesi prima, quando stavano insieme. Luca inizia a nuotare e ogni bracciata è faticosa, dolorosa. Luca è stanco, affaticato, avrebbe bisogno di riposare eppure continua senza voltarsi indietro, ogni bracciata lo porta sempre più lontano dalla riva finché si fermerà e noterà quanto si è allontano sicuro di non poter tornare, di non riuscire a ripercorrere lo stesso tratto eppure riparte. Bracciata dopo bracciata raggiunge la riva e rientra in casa. Così ogni sera prima della cena Luca si lascia avvolgere dal mare scuro e nuota sempre più lontano, ogni giorno qualche bracciata in più poi rientra. Eccolo dunque il disamore che chiude il cerchio, un allontanamento lento ma progressivo, costante.

“Piano, con una sicurezza crescente, capisce perché è venuto fin lì. Perché l’isola lo voleva. Pensa: nessuno si ricorderà di noi. Noi non ci ricorderemo di noi. Oggi sei entrato nel mio passato, nel passato della mia vita. Adesso capisce cosa succederà. Sarà sempre come oggi. Ogni sera, prima del tramonto, andrà a nuotare. Ogni sera si tufferà e si spingerà sempre più lontano …” (pag.132-133)

Non creda però il lettore che questa ‘cronaca’ sia scontata, banale. Tutt’altro. Il finale ci mostra un altro Luca sotto ogni punto di vista, come se il disamore lo avesse cancellato per lasciare al suo posto un’altra persona che si, si chiama sempre Luca ma non ha molti elementi in comune con il protagonista delle precedenti pagine. Ed è così evidente che questo Luca sa, di essere diverso, di avere bisogni che prima ignorava, di non riuscire più a vivere quei sentimenti che invece prima, con M erano spontanei, naturali. M è tutto ciò che gli resta del suo amore per Maurizio, neanche il nome per intero gli è rimasto.
Ogni tanto poi, in mezzo ai brevi flash del passato e del presente di Luca, Cotroneo inserisce capitoli che sono lì per tutti, per il lettore ma forse anche per se stesso. Capitoli che c’entrano con l’amore e quindi anche con Luca e Maurizio ma il lettore sente che è solo un dettaglio, per qualche paragrafo la storia non è più importante, resta in stand-by il tempo di concedere al lettore un ampio respiro e una riflessione per se stesso.

“ L’innamoramento, nei suoi comportamenti, presenta analogie con tre precise categorie di individui: gli affetti da disturbi ossessivi compulsivi, i tossicodipendenti, e le persone colpite da depressione” (pag.111)

Nella mia copia del romanzo sopra questa frase che inizia un capitolo deliziosamente crudo c’è la mia calligrafia storta che con la matita, mentre leggevo, ha scritto ‘meraviglioso!’. Appunto.

“ Pare che le lacrime siano nate nel corso dell’evoluzione della specie …[…] Nacquero così le lacrime basali. Ciascuno di noi ne sviluppa quindici centimetri cubici all’anno. Esse non si trasformano mai in goccia vera e propria, e servono in sostanza a tenere umido l’occhio. Esistono poi le cosiddette lacrime riflesse, quelle che sgorgano in seguito a un fenomeno esterno… […] E infine le lacrime emotive, detta anche psicologiche, che dipendono da fattori appunto emotivi. […] Le lacrime basali e riflesse differiscono completamente per composizione da quelle emotive. “ (pag.89)

Ossessioni, dipendenza, sbalzi d’umore e lacrime. Eccolo quindi l’amore nelle sue manifestazioni più comuni eppure così spesso banalizzato, ignorato per star dietro al ritmo della giornata, gli impegni e il lavoro. Non è così per Luca che davvero sente tutto e non si risparmia. Neanche quando Maurizio è solo M, neanche quando passa davanti a casa sua senza pensarci. Luca ha bisogno di essere toccato, di sentirsi ancora vivo, per non ripiombare in quel abisso che lo ha quasi risucchiato. Quasi.
La scrittura è semplice e ritmata, accompagna il lettore, i capitoletti sono intercalari veloci che solleticano la voglia di proseguire come se non ci fossero mai abbastanza parole per. Come se l’amore fosse più forte a ogni nuova pagina che ci si appresta a leggere. Come se l’annegamento fosse si lento ma anche dolce, contorto, sottilmente ironico e rassicurante. Come se tutti fossimo quel Luca.

“ Qualcuno, da qualche parte, quando ero piccolo, deve avermi detto che quando si è così amati non si può non amare, […] E io lo so adesso, lo so bene, che questa è la più grande cazzata del mondo, eppure non riesco a mollare, non riesco a mollarti, non riesco a non pensarti. Ogni ora che passa è sempre un po’ peggio. […] E tu salvami che sto affogando nel mare, e poi picchiami a sangue sulla spiaggia e fammi tornare a essere me stesso. “ (pag.38)

Cronaca di un disamore
di Ivan Cotroneo
I tascabili Bompiani
Isbn: 978-88-452-5982-1
Euro: 7

Valerio è il primo personaggio che ha iniziato a bussarmi in testa due anni fa. Ed è stato un bussare basso, all’inizio, una cadenza ritmica, un vago formicolio di quelli che non noti sempre ma sai che c’è.

Di Valerio sapevo già molte cose quando ho iniziato a guardarlo in faccia, mentre prendeva forma e si spogliava davanti e per me. Sapevo molte cose ma non ero sicura di capirle fino in fondo. E’stato questo l’ostacolo maggiore, forse lo è tutt’ora. Sapere ma temere di non riuscire.

Valerio è un personaggio complesso sotto molti punti di vista. L’ho amato molto, soprattutto quando ci siamo ‘conosciuti’ perché le sue fragilità erano così evidenti e il suo tentare di rimanere in piedi, a ogni costo, sempre e comunque mi faceva tenerezza. Avevo voglia di abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene anche se poi, sapevo (come so ora) che erano solo ridicole bugie neanche tanto velate per farlo stare meglio appena un pò, quel tanto che bastava a me per respirare in mezzo al suo dolore.

Poi sono cambiate alcune cose, tra di noi. Valerio ha tirato fuori altro, aspetti che evidentemente io non ero pronta a conoscere (prima) ma che poi mi hanno investita, avvolta. Aspetti duri, freddi, che mi hanno spaventato davvero. Perché andavano a colpire nervi scoperti, paure profonde, radicate e che non c’entrano con il sesso o l’età o le scelte di vita. C’entrano con cosa siamo. Dove andiamo. Ma soprattutto perché.

Valerio ha smesso di urlare da poco. Ha trovato una sua pace, credo. Io gliel’ho data, in effetti perché ne avevo bisogno quasi più di lui, sentivo che non poteva rimanere incastrato in una non – azione che da ormai un anno lo teneva sospeso, lo rendeva schiavo di un dolore davvero straziante. Ma non so se stia meglio davvero ora.

E capisco anche che può ‘suonare’ strano parlare di un personaggio come se fosse un amico intimo, quasi un amante in un certo senso. Può si, sembrare bizzarro, da svitata. Ma è così che è andata, tra me e Valerio. E ogni volta che riprendo in mano quelle pagine torna e ci riprova. A trascinarmi nel cunicolo buio e freddo che ormai è la sua casa nascosta, da qualche parte nella mia testa.

Valerio è la scelta che inbavaglia, da cui non si torna indietro. Ma è anche una vita a metà, vissuta a testa alta per non vederlo quel burrone così vicino, così ripido che rischia di ingoiarlo. Valerio è la sottile rabbia sorda che martella fino a sfinire, che sgretola le false certezza e sa di essere il più forte. Valerio si è costruito un’armatura per convincersi che va tutto bene, che lui sta bene e continuerà a fare del bene ogni giorno un pò. Ma tutto questo bene alla fine si è ribellato e gli ha mostrato cosa c’è dietro lo strato superficiale di calma e tranquillità. E quel qualcosa lo ha trasformato o forse, ne ha solo svelato le vere sembianze.

———

Ringrazio molto Erika Furci (che mi ha letta e commentata con sensibilità e onestà) e il team di Books Brothers per aver pubblicato un monologo di Valerio, dandogli per la prima volta sembianze esterne a me. Per chi fosse interessato lo si rintraccia QUI per ora ma lo pubblicherò anche qui su Frammentando prossimamente.

Di certi libri non si può parlare (scrivere in questo caso) per tanti motivi ogni volta diversi.

Nel mio caso non scriverò una ‘non recensione’ a questo romanzo, ‘Madri assassine’ di Adriana Pannitteri (Gaffi Editore). Non lo farò perchè la tematica che tratta mi stordisce, mi graffia da dentro da troppo tempo per poter mantenere quel minimo distacco necessario a commentare un testo nella sua interezza.

In questo libro ci sono aspetti positivi e negativi ma, come ho detto, non voglio soffermarmi sull’ ‘oggetto libro’, per fortuna non sono un critico, posso evitare uno schema rigido quando scrivo di un testo.

In questo libro ho trovato delle conferme.
Conferme legate alle analisi del fenomeno, l’infanticidio e più nello specifico di quelle dinamiche che portano alcune donne a uccidere i proprio figli. Conferme crude, macabre, dannatamente tristi e rabbiose. Eppure si, leggendo mi sono sentita immersa in una materia insidiosa ma che col tempo (ormai è più di un anno che studio e seguo le dinamiche), col tempo insomma ho imparato ad affrontare senza condizionamenti mediatici o teorie preconfezionate. Quello che si vede quasi mai è quello che è, nemmeno le madri stesse lo sanno, quello che è, non subito almeno e, in certi casi, neanche dopo.

” Una prima cosa che veniamo a sapere è che non sono malattie che si creano da un giorno all’altro. La dicitura ‘raptus’ che i giornalisti usano sempre è sbagliata e forviante. Ci sono, in ognuna delle storie riportate, lunghi periodi in cui il rapporto con la realtà, e in particolare con quella del proprio bambino, pian piano s’altera, fino a un punto di non ritorno raggiunto il quale bisognava uccidere…” (dalla postfazione di Annelore Homberg, psichiatra e psicoterapeuta, pag.117).

Questo per me è un nodo cruciale nell’approccio. Ne ho scritto anche nella prefazione a un romanzo (Gezim di Susanna Sarti) e si ritroverà in ‘Cicatrici’ (se mai prima o poi verrà pubblicato), pur non volendo cucirmi addosso un ruolo che non mi appartiene, ho sempre sentito che quel modo di raccontare, percepire le storie terribili delle madri assassine non può fermarsi alla mera catalogazione in ‘raptus‘ che lo snatura, di fatto, dal contesto, il passato e la ragione. Se è stato un raptus non era prevedibile. Ergo i parenti e amici non potevano fare niente. Ergo non c’era modo di prevederlo. Ergo la donna era davvero felice fino a pochi secondi prima poi le sono venuti dei ‘momenti di buio totale, spina staccata’ e basta. Ergo le madri assassine non si potevano aiutare prima del fatto. Ergo viviamo in un mondo di pazzi.
Più o meno funziona così, nelle discussioni a cena tra amici, nelle cene in famiglia, nei commenti davanti alla macchinetta del caffè e viadicendo.
E’certamente una valutazione di comodo, egoistica mi sento di definirla che ha un suo senso nell’essere imperfetti perchè uccidere un figlio è di certo una delle tragedie più sentite, dolorose e temute. Ancora più che uccidere un convivente, un amante… perchè coi figli si instaura (dovrebbe) un legame diverso, che ha radici in una profondità che nessun altro tipo di rapporto può raggiungere. Di solito. E allora quando arrivano certe notizie, queste, anche la mente di chi le vive da spettatore ha bisogno di trovare risposte (anche se fasulle), ha bisogno di individuarne le dinamiche e convincersi che non può succedergli. Convincersi che sarà diverso per la sua famiglia, gli amici e tutti quelli che conosce. Assolutamente. Allora arriva in soccorso il raptus che spiega tutto in fretta e bene. E ci rende schiavi di una motivazione subdola e sorda. In un certo senso le storie che oggi danno vita a ‘Cicatrici’ sono nate per demolire proprio questa dinamica moderna.

“Sono tornata a sedermi. Sola. Il dolore è diventato ribellione. Una rabbia che avrebbe voluto spaccare il mondo. Mi sono chiesta se tutti attorno a Manuela hanno finto di non vedere o non sono stati capaci di capire. Si gira sempre la testa dall’altra parte e si aspetta fingendo che il bene trionfi. E ho persino odiato gli uomini in camice bianco. Non ho avuto pietà per loro, imperfetti. Ho pensato a Debora, alla sua bambina com’era in una foto. I capelli ondulati, la pelle del viso morbida… odore di pesca, fragola, nuvole di soffice borotalco.
Ma in fondo si assomigliano tutti i bambini a quell’età. Ho guardato i suoi occhi dolci e grandi riempirsi di terrore, spalancati in una fuga impossibile.
E dentro, un tormento senza risposta.
Per Manuela, per Debora, si poteva fare qualcosa di più?” (pag.38)

Questa è la voce di Adriana Pannitteri, giornalista e donna sensibile, attenta che in un intermezzo si interroga, svela quei pensieri che , dentro l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere deve aver trattenuto, celato molte volte.
Questo è un’altro nodo stretto, strettissimo che spesso sento anch’io intorno al collo. Superata l’illusione del raptus, è davvero così difficile, addirittura impossibile, accorgersi di certi segnali? Non notare i malesseri, gli umori, i gesti e la sofferenza. Molte delle donne ricoverate a Castiglione erano già state da psicoterapeuti, chi più chi meno, eppure non era servito, non era bastato. Somministrazioni blande, pacche sulle spalle e sorrisi di gomma. Allora? Chi e come può? A volerle guardare da una certa angolazione, tutte queste vicende di morte, solitudine e dolori insopportabili, sembra che davvero nessuno possa. Eppure io non ci credo, non del tutto e forse, anche per questo bruciore che ho dentro, continuo a cercare, studiare, ascoltare. Forse.

“Talvolta le madri uccidono ciò che non sono riuscite ad amare, la loro stessa identità. Eliminado il loro bambino, spiegano i medici, è come se cancellassero la loro insoddisfazione ma anche la parte di sè che non amano, che non riconoscono e che dunque non accettano. Ci sono quelle che straziano i loro piccoli, ripetendo sul loro corpo ciò che magari hanno subito da bambine, come le violenze, il dolore degli abbandoni. E ci sono quelle che vogliono salvarli da un mondo crudele.
Accade qualcosa nella loro testa, come ‘un clic’ nel cervello, ma prima di quel clic c’è stato sempre qualcosa che gli altri non hanno capito. Nemmeno i medici. Quelle madri non hanno volti maligni, come pensava Lombroso, ma sono ombre, battiti di ciglia… chi guarda davvero negli occhi delle madri che stanno male?” (pag.44)

Ecco dunque la nuda e cruda realtà. Le madri assassine non sono donne indemoniate che sputano fuoco. Non sono creature nate malvage e dedite a riti satanici. Non mettono al mondo bambini con l’intento di ucciderli nel peggiore dei modi. La c.d. madri assassine sono un mondo complesso di silenzi (tantissimi, troppi), dolori, cicatrici del passato e del presente, difficoltà ad adattarsi ai modelli che oggi ci sono imposti (‘hai visto quella là che dopo due settimana dal parto sfila in passerella?’, ‘Ma lo sai che la Pina fa la pasta in casa e i suoi tre figli sono sempre ordinati, puliti ed educati?’). Sono creature che vorrebbero gridare, chiedere aiuto ma spesso non ci riescono, non sanno neanche loro come e dove farlo. Sono esseri umani, nient’altro, che perdono la rotta, non riescono a distinguere i contorni di giornate che diventano lente, soffocanti, piene di confusione e circostanze che faticano a gestire e sopportare ma che per gli altri sono assolutamente normali. E in questa normalità talune madri si smarriscono.

” Vorrei che tutti potessero vedere Maria P. come l’ho vista io e provare un pò di rimorso per le banalità scritte nei rotocalchi. Davanti a me c’è solamente una donne di ventinove anni che avrebbe potuto avere dinanzi a sè una vita felice e si è trasformata invece in una giovane madre divorata dalla depressione. Qualche medico l’aveva visitata ma non aveva capito. Si tende sempre a pensare che le donne quando hanno partorito diventano un pò noiose.” (pag.104)

Allora è questo il passo grosso, faticoso e complicato che tutti, come società ed esseri umani, dovremmo fare. Imparare ad ascoltare, non fermarsi ai gesti di rito, non lasciare che le cose si risolvano da sole perchè funziona così, lo dicono tutti.
Ma soprattutto non dimenticare che un papà e una mamma sono prima di tutto esseri viventi autonomi, con proprie identità, desideri, caratteri e bisogni. E amarli per quello che sono, offrire un aiuto anche se non richiesto, capire come vivono la neo condizione di genitori e non cedere all’egoismo, accettare anche la possibilità che possano avere dei problemi, delle difficoltà soggettive, delle imperfezioni insomma.
Perchè siamo tutti imperfetti.
Che ci piaccia o meno.

Quella carne

14 febbraio 2008

La sensazione.
Di calore dietro le orecchie.
Lo stomaco che si contorce ma non fa male, anzi. E’ eccitante quel movimento, le viene da sorridere.
Mentre parlano, tra la folla, in mezzo agli altri che programmano la giornata, le gite e tutto il resto. Mentre se ne stanno lì, in una specie di cerchio rotto dentro la hall dell’albergo lei non riesce a stare ferma. Non le piace l’alito del Giappi che, come sempre, si è ingozzato di salatini gratis e tramezzini alle nove di mattina. Né l’esuberanza di Paola, con quei capelli lunghi e lisci che non si capisce come possano resistere all’umidità e al vento fino a notte fonda.
Ma più di tutto c’è la sensazione, lo sguardo su di sè che sa, conosce fin troppo bene eppure ogni volta è diverso, la inebria..


Dentro l’ascensore lucido, claustrofico sospira, ora va meglio. Finite le discussioni, spento quel vociare noioso, insistente.
Ma quando le porte scorrevoli si riaprono lo vede davanti alla camera, appoggiato allo stipite.
Entrano e lei non sa cosa, come, dove. E’un gran casino che le esplode in testa e non le da tregua. Lui parla, come al solito, di questo o quello e si muove nella piccola camera come fosse a suo agio. Lo è.
Allora sgattaiola in bagno e si cambia, cerca di non pensarci, di ignorare il formicolio alla base del collo, le gambe che fanno le pazze e se ne vanno per conto loro.
Esce e lui è ancora lì, si alza dalla sedia accanto alla piccola scrivania e si avvicina.
Non lo guarda, non vuole sapere che espressione ha, lo sente parlare ancora e cerca di calmarsi, deve. Ma lo stesso quel qualcosa c’è, l’aria è troppo strana, vibra.
– Perché pensi che me ne starei qui a blaterale?
Cosa? Lei si immobilizza, non ha capito niente, di cosa parlava fino a poco prima e a cosa si riferisce adesso. Ma il tono. Cavoli. Quello l’ha capito eccome. Lo sente fermarsi alle sue spalle, i corpi premono. Il bacio sul collo è una scia invitante, calda.
– Possiamo… se tu…
No.
Non è sicura di averlo detto ad alta voce. Non le sembra. Eppure è un no. Non può essere altro. Boia. Il corpo è ancora rigido ma dietro di lei il richiamo è delizioso, tentatore.
Lui le sfiora i fianchi, il ventre, la stringe ma non c’è costrizione, è un abbraccio morbido.
No.
Certo che no. Eppure tace, le sembra la cosa più sensata da fare. Aspettare e vedere come va, starsene lì a godere del silenzio, dei respiri e non pensare, non agire.


– Non c’è un solo motivo per cui dovremmo.
Le è uscito all’improvviso, un soffio, anche se non sembra la sua voce, per niente. Lui non la lascia. Continua a strofinarsi contro di lei, ormai ha il suo odore ovunque e sta lottando. Per non voltarsi. Perché vederlo sarebbe, è, la resa.
– Sicura?
E’ un sussurro così eccitante che si sente cadere. Chiude gli occhi. Sicura dice lui. Tze. Di sicuro c’è solo che sono nella merda entrambi e mentre lo pensa le scappa un sorriso. Una mano le sfiora l’estremità del maglione, si intrufola sotto l’ombelico e raggiunge il primo bottone dei jeans.
Basta. Adesso basta. C’è un limite a tutto e se lui ha intenzione di superarlo allora, insomma, se è così, se proprio, se pensa e vuole, insiste e la stuzzica con quei modi che poi. Basta.
Si volta con uno scatto che non lo coglie impreparato. Bastardo. Lui la conosce, sa.
Inspira ed espira, si sente una stupida. La provoca perché non vuole decidere, aspetta che sia lei, come sempre, a valutare, frenare o forse no. Stavolta ha deciso lui, a quanto pare.


La mano slaccia il primo bottone, poi l’altro subito sotto.
Ancora non lo guarda. Quel viso è il suo peggior nemico, può ancora, se decide, se lo ferma, ci crede e rifiuta ma lo deve fare adesso, subito, allontanarsi e farlo uscire, chiudere la porta e riprendere fiato, poi tornare di sotto dove li aspettano e andare, stargli lontano, non sfiorarlo, non.
– Avevamo un accordo.
– Che abbiamo già infranto, in passato.
Le mordicchia i lobi, le mani sono ferme, la stringono a sé, le fanno sentire cos’è, cosa c’è che preme, quanto la vuole.
– Credevo…
Ormai balbetta.
– Anch’io.
Le labbra sono affamate, nervose.
Sono sempre tua sorella, pensa ma non è poi così importante adesso che, mentre quel bacio la inghiottisce e i loro corpi vibrano. Non quando loro sono, poi l’odore della pelle, la voglia e quel bisogno di cercarsi, spogliarsi, annusarsi con la fretta tra la lingua, i sapori sulle dita, dentro.
Non si torna indietro, sono due animali con lo stesso sangue e lo sanno. Sono due animali così simili che non possono, non riescono a evitarlo, hanno bisogno di unirsi, cercarsi, entrare e uscire da quella carne che è la stessa. E’la loro. Quella carne che da sola gratta, brama, non riesce a stare ferma.
Ma quando spingono è una liberazione, ogni volta sempre di più. Finché il piacere li lascia nudi e stanchi. In attesa.