Silvia Nirigua, classe 1973, vive e lavora a Bologna. Nel 2006 ha pubblicato ‘Un quarto di me‘ nella collana Gli Intemperanti di Meridiano zero, nel 2008 è uscito ‘La metà di tutto‘ nella collana ‘Cosmetici’ di Sartorio.
Quella che segue è una chiacchierata, un afferrare piccoli spicchi assaporandone il breve (ma spero succoso) piacere. Non seguirò, quindi, le comuni dinamiche delle interviste, di certo mancano molte domande che abitualmente si fanno.
Mi piacerebbe che ci fermassimo insieme, qualche minuto, in ascolto. Senza aspettative o pretese. Comodamente seduti. Uno (anzi due) libri, una donna e tanti frammenti che corrono.
Barbara Gozzi
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– Inizierei con le figure maschili. In ‘La metà di tutto’, ci sono personaggi maschili ma sembrano più meteore, necessari a tratti per alcuni svolgimenti e riflessioni ma, tutto sommato, marginali. Sbaglio? Ce ne vuoi parlare? Per contro, leggendo il romanzo ho subito pensato a una storia ‘di donne’, anzi più storie intrecciate e legate da un filo conduttore dove il rosa domina. Di fatto è la protagonista il centro del narrare, del sentire, è lei che ne scandisce il ritmo. Eppure ci sono altre donne che appaiono poi scompaiono nel corso della narrazione, altri velati spunti di riflessione. Ti sei sentita più declinata al femminile con questo romanzo o è stata una scelta ponderata e funzionale alla trama?
SN La protagonista del romanzo è una donna ma il suo genere è irrilevante ai fini della tematica trattata. La vera protagonista del romanzo è “la sofferenza” se vogliamo dirlo al femminile, “il dolore” se lo diciamo al maschile, ma il significato non cambia.
– Uno dei grandi ‘temi’ che emerge dalla lettura, striscia e rimane appiccicato alle pagine, è la condizione di dolore. Lo stare male. Il non riuscire più a trovare qualcosa per cui valga la pena vivere, eppure continuare ogni giorno a trascinarsi tra lavoro e routine, conoscenze nuove già dimenticate, calmanti vari nell’attesa che l’ennesima giornata finisca. Perché ti sei avventurata in una tematica che, tutto sommato, non è nuova ma resta mediamente impopolare? Dentro certi drammi che, forse, la società moderna preferisce non ascoltare, fanno poco clamore?
SN Credo che parlare di dolore sia stata una mia esigenza personale, un modo per cercare di riflettere sul mio e su quello delle persone più vicine a me. Il pronto soccorso è il luogo del dolore per eccellenza e mi sembrava una buona metafora della durezza della vita. Scrivendo ho scoperto pagina dopo pagina che gran parte della sofferenza dei miei personaggi era dovuta all’impossibilità di adattarsi alle regole che questa vita impone.
So che il dolore non è un tema “sexy” ma è importante farsi qualche domanda su come ci sentiamo costretti a vivere.
– Altra tematica sottile, sussurrata eppure dolorosa, importante è l’amore. Quello perso fra tutti, anche se poi, leggendo, si avvertono gli odori di altri tipi di amori (cercati, desiderati, vissuti ma non completamente, tentatori). Considerando che ‘Un quarto di me’ inizia proprio con una citazione di Stendhal (“L’amore è un fiore delizioso da cogliere sul ciglio di un abisso spaventoso.”), quanto è ancora importante o necessario, per te, scriverne? Questi strappi, buchi che sono voragini, lasciate da qualcuno che non tornerà, sono forse ancora troppo silenziosi?
SN L’amore è il luogo più pericoloso di tutti, come affermava Stendhal. Si trova ad un passo da un precipizio e ci vuole un coraggio non comune per percorrere quel crinale. E’ importante parlarne ora perché è passato di moda, ora le relazioni tra le persone vengono vissute in termini di funzionalità e costruttività, di obiettivi comuni, di quieto vivere. E l’amore non necessariamente coincide con tutto ciò.
– La narrazione in seconda persona è funzionale e non sveleremo null’altro per non togliere il piacere della lettura. Volevo, però, chiederti come sei arrivata a fare questa scelta e se è stato difficile per te, gestire e organizzare la storia attraverso un narrare che, mi permetto, è poco utilizzato e impone dinamiche precise.
SN La scelta della seconda persona è assolutamente funzionale, e si tratta di un tipo di narrazione che porta il lettore direttamente al centro della storia. Come se l’attore che si muove sul palcoscenico della pagina fosse proprio lui. L’io narrante è vicinissimo, incalzante, una scelta stilistica difficile perché a tratti può risultare ansiogena e claustrofobia. Per reggere un tipo di narrazione così intima bisogna alleggerirla, depurarla di ogni lungaggine descrittiva e puntare alla sintesi estrema
– In ‘Un quarto di me’ c’è una Silvia. La protagonista di ‘La metà di tutto’ si presenta come ‘Silvia Nirigua’. Mi piacerebbe, a questo punto, chiederti chi è, la Silvia Nirigua che scrive e perché scrive?
SN Silvia Nirigua è, spero, una persona libera. Libera di farsi delle domande e di non accettare la realtà supinamente per quello che è. Libera di vivere tante vite, come quella dell’anestesista del romanzo, e attraverso di loro farsi la sua idea personale delle cose. Libera di ascoltare ogni voce ma molto più attenta a “sentire” se stessa e gli altri.
– Hai voglia di riproporre qui un brevissimo stralcio, anche solo una frase del nuovo romanzo, che vorresti condividere con noi?
SN
“E io non ci sono più.
Ti ho lasciata in questo posto degradato senza più il beneficio della mia presenza, ti ho illuso di interessarmi a te per poi sparire misteriosamente”
– Ultimo spicchio: vorrei accennare al legame tra corpo e mente che mi sembra importante nella storia di ‘La metà di tutto’. Trovi che certi malesseri (a stomaco, testa, collo, schiena…) siano – a volte – concretamente ricollegabili ad altri tipi di disagi, a sofferenze emotive? E’ forse la manifestazione fisica di un ‘qualcosa’ che non riusciamo a esprimere? O siamo solo, nel ventunesimo secolo, più fragili?
SN Credo che la suddivisione tra dolore psichico e dolore fisico sia sbagliata, psiche e soma sono inscindibili, e quindi in certo senso tutti i dolori sono psicosomatici. Credo che a tutti sia capitato, presto o tardi, di provare un forte dolore “psichico” e di scoprire che aveva ripercussioni anche sul corpo e lo stesso vale per chi patisce un disturbo cosiddetto “fisico” che finisce per ritrovarsi fragile ed emotivamente più sensibile.
– Grazie a Silvia Nirigua.