Qualche domanda a Giorgio Sannino autore del recente romanzo ‘Il pianto delle falene’ (Edizioni Smasher, 2008).

Inizierei dall’elemento più forte e rischioso del tuo ultimo romanzo: il narrare in prima persona attraverso la voce della protagonista. Come sei arrivato a una scelta così delicata e controversa? Quanto è stato difficile infilare ‘quei tacchi’? Immagine di Il pianto delle falene

È stato difficile solo in parte, mi è risultato piuttosto naturale, quasi una scelta obbligata. Volevo parlare di una donna e descrivere quella che credo essere una delle fasi più delicate della sua vita, l’età matura e la sua consapevolezza. Per di più volevo che questa donna soffrisse di attacchi di panico, e scriverne in prima persona mi è parso fin da subito la forma più adatta, per via di una serie di considerazioni proprio legate al panico: una sorta di mondo strettamente legato all’Io di ognuno di noi. Ho incontrato le maggiori difficoltà all’inizio, in qualche modo non conoscevo ancora a fondo Katia, la protagonista. Poi il personaggio, e i personaggi, hanno preso vita e si sono fatti strada da soli, come spesso mi accade. È il modo che uso per capire se una storia funziona, altrimenti lascio stare.

A romanzo concluso, pubblicato e quindi dopo un ragionevole lasso di tempo dalla stesura, credi di esserci riuscito, a dare credibilità a una voce femminile o ci sono parti, aspetti, che oggi vorresti cambiare?

Ho rielaborato il romanzo più volte. Dapprima da solo, poi su indicazione dell’editore. Quella pubblicata è la terza revisione. Rileggendolo oggi, il romanzo mi pare decisamente femminile. Non intendo dire che sia adatto ad essere letto solo da donne, ma che forse potrebbe sembrare scritto da una di loro. Probabilmente ci sarebbe ancora da fare, e tuttavia mi chiedo se esista un limite, la stesura perfetta. Credo di no. Trovo Katia credibile e questo mi basta. Ci sono capitoli che mi piace rileggere e ogni volta mi stupiscono. A distanza di tempo, come giustamente intendi, si ha un occhio più obiettivo e soprattutto succede quella magia: leggersi come fosse la prima volta e come se si trattasse dell’opera di qualcun altro. Sono contento, il romanzo regge e ti porta per mano fino alla fine, questo è quello che provo e quello che mi arriva dai primi lettori. Va bene così.

Quanto c’è, dentro il personaggio di Katia, di te?

Io ci sono, ma poco. All’osso, l’inevitabile, se preferisci: il mio di cui non posso fare a meno. Per il resto ho rubato molto alle donne, soprattutto a quelle che conosco. Prima di cominciare a scrivere ho ampliato le mie frequentazioni femminili, le ho sbirciate, ho scavato. Ho perfino chiesto di guardare nelle loro borse. C’è un dialogo serrato fra Katia e Caterina, un personaggio non marginale del romanzo, durante il quale entrambe svuotano il contenuto delle proprie borse sul tavolo e si divertono a sezionarlo. E poi abitudini, sensazioni, miraggi femminili. Ho chiesto a tutte di provare a spiegarmi le sensazioni del ciclo. Non solo fisiche, anche sensoriali. È stato un viaggio unico, inimitabile. Ho avuto una certa difficoltà ad apprendere l’uso dei trucchi, ma ho scoperto di potermi innamorare di una crema da corpo al muschio bianco, per dire. E poi la magia del pensare femminile, il loro punto di vista sulle cose. Quelle quotidiane e quelle eterne. Poi, chiaro, c’è la mia parte femminile, che reputo piuttosto sviluppata e che ho scoperto avere un grosso potere ammaliante. Considera che io adoro le donne, le reputo decisamente superiori all’uomo da ogni punto di vista. In un certo senso ho scritto al femminile per invidia.

Da ‘Assolo’ a ‘Il pianto delle falene’ una delle evoluzioni più evidenti è la gestione di una storia che si svincola dall’essere soprattutto introspettiva (come appunto in ‘Assolo’) per mescolarsi a molto altro, attraverso vari e diversi personaggi che ruotano attorno alla protagonista e, in molti casi, ne determinano in parte le scelte, i comportamenti quanto i dubbi e le incertezze. Poi gli ambienti, le atmosfere, odori, colori e sapori. Cos’è successo al Giorgio Sannino che scrive, nel tempo intercorso tra questi due romanzi?

Ho continuato a scrivere, semplicemente. E letto molto, come sempre. Di Assolo sono state dette svariate cose, non ultima il fatto che si trattasse di un tipico romanzo di formazione. È in gran parte autobiografico, innanzitutto. E scriverlo mi è costato enorme fatica e direi sofferenza. Tutti ingredienti che con Il pianto delle falene non ho provato o ho provato in forma nettamente minore. Diciamo che ho scritto “Il pianto” con molta più facilità, perché nel complesso mi sono divertito di più. C’è molta più invenzione, proprio perché per nulla autobiografico. E divertendomi ad inventare ho dato vita ai personaggi, di conseguenza alle atmosfere e ai colori. È molto più vitale, limpido. Anche più facile, probabilmente, pur affrontando tematiche di una certa importanza. Nella versione iniziale i personaggi erano anche di più, poi li ho eliminati perché non necessari. Anche gli ambienti, i sapori di cui parli sono completamente nuovi. In Assolo cupi, a carboncino, monocolore. Nel pianto decisamente più luminosi.

Questo pianto inconsolabile, bambino direi, delle falene è, secondo me, un simbolismo molto forte che richiami in varie circostanze, intervallandolo all’evoluzione nella trama. E’ un lanciare sassolini, in un certo senso, in attesa che il lettore li noti per raccoglierli. Da dove arrivano le falene? Sono volutamente simboli di fragilità e forza, che quindi riprendono le caratteristiche di Katia, oppure c’è dell’altro?

Un sogno, innanzitutto. Le falene che piangono sono un sogno terribile che feci una sola volta, ormai non ricordo più quando. Me ne stavo in questa stanza devastata, piena di mobili e oggetti distrutti, cercando la fonte del pianto di bambino che sentivo nelle orecchie, fino ad accorgermi che a piangere erano falene. Mi arrivavano addosso da ogni dove, finché mi svegliai molto agitato. Sogni così, soprattutto se vividi, non ti lasciano indifferente. Pensai dopo qualche tempo, un anno circa, di farci un romanzo. Il simbolismo con Katia mi parve perfetto.

La vita della protagonista è, tutto sommato, simile a quella di molte donne over trenta che ancora si cercano e affrontano le giornate in perenne stato di caccia e attesa. Verso se stesse e il mondo attorno a loro. Eppure le crepe, quel lieve sfaldamento costante, ciclico, ne ‘il pianto delle falene’ mi sembra decisamente accentuato. Sottolineato. Come se cercassi di far voltare la faccia del lettore proprio lì. Pensi che le donne ‘moderne’, le trentenni, quarantenni di oggi siano più fragili, contraddittorie rispetto al passato? C’è più bisogno di ascoltare certi dolori ormai non più adolescenziali?

Decisamente sì. Non solo le donne, per dirla tutta. Oggi siamo tutti più esposti, soprattutto per via delle nostre stesse aspettative. Il panico di Katia deriva da un eccesso di aspettativa. Nel romanzo ho cercato di enfatizzarlo, perché il più delle volte chi vive in qualche modo sfasato rispetto alla realtà è così che si sente: un alieno. Ha voglia di gridare di esistere e di voler essere come gli altri anche se non sa esattamente cosa significhi. E soprattutto non si rende conto che gli altri non sono diversi. C’è più bisogno di ascoltare certi dolori. E meno li ascoltiamo più ce ne creiamo. In fondo il più delle volte basterebbe semplicemente parlare, comunicare. Quando Katia impara a farlo ha inizio la sua rinascita.

Katia ha superato i trent’anni eppure non ha ancora un compagno fisso tanto meno figli o una famiglia stabile accanto. Oltretutto si è lasciata un passato ingombrante alle spalle. Perché hai scelto una figura femminile ‘fuori’ dai c.d. ‘passaggi evolutivi’ che dopo i trenta vorrebbero la donna o sposata/ accompagnata (più facilmente con almeno un figlio) o in carriera (e quindi lanciata nel mondo del lavoro)?

Sono passaggi evolutivi non più così radicati. Oggi a trent’anni una donna non è più automaticamente compagna, moglie, mamma o in carriera. Katia ne ha trentasei, l’età di mezzo, per come la vedo io. In cui una donna può ancora tutto. Mi piaceva l’idea di dimostrare la possibilità di un inizio post trenta. Chiamalo ottimismo, se vuoi, anche se non mi sembra così straordinario. Anzi, ti dirò, nei miei libri mi piace dimostrare la straordinarietà dell’ordinario. Sta tutto lì, mi pare: vedersi straordinari e andarne fieri.

Nonostante il tipo di narrazione, le figure maschili ne ‘Il pianto delle falene’ sono importanti, direi determinanti. L’amico gay, il compagno part time, il misterioso amante desiderato, la figura paterna sostitutiva… ce ne vuoi parlare?

È vero. Tutti i personaggi, anche quelli maschili, sono determinanti e definiti. Non ci sono personaggi negativi e questo è un altro aspetto che mi piace sottolineare. Non è necessario, per come la vedo io, essere estremi, anche nella negatività. Anzi a volte la stessa persona avversa, da cui ci si allontana, è una persona positiva. La presa di coscienza del proprio posto nel mondo, la consapevolezza, sta anche nelle rinunce. Katia impara a non accontentarsi, non è affatto poco, mi pare. E lo fa fidandosi dei consigli di Peter, Paolo, Umberto, Nico. E Geremia, non dimentichiamolo: il fedelissimo gatto. Sono tutti personaggi dotati di propria personalità, mi sono sforzato di definirla, anche se a volte con brevi tratti. Il ruolo dei personaggi sta nelle loro azioni. La coerenza di Nico, l’istinto di Paolo, la schiettezza di Umberto, lo sguardo indagatorio di Peter. Katia non può farne a meno e, contemporaneamente, impara a non abusarne.

C’è una ‘certa’ elettricità che scorre in molte pagine, direi in interi capitoli. E’ una carica sessuale velata ma non troppo, che accompagna la protagonista pur nelle sue contraddizioni, nel sentirsi destabilizzata, in bilico, nelle fughe quanto nelle attese. E’ stata una scelta ponderata, necessaria a tratteggiare la protagonista?

Sì, assolutamente. Ho usato la sessualità – e la sensualità conscia e inconscia – di Katia per delineare lei e la sua psiche per molti versi instabile. È una donna attraente. Vive la sua femminilità come un’arma che non sa usare. Non sa togliere la sicura, in un certo senso. Chi soffre d’ansia, a livello patologico o quasi, si trova a proprio agio solo nei propri spazi. Sessualmente lei vorrebbe esprimersi più di quanto non faccia, così arriva ad essere sfrontata, accoglie Nico al primo appuntamento in casa sua e si fa trovare nuda ad attenderlo sulla porta. Ci sta, per come la vedo io, ma solo perché il tutto avviene sul suo territorio, se così vogliamo chiamarlo. Fuori di lì, per esempio a casa di Nico, questo non sarebbe mai potuto accadere, a meno di non conoscerlo già da tempo. Fuori dai suoi spazi, infatti, Katia diventa goffa. La sua sensualità non l’aiuta. Accenna timidi tentativi che finiscono in un nulla di fatto. Le aspettative la opprimono. Il bilico, le attese, le fughe di cui parli si esprimono alla perfezione con l’erotismo. A volte sfociano nella violenza. In un episodio lei ammicca a un superiore, il padrone del fast-food in cui lavora da ragazza e che la assilla con proposte indecenti. Infine Katia si inginocchia di fronte a lui e al momento opportuno gli assesta un morso al pene. Anche questa è un’arma. Senza sicura, per una volta.

Qual’è, secondo te, la principale differenza (se esiste) tra la scrittura di un uomo e quella di una donna?

Adoro Joyce Carol Oates, per dire. E Nick Hornby. Mi sembrano due fulgidi esempi di scrittura femminile e maschile. La prima descrittiva, umorale, a pastello. La seconda diretta, pratica, colori a olio, per intenderci. Eppure entrambe istintive, caratteristica dalla quale per come la vedo io non si può prescindere, anche se molta letteratura di oggi, invece, ne fa tranquillamente a meno. Nel mio caso mi piace sperimentare. Credo che leggendo Assolo non possano sorgere dubbi: scrittura maschile. Con Il pianto delle falene, invece, i dubbi sorgono, così mi dicono, se non altro per il nome stampato in copertina. Io sorrido sotto i baffi che non ho. Mi piace scrivere da donna e non credo che smetterò di farlo. In pratica ti sto rispondendo a caso, perché non credo di conoscere la risposta alla tua domanda. Ho scritto al femminile e basta. Non credo di averlo potuto fare per via del fatto di avere capito, anzi sono certo che non è così. Alla fine esiste solo l’urgenza. L’urgenza di dire cose. La forma e tutto il resto vengono dopo.

Grazie a Giorgio Sannino.
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Barbara Gozzi – Luglio 2008

Silvia Nirigua, classe 1973, vive e lavora a Bologna. Nel 2006 ha pubblicato ‘Un quarto di me‘ nella collana Gli Intemperanti di Meridiano zero, nel 2008 è uscito ‘La metà di tutto‘ nella collana ‘Cosmetici’ di Sartorio.
Quella che segue è una chiacchierata, un afferrare piccoli spicchi assaporandone il breve (ma spero succoso) piacere. Non seguirò, quindi, le comuni dinamiche delle interviste, di certo mancano molte domande che abitualmente si fanno.
Mi piacerebbe che ci fermassimo insieme, qualche minuto, in ascolto. Senza aspettative o pretese. Comodamente seduti. Uno (anzi due) libri, una donna e tanti frammenti che corrono.

Barbara Gozzi

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– Inizierei con le figure maschili. In ‘La metà di tutto’, ci sono personaggi maschili ma sembrano più meteore, necessari a tratti per alcuni svolgimenti e riflessioni ma, tutto sommato, marginali. Sbaglio? Ce ne vuoi parlare?  Per contro, leggendo il romanzo ho subito pensato a una storia ‘di donne’, anzi più storie intrecciate e legate da un filo conduttore dove il rosa domina. Di fatto è la protagonista il centro del narrare, del sentire, è lei che ne scandisce il ritmo. Eppure ci sono altre donne che appaiono poi scompaiono nel corso della narrazione, altri velati spunti di riflessione. Ti sei sentita più declinata al femminile con questo romanzo o è stata una scelta ponderata e funzionale alla trama?

SN La protagonista del romanzo è una donna ma il suo genere è irrilevante ai fini della tematica trattata. La vera protagonista del romanzo è “la sofferenza” se vogliamo dirlo al femminile, “il dolore” se lo diciamo al maschile, ma il significato non cambia.

– Uno dei grandi ‘temi’ che emerge dalla lettura, striscia e rimane appiccicato alle pagine, è la condizione di dolore. Lo stare male. Il non riuscire più a trovare qualcosa per cui valga la pena vivere, eppure continuare ogni giorno a trascinarsi tra lavoro e routine, conoscenze nuove già dimenticate, calmanti vari nell’attesa che l’ennesima giornata finisca. Perché ti sei avventurata in una tematica che, tutto sommato, non è nuova ma resta mediamente impopolare? Dentro certi drammi che, forse, la società moderna preferisce non ascoltare, fanno poco clamore?

SN Credo che parlare di dolore sia stata una mia esigenza personale, un modo per cercare di riflettere sul mio e su quello delle persone più vicine a me. Il pronto soccorso è il luogo del dolore per eccellenza e mi sembrava una buona metafora della durezza della vita. Scrivendo ho scoperto pagina dopo pagina che gran parte della sofferenza dei miei personaggi era dovuta all’impossibilità di adattarsi alle regole che questa vita impone.

So che il dolore non è un tema “sexy” ma è importante farsi qualche domanda su come ci sentiamo costretti a vivere.

– Altra tematica sottile, sussurrata eppure dolorosa, importante è l’amore. Quello perso fra tutti, anche se poi, leggendo, si avvertono gli odori di altri tipi di amori (cercati, desiderati, vissuti ma non completamente, tentatori). Considerando che  ‘Un quarto di me’ inizia proprio con una citazione di Stendhal (“L’amore è un fiore delizioso da cogliere sul ciglio di un abisso spaventoso.”), quanto è ancora importante o necessario, per te, scriverne? Questi strappi, buchi che sono voragini, lasciate da qualcuno che non tornerà, sono forse ancora troppo silenziosi?

SN L’amore è il luogo più pericoloso di tutti, come affermava Stendhal. Si trova ad un passo da un precipizio e ci vuole un coraggio non comune per percorrere quel crinale. E’ importante parlarne ora perché è passato di moda, ora le relazioni tra le persone vengono vissute in termini di funzionalità e costruttività, di obiettivi comuni, di quieto vivere. E l’amore non necessariamente coincide con tutto ciò.

– La narrazione in seconda persona è funzionale e non sveleremo null’altro per non togliere il piacere della lettura. Volevo, però, chiederti come sei arrivata a fare questa scelta e se è stato difficile per te, gestire e organizzare la storia attraverso un narrare che, mi permetto, è poco utilizzato e impone dinamiche precise.

SN La scelta della seconda persona è assolutamente funzionale, e si tratta di un tipo di narrazione che porta il lettore direttamente al centro della storia. Come se l’attore che si muove sul palcoscenico della pagina fosse proprio lui. L’io narrante è vicinissimo, incalzante, una scelta stilistica difficile perché a tratti può risultare ansiogena e claustrofobia. Per reggere un tipo di narrazione così intima bisogna alleggerirla, depurarla di ogni lungaggine descrittiva e puntare alla sintesi estrema

– In ‘Un quarto di me’ c’è una Silvia. La protagonista di ‘La metà di tutto’ si presenta come ‘Silvia Nirigua’. Mi piacerebbe, a questo punto, chiederti chi è, la Silvia Nirigua che scrive e perché scrive?

SN Silvia Nirigua è, spero, una persona libera. Libera di farsi delle domande e di non accettare la realtà supinamente per quello che è. Libera di vivere tante vite, come quella dell’anestesista del romanzo, e attraverso di loro farsi la sua idea personale delle cose. Libera di ascoltare ogni voce ma molto più attenta a “sentire” se stessa e gli altri.

– Hai voglia di riproporre qui un brevissimo stralcio, anche solo una frase del nuovo romanzo, che vorresti condividere con noi?

SN

“E io non ci sono più.

Ti ho lasciata in questo posto degradato senza più il beneficio della mia presenza, ti ho illuso di interessarmi a te per poi sparire misteriosamente”

– Ultimo spicchio: vorrei accennare al legame tra corpo e mente che mi sembra importante nella storia di ‘La metà di tutto’. Trovi che certi malesseri (a stomaco, testa, collo, schiena…) siano – a volte – concretamente ricollegabili ad altri tipi di disagi, a sofferenze emotive? E’ forse la manifestazione fisica di un ‘qualcosa’ che non riusciamo a esprimere? O siamo solo, nel ventunesimo secolo, più fragili?

SN Credo che la suddivisione tra dolore psichico e dolore fisico sia sbagliata, psiche e soma sono inscindibili, e quindi in certo senso tutti i dolori sono psicosomatici. Credo che a tutti sia capitato, presto o tardi, di provare un forte dolore “psichico” e di scoprire che aveva ripercussioni anche sul corpo e lo stesso vale per chi patisce un disturbo cosiddetto “fisico” che finisce per ritrovarsi fragile ed emotivamente più sensibile.

– Grazie a Silvia Nirigua.

Annotazioni su ‘Fidanzato in affitto’ e intervista semi (seria) a Eliselle.

Cristal sta aspettando il suo ragazzo che, stranamente, la passa a prendere puntuale. Si ritrovano in un ristorante molto alla moda, tra musica soffusa e camerieri pronti a scattare. Lui le riempie il bicchiere di buon vino. Si osservano.
Inizia più o meno così, ‘Fidanzato in affitto’. Alcune scene che proiettano il lettore in una realtà in salita (le leggere stonature si notano appena), si tratta di una realtà comune, in ogni caso, nessun effetto speciale alla Rambo o abbracci strappalacrime in stile ‘Amarsi’ con una Meg Ryan pronta a ricominciare e un Andy Garcia dolce, comprensivo e pazzesco (fisicamente parlando almeno). Niente del genere.
Due ragazzi normali che stanno insieme da due anni ed escono una sera, come molte altre, per cenare fuori. In realtà a Cristal le campane echeggiavano in testa da un po’, da quando lui le ha suonato al citofono in perfetto orario, per l’esattezza. Eppure certe volte bisogna andare oltre, superare i piccoli ostacoli e non pretendere la perfezione. È pressappoco quello che pensa la protagonista, indecisa se essere più stupita per la serata o più eccitata per il seguito che immagina…
Da qui in poi, tutto cambia.
E il patatrac inizia proprio con una frase, particolarmente azzeccata, pronunciata da Max (il fidanzato di Cristal) in un momento che doveva essere romantico:
« Al nostro domani […] che non sarà più come ieri» (pag.13)
In effetti, col senno di poi, il lettore non può che dargli ragione (solo per quello, comunque).

‘Fidanzato in affitto’ è un romanzo da intrattenimento che definirei ‘misto’. La scrittura è ironica e leggera, scivola tra bollicine e scene divertenti al limite del pianto. Ci sono le esagerazioni calcolate, i dialoghi dal ritmo cinematografico, così svelti ed efficaci a tratti da dare un corpo a ogni punto esclamativo. Di certo non mancano le situazioni assurde, surreali, che sfiorano alcuni di quei comportamenti etichettati come ‘da depravati’ e ricadono, inevitabilmente, nelle perversioni sessuali.
È dunque una storia che intrattiene piacevolmente: solo immaginarle, certe scene, è uno spasso. Eppure non è tutto. Ecco dunque, il motivo di quel ‘misto’ che ho usato poco sopra.
Ci sono storie che nascono con l’intento di divertire, per favorire quel rinomato fenomeno di ‘distacco’ dalla realtà e dai problemi il tempo di gustarsi qualcosa di vicino quanto lontano, credibile ma divertente, assurdo in quel particolare modo che lascia il sorriso, la voglia di alzare le sopracciglia una volta in più del solito.
Eliselle è una piccola ‘Campanellino’, sbatte le ciglia con fare angelico (sa, dove sta portando il lettore, e pregusta il transito con estrema sobrietà) poi vira, frena, si schianta anzi no, lascia che sia il lettore a farlo. Gli mostra nuovi scenari, lo avvicina ad altre realtà, gli fa saggiare quegli angoli più golosi, birichini appunto, poi torna a correre verso un nuovo scambio, per non perdere la prossima fermata.
Si parla di dominatrici e schiavi, in questo romanzo.
E già so che ho alzato l’audience.
Ebbene sì. Si parla di comportamenti, di ruoli, di tendenze sessuali quanto di stili di vita precisi, votati a, che cercano e danno. Si parla di certe ‘zone d’ombra’, quelle che solleticano la fantasia, senza dubbio, che fanno arrossire qualcuno o che scatenano commenti scandalizzati e occhiatacce. Si entra in un mondo poco ‘pubblicizzato’, che ha regole diverse e non si vergogna di essere.
Eppure, leggendo, ridendo, scorrendo le pagine di questo romanzo frizzante, qualcosa di meno patinato, di schietto e duro c’è – si sente – a dispetto dell’immagine in copertina e delle aspettative.
Dipende tutto dal lettore. Da cosa cerca, da come legge e fin dove è disposto ad addentrarsi, seguendo Cristal e le sue disavventure rocambolesche.

Partiamo dunque, dall’immagine di questo romanzo per chiedere all’autrice a che punto è ‘Fidanzato in affitto’.

Ciao Eliselle, mi chiedevo innanzi tutto se sei soddisfatta dell’ ‘immagine’ del tuo nuovo romanzo?… E per immagine intendo sia quella in copertina (scontata) ma anche come si presenta il libro, la fama che si sta creando attorno…

La copertina mi piace, fa capire chi è che sta “sopra” e chi sta “sotto”, e in fondo è il tema più immediato che affronta questo romanzo, i rapporti di forza tra donne e uomini. È un libro che si può leggere a diversi livelli: è narrativa di intrattenimento, e sono contentissima che diverta i lettori, ma i messaggi che lascia tra le righe sono i più diversi e molto più sottili. Magari chi lo legge può essere “distratto” dal “confezionamento”, ma credo che già a una seconda lettura ci si rende conto che non è proprio tutto lì.

Rimanendo sul tema del ‘ciò che sembra’, in questa storia i maschietti ne escano un po’ ammaccati. È così, o c’è dell’altro?

Un po’ sì, è naturale, anche se a ben guardare c’è spesso equilibrio. La protagonista viene maltrattata dal suo fidanzato, ma è anche vero che è pure colpa sua che glielo lascia fare. L’altro uomo che Cristal incontra lungo il suo percorso è uno che la giudica dalle apparenze, ma in fondo lei commette nei suoi confronti lo stesso errore. Gli uomini non ne escono bene ma ho cercato di bilanciare il tutto, perchè credo che (a parte casi estremi o particolarmente drammatici) le colpe delle incomprensioni tra uomini e donne siano da dividere (più o meno) a metà.

Buona. Cogliona. Forte. Coscienza. Paura. Soffochi. Peggio.
Sono tutte parole estrapolate da alcune frasi, in fondo a pag.37 che mi hanno colpito perché mi sembra che riassumano abbastanza bene il personaggio di ‘Cristal’ che nel corso della narrazione ha modo di farsi conoscere, modificando – in parte – l’impressione iniziale. È così? Ci vuoi parlare un po’ di come vivi tu, Cristal?

Cristal attua un passaggio, una presa di coscienza, sperimentando qualcosa che non fa parte della sua essenza. Attraverso ciò che è altro da sé si trasforma, nonostante non se ne renda subito conto. La sua situazione, all’inizio del romanzo, è come quella di un insetto chiuso in un barattolo che sta per soffocare, che però alla fine riesce a liberarsi e a volare via. La differenza tra l’inizio e la fine della storia è il grado di consapevolezza della protagonista, che arriva a imparare il modo di liberare la vera se stessa.

« È una festa fetish. Hai qualcosa contro le feste fetish?» (pag.39) Siccome io non sapevo bene cosa rispondere, mentre leggevo, ti giro la domanda. E già che siamo in argomento, hai voglia di raccontarci com’è nato l’interesse per l’argomento?

Non ho nulla contro le feste fetish, anzi, le trovo divertenti, diverse, intriganti. Il fetish è uno stile di vita, ne amo molto l’estetica e a volte mi è capitato di partecipare a feste di questo genere con grande curiosità e meraviglia. Sono una persona estremamente curiosa. L’interesse è nato proprio da questo mio amore per le tematiche particolari, spesso nascoste o troppo “di settore”, che risultano ostiche da capire per le persone che non ne condividono la linea e il più delle volte vengono liquidate come “trasgressive” o “deviate” senza una seppur minima ricerca sull’argomento.

Cristal ha due amiche che più diverse non potrebbero essere: Morgana e Alexia. La prima che vestirebbe sempre in lattice nero e la seconda che è una sorta di reincarnazione di ‘Carrie Bradshaw’ (la popolare protagonista del telefilm ‘Sex and the city’). Come e perché sei arrivata a tratteggiare questi personaggi?

Morgana e Alexia incarnano gli opposti, due opposti molto glamour, ognuna nel proprio stile d’appartenenza. Di solito nei cartoons la coscienza viene rappresentata da un angioletto e da un diavoletto che parlano alle orecchie del protagonista suggerendogli cosa fare e cosa non fare. Ho immaginato Alexia e Morgana con gli stessi ruoli: la più tranquilla Alexia e la più monella Morgana. Per questo dovevano essere e sono così diverse. Detto tra noi, io preferisco Morgana.

Mi è piaciuta molto, a un certo punto, la classificazione involontaria che fa Cristal degli uomini: amante, trombamico o nuovo fidanzato. Poi subentrerà ‘lo schiavo’. Insomma, secondo te la figura del ‘compagno’ e basta è passata di moda? O non è mai esistita?

Cristal parla da donna ferita e si lascia andare alle classificazioni sommarie. Certo è che la figura del compagno come io la concepisco è rara. Per compagno intendo una persona che ci sia, sempre e comunque, senza remore né limiti, che condivida senza paura il percorso insieme. In una mia personale visione del rapporto uomo-donna, in un rapporto di completa fiducia, il compagno è tante figure insieme: amante, complice, amico. Sembra quasi di essere troppo esigenti, no?

“ Alla fine, ognuno ha la schiavitù che si merita.” (pag.81)
E la tua, Eliselle, qual è?

Le scarpe. Non a caso ho messo la citazione della canzone La follia della donna di Elio e le storie tese, all’inizio del romanzo: “cosa sono i milioni quando in cambio ti danno le scarpe”. Ecco, è un omaggio al mio piccolo feticismo personale che mi rende schiava di un tacco dodici. Posso dire però che ne vado fiera!

‘Ogni donna vorrebbe essere al tuo posto’ si sentirà ripetere spesso Cristal e ti confesso che io, leggendo, mi sono chiesta più volte se è davvero così. A parte il lato divertente, ironico e – come ho già scritto – frizzante, di questo romanzo; credi che sia davvero così invidiabile questa nuova condizione che la protagonista vive a modo suo eppure accetta? Perché, a voler essere più cerebrale, il ruolo della dominatrice presuppone sudditanza (da parte dello schiavo), che è l’esatto opposto della tanto decantata ‘parità dei sessi’ che le donne sembrano cercare da sempre…

Se volessi rispondere in modo provocatorio, potrei citare Barbara Alberti, che nella rubrica fissa che tiene su A non più di una settimana fa scriveva: “I maschi picchiano le mogli gratis e poi vanno a farsi menare a pagamento. Uno dei mestieri più redditizi è quello delle mistress, specialiste che seviziano i maschi dietro compenso. […] Poveri maschi. O sotto, o sopra. Alla pari non ci sanno proprio stare.” Con questi presupposti anche le donne si devono adeguare, e a questo punto allora è meglio dominare, no? Voglio però lasciare da parte la provocazione e ti dico che io preferirei la parità autentica a un gioco di ruolo tra mistress e schiavo, nonostante la nostra sia una società che vede ancora ovunque rapporti di forza e poco equilibrio tra i due sessi.

Uscendo dalla storia per sbirciarne il backstage, se mi passi il termine, quanto ti sei divertita nello scriverlo e dove, invece, hai faticato di più?

Ho cercato di non mettere freno al mio divertimento personale e forse per questo la stesura è stata relativamente rapida, due mesi e mezzo. Ho seguito la traccia di un mio racconto precedente, Cercasi padrona disperatamente, e mi è risultato abbastanza semplice scrivere il romanzo perché sono ormai tre anni abbondanti che mi occupo di fetish, ho letto diversi saggi e libri sull’argomento, insomma mi sentivo preparata e sono andata quasi a ruota libera. Ho faticato molto nel tracciare la figura di Dorian, lo schiavo. Qui mi sono dovuta affidare alla mia sensibilità, intervistando e scambiando opinioni con schiavi autentici via e-mail. Spero di essere riuscita a renderlo quanto più “reale” possibile, anche perché questo è un argomento assai delicato.

Per concludere ti tocca la domanda più banale: Eliselle è più dominatrice o schiava? E bada che non valgono le mezze misure…

Dominatrice. Se non altro so organizzare e decidere con piglio risoluto diverse questioni di lavoro, e per farlo bisogna essere un po’ dominatrici, sotto sotto…

Grazie mille a Eliselle per la disponibilità e la pazienza.

Barbara

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[ n.d.a: se qualcuno fosse interessato ad approfondire la questione dei ruoli, nel romanzo si rintraccia un elenco di tutto rispetto di libri che trattano l’argomento… naturalmente non vi svelo a che pagina, vi toccherà leggere e faticare…dopo tutto… « È l’attesa a essere sublime, senza di essa non c’è godimento» ]

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‘Fidanzato in affitto’
di Eliselle
Newton Compton editori
pag.312 – E. 9,9
Isbn: 978-88-541-1127

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Annotazioni apparse su Declinate.

Il rosso dal nero

26 luglio 2008

Il rosso era il suo colore preferito.
Era, almeno credo.
Aveva tinto perfino i capelli, di un rosso biondiccio che su di lei era qualcosa di pazzesco.
Ci sono molte cose rosse, in giro. Non ci avevo mai fatto caso.
Non prima di entrare in quel bagno, vederla là, per terra.
Dopo tutto, forse non era il suo colore preferito. A Roxy piaceva più o meno di tutto. Purché fosse divertente e leggermente fuori dalle regole.
Leggermente.
Però, se ci penso adesso, non lo so. Non sono più sicura.
La verità è che non ci vedevamo più come prima
Prima di.
E mi manca
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Una delle mie tre storie importanti si chiama ‘Il Nero’ (titolo provvisorio, naturalmente).
E di recente sono tornata, li ho ritrovati tutti lì, ad aspettare, premere e reclamare.
Queste parole nascono appunto da questo ritrovarsi. Da un personaggio – Sara – e da un altro – Rossella -, due donne diverse. Diversissime. Che si incrociano.
Certi legami restano anche quando smettiamo di cercarli, crederci.

Barbara

> Le precedenti tre parti rintracciabili dalla categoria ‘interviste’ scorrendo i post


BG Che idea ti sei fatta di quello che si può o non si può fare? Ci hai mai pensato ascoltando tutte queste storie? Secondo te, le donne possono qualcosa o è un intervento che deve venire ‘dall’alto’?

SF Guarda, credo che sia un intervento che deve venire assolutamente dall’alto e in maniera molto feroce. Qualcosa che sia veramente dirompente. Perché questo non è un problema delle donne e basta, è un problema culturale tipicamente mediterraneo che ruota attorno alle donne che lavorano ma anche alla madre che fatica a scindere i ruoli. La Spagna per esempio sta facendo davvero grandi passi, Zapatero ha fatto delle leggi pazzesche, anni luce davanti a noi. C’è poi questa legge che è passata qualche mese prima delle nuove elezioni… obbliga i consigli di amministrazione ad avere il 50 % di partecipazione femminile, obbliga il genitore maschio a prendere il congedo di paternità altrimenti il congedo non viene riconosciuto neanche alla madre… non lo so, mi sembra che ci siano degli aspetti nettamente propulsivi rispetto alle leggi italiane. Serve uguaglianza su questi temi. E poi pene. Il Governo in Italia dovrebbe intervenire con una serie di norme e di azioni che favoriscano il lavoro delle donne ma poi ci devono essere altrettante pene, per cui se c’è un sentore di difficoltà o discriminazione rispetto a una lavoratrice madre, immediatamente dovrebbero scattare dei controlli. Bisogna far paura.

BG Forse, in alcuni casi è anche un problema di procedure e tempi.

SF Il problema è che di questi discorsi in Italia non gliene frega niente a nessuno. Se in Spagna uno dei ministeri importanti viene affidato a una donna giovane al sesto mese di gravidanza, è un segno così forte… di rispetto verso le donne, il loro lavoro e il loro poter essere anche madri… è un segnale così forte che immediatamente irradia. In Italia di queste questioni non interessa niente a nessuno. Non ci sono leggi, nel senso che quelle che ci sono andavano bene all’inizio ma si è imparato in fretta a piegarle, a raggirale con dinamiche sotterranee.

BG In effetti non sembra tanto una carenza legislativa generale, una mancanza vera e propria. Sono piuttosto tutte quelle dinamiche bisbigliate, le atmosfere che si riescono a creare attorno alle donne al punto da spingere a subire comportamenti… al punto che in molti casi o resti subendo, accettando demansionamenti o attacchi vai diversamente te ne vai. Non ci sono molte mezze misure, molte strade percorribili…

SF Non c’è niente per proteggere le donne contro queste dinamiche. Il precariato in Italia, ha peraltro legittimato quello che prima era qualcosa di illegale, in un qualche modo. Il precariato lo ha ufficializzato perché se il contratto ti sta per scadere e sei incinta, fine. Quindi ci vorrebbe veramente una rivoluzione sociale dall’ ‘alto’. Perché culturalmente non ce la faremo mai. Non siamo come i nordici attenti al sociale, educati e che riconoscono il potenziale anche delle donne. Noi siamo un popolo fondamentalmente egoista in cui ognuno pensa al proprio orticello e che tu sia il dirigente di una grande azienda o il proprietario di una piccola impresa, la donna incinta ti rompe comunque.

BG Sembrano ancora fortemente radicati ragionamenti maschilisti, in questo senso, che vogliono la donna ingabbiata in un certo ruolo e se tenta di uscire, appunto di lavorare ma poi vuole anche dei figli… allora non c’è quasi comprensione…

SF Per questo se queste dinamiche sociali non vengono spezzate davvero dall’ ‘alto’, con misure totalizzanti rispetto ad educazione, congedi parentali, pene severe, velocità dei processi o delle vie legali, part time, asili nido, orari flessibili… se qualcuno dall’ ‘alto’ questi aspetti non li cura, non possiamo aspettarci che sia la società ad arrivarci da sola.

BG C’è bisogno di dare la possibilità alle donne di dimostrare che quello che sapevano fare prima, lo sanno fare anche dopo un figlio. E che (magari) possono anche essere redditizie. Come emerge dal documentario, c’è un’incongruenza di fondo in talune dinamiche aziendali per cui si colpevolizza la donna per i mesi di assenza in maternità, ma poi, quando rientra, non la si mette in condizione di riprendere appunto a lavorare. Piuttosto la si tiene in un angolo, come racconta una delle donne, o comunque le si riducono le mansioni, le si togli il lavoro da sotto il naso sperando che se ne vada, in ogni caso con l’intento di farle pesare le precedenti assenze. In tanto lei è lì, e non può lavorare ma non perché non sia più capace, bensì perché non glielo si permette come potrebbe e vorrebbe.

SF Assolutamente. Infatti il risvolto devastante rispetto a queste dinamiche è che è tutto legale, sul mobbing la legislazione in Italia non è ancora mirata, non si capisce bene come provarlo, dimostrarlo… tutti elementi che fanno in modo che chi viene colpito da mobbing in un qualche modo è quasi totalmente abbandonato a se stesso. Alla fine se non arriva uno stravolgimento dall’ ‘alto’, non cambierà mai niente. E secondo me il cambiamento non arriverà certamente a breve perché non c’è nessun politico in Italia né di destra, né di sinistra che ha pensato di mettere in mano questo problema, questi argomenti a una donna che certe situazioni le ha vissute, che le conosce. Una donna che ha avuto figli, ha imparato a conciliare, ha magari subito certi trattamenti sul lavoro o comunque ne ha sentito parlare da colleghe e amiche, allora ci si rende conto davvero di quali sono le necessità e le misure da prendere urgentemente. Questi interventi non sono avvenuti nelle passate legislature ed è evidente che non avverranno in questa perché… ci sono appena quattro ministri donne di cui due senza portafoglio, è una cosa ridicola… siamo all’ultimo posto in Europa. Mi sembra che anche nei prossimi anni non cambierà nulla.
Ed è pazzesco perché poi ci si lamenta che in Italia c’è una natalità molto bassa, o che certe personalità di valore emigrano, quando si dice che comunque l’economia non gira perché le famiglie sono povere … quindi non fanno figli e allo stesso tempo le donne non devono andare a lavorare restando quindi sempre povere…

BG Vuoi dire che è un circolo che non si spezza ma anzi, si rafforza. Non ci sono figli ma non si forniscono gli strumenti per farli. Non si lavora abbastanza però le donne non le si vorrebbe nel mondo del lavoro, non se fanno figli almeno…

SF E tutto questo ancora non è niente perché tra trent’anni, quarant’anni, quando in età pensionabile ci saranno tutte queste donne che sono state costrette a lasciare il lavoro, avremo un numero di pensionate povere, che sarà veramente devastante. Ed è una follia, è una cosa tutta Italiana. Siamo un paese che veramente può davvero essere definito il più ricco del terzo mondo. E’ un paese cieco che non vede più in là dei prossimi tre anni, che non si rende conto del male attraverso cui stiamo passando e che il peggio deve ancora venire. Però siamo tutti pronti a credere alle favolette che ci promettono cambiamenti senza capire che siamo a un livello molto basso, il fondo non è ancora stato toccato ma rialzarsi sarà difficilissimo.

BG Ti ringrazio, Silvia per il tempo che ci hai dedicato.

SF Mi fa sempre piacere parlare di questi argomenti, e sebbene io sia una di quelle persone che ha scelto di lasciare questo paese per esasperazione continuo a lavorare su questo argomento e tornerò in Italia per presentare il documentario. Tacere sarebbe peggio, magari è considerato tempo perso da qualcuno ma non per me.

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Barbara Gozzi – Aprile-Maggio’2008

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