Liberamente tratto dal racconto ‘la scimmia’ di Pietro Grossi.
Un film realizzato da un gruppo di giovani professionisti del settore che hanno messo a disposizione senza compenso, esperienze, conoscenze, strumenti e talenti.

‘Torno subito’ apre una finestra.

Fa la scimmia.
Come?
Fa la scimmia.
In che senso?

Scoprire che un amico fa la scimmia. Vederlo, mentre si comporta come una scimmia. Tentare di comunicare con lui, osservarlo e non trovare un senso, una spiegazione logica, ragionevole.
Una finestra aperta in questo nostro mondo alla rovescia, dove i ruoli, i comportamenti, le aspettative sono predefiniti, obbligati.
Giovani che cercano, si cercano. Incerti, disoccupati o quasi, con dei sogni che sembrano nati per essere già persi, abbandonati. Legami forti quanto fragili, contradditori e complessi.
Incomunicabilità.
Voltare la faccia, vedere solo la realtà più accettabile, non ascoltare nessuno eccetto se stessi finché qualcosa si rompe, un evento assurdo stritola certezze, fa quasi sorridere ma è un sorriso amaro, confuso e insensato.
In ‘L’uomo che cade’ DeLillo fa dire a un protagonista una frase che è un macigno indelebile:
“ So che la maggior parte delle vite non ha senso.”
E ci sono, evidentemente, nel romanzo precisi riferimenti all’undici settembre e a come e quanto la vita è cambiata da allora in America (ma, secondo me, ovunque, con un senso ampliato, un cerchio che si espande).
In ‘Torno subito’ ci ho sentito un sapore simile. Un ‘non senso’ rispetto a regole sociali, un perdersi, scivolare e cadere che nelle generazioni dei giovani di oggi è ormai un rumore di fondo che risente evidentemente del momento storico, delle crisi economiche, culturali, politiche, etiche, relazionali.
Allora fare o essere una scimmia diventa una sospensione, un ‘Torno subito’ che è un modo per abdicare a se stessi, ai ruoli, i doveri, i fallimenti, i sogni irrealizzabili. Un mettere in ‘stand by’ la propria vita.
La scimmia ha una vita più semplice, sotto molti punti di vista. L’estetica, l’aspetto formale, il c.d. ‘buon costume’ non esistono, si annullano in suoni e gesti che forse non sottintendono nulla di diverso da quello che sono.
Richieste di ascolto.
Progetto coraggioso che merita un’ora o poco più tempo anche per l’intento consapevolmente fuori dalle ordinarie dinamiche del mercato.

Info varie e possibilità di scaricarlo gratuitamente: Torno subito on line

Un piccolo assaggio su you tube

La prima parola che mi viene in mente a proposito di ‘Prima di sparire’ è coraggio poi confusione, caos, non senso.
E su ‘non senso’ è necessario specificare: non senso per me, lettrice, che non conosce Covacich, non sa nulla del suo mondo, della sua vita, di chi è realmente quest’uomo.
Questo romanzo non ha personaggi, trama, sviluppi. O meglio: li ha, ma vengono direttamente dal mondo reale, non c’è fantasia o costruzione creativa. Questo romanzo è il racconto attraverso gli occhi di Covacich della realtà che lui stesso ha vissuto. Dunque i personaggi sono in effetti persone che esistono, i fatti sono accaduti ma qui, nel libro, vengono inevitabilmente riportati dal punto di vista di chi scrive, che è solo una delle possibili angolazioni.

Il motto che avevo in mente era: Questi fatti esistono, queste persone esistono, io esisto. Procedevo come rispondendo a un interrogatorio, giuravo a me stesso di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Ero il giudice e l’imputato.
(pag.278 – ‘Coi nostri nomi’)

È più frequente il processo inverso: che il lettore avverta o associ la storia con il suo autore, che ci senta aspetti della realtà di chi l’ha scritto anche se non è così. Per questo, secondo me, la pagina 278, che è una specie di ‘post scriptum’ di Covacich, andrebbe letta prima di tutto il resto perché c’è un grosso rischio, in questa lettura, se il lettore non sa quello che poi viene spiegato in ‘Coi nostri nomi’: incomprensione.
Incomprensione che può diventare noia verso una narrazione che si trascina, dove i personaggi si rincorrono senza arrivare da nessuna parte, dove il ritmo è un flusso pressoché stabile, né troppo lento né troppo veloce. Tutto questo perché l’autore si è imposto di raccontare fatti accaduti, la ‘sua’ realtà, la vita che ha vissuto in un certo periodo e che quindi, come tutte le quotidianità, non ha necessariamente picchi eccitanti, avventurosi, misteriosi, o che devono emozionare.
È la vita di Covacich, quella contenuta nelle 277 pagine.
La vita di un uomo che sopravvive di scrittura, in equilibrio instabile, che ama due donne in modi diversi e alterna decisioni a cambiamenti, che vuole e non vuole, che guarda ma non sempre vede.
In tutto questo dunque, c’è indiscutibilmente un grande coraggio, forse terapeutico per l’autore.
Ma il lettore, credo, faticherà a coglierlo.
Mi ero imposto un limite temporale, che coincide con il dialogo riportato alla fine. Avrei raccontato solo ciò che era accaduto prima, non ciò che stava accadendo durante la stesura. Io non succhiavo il sangue a chi, nel bene e nel male, condivideva con me il presente, il ricostruivo la vita che avevamo vissuto fino a quel punto, il punto di pagina 277.

Covacich impugna una videocamera e si registra con le parole che conosce, nel modo che conosce, attraverso i meandri della sua memoria, imperfetta per sua stessa ammissione ma il più lucida e precisa possibile.
Eppure credo che qualcosa, comunque, finisca per sfuggire al lettore, a me almeno che, come già accennato, non conosco nulla di questo autore.
E sfugge perché il romanzo è un progetto di un’intimità estrema, totalitaria, nuda.
Intimità che il lettore viola leggendo, che Covacich ha liberato, dato in pasto a chiunque sottoforma di romanzo, registrazione soggettiva e soggetta a interpretazioni; ma che conserva comunque una sua dignità, un certo ‘senso sospeso’, un aggrovigliare nodi svelati ma irrisolti.
In questo dunque, il lettore rischia la noia, l’impossibilità di entrare in una storia che incede rispecchiando i ritmi di un passato che non ha costruzioni vere e proprie, artifizi letterari, (forse appena qualche guizzo creativo in fase di stesura).

Nel romanzo che vorrei scrivere le stelle sapranno restare a letto, smetteranno di essere umiliate. Qui invece, nella penombra del mio soggiorno, ci sono io che riaccendo il cellulare, digito il pin e scrivo un sms: Ti amo.
(pag.32 – l’sms lo scrive all’amante dopo aver trascorso la serata con la moglie).

‘Qui invece’ è una chiave di lettura, talmente sottile che si perde, credo.

Non ci sono intenti precisi, in questo libro, eccetto raccontare di ‘un’ passato reale, una vita in bilico, un uomo fragile e combattuto, con le sue ossessioni, contraddizioni, confusioni e instabilità.
Dunque il sapore che arriva leggendo è quello che probabilmente in molti provano vivendo. Un sapore a tratti disgustoso, poi dolce, avvolgente, fino a incerto, in bilico, lento e stridente.

Penso che possa dirmi è finita anche un istante dopo che mi ha detto ti amo. Sono due frasi che si prendono a pugnalate in continuazione dentro lo sguardo di Susanna.
(pag.48 – Susanna è l’amante)

In alcuni punti la struttura linguistica, lo stile sorprende, annulla lo sviluppo in quanto tale e prende per mano il lettore togliendo il fiato.

Quando siamo tutti nella casa con gli alberi e la terra, dove Beppe e Ilaria hanno aspettato la morte, e giriamo nel salone con i piatti del buffet – frittata, lenticchie, cotechino, polenta, frico, formaggio – guardando le scatole di medicine sugli scaffali come fossero cd, quando ci stringiamo la mano, tra locali e foresti, tra foresti e foresti, e l’attrice col cappottino rosso non stringe la mano ma le unisce davanti al petto alla maniera indù, quando […], quando la vita comincia a prudere in modo così sfacciato che verrebbe voglia di tirar fuori le chitarre e urlare insieme le canzoni di Battisti, quando tutto questo succede, ovvero mezz’ora dopo che abbiamo lasciato Beppe piantato nel buio del campo VII con un concreto rischio di ipotermia, sento vibrare il cellulare.
(pag.85 – venti righe filate senza un punto. Si è appena svolto il funerale di Ilaria e la chiamata che riceve Covacich è di sua moglie che non è venuta alla funzione).

C’è poi una storia nella storia, un’altra narrazione che però non svelerò, lascio il piacere di scoprirla alla lettura.

Prima di sparire
di Mauro Covacich

Einaudi, collana ‘I coralli’, 2008
Isbn: 978-88-06-16864-3

Dell’avere bisogno

26 ottobre 2008

Avere bisogno di qualcuno è una delle più grosse fregature che esistono.
E non te lo insegnano, a scuola, a casa, basterebbe che qualcuno si prendesse la briga di informarti. Sappi che. Invece no, lasciano che lo scopri da solo, attraverso l’esperienza che fortifica – spiegano per giustificarsi.
Comunque questo è quanto.
Il problema è, stringendo, che a tutti capita, prima o poi. Di solito più prima, fidatevi.
E non è tanto l’ammetterlo, si arriva a  un punto in cui è impossibile non esserne consapevoli.
E’ proprio l’aspettativa generata dal bisogno, che logora, sfinisce, distrugge barriere e speranze.
Anche sulle speranze ci sarebbe materiale su cui dibattere ma per oggi lasciamo perdere, meglio non esagerare.
Avere bisogno, dunque. Che significa sapere che qualcuno (o più di uno) volendolo e potendo, sarebbe in grado di farti stare meglio. In molti modi, badate bene. Non c’è un’unica ricetta. Si può avere bisogno della classica ‘spalla’ su cui confidarsi o piangere, ma anche di un corpo (magari desiderato o amato, anche qui non necessariamente nell’ordine o in collegamento). Poi può essere semplicemente che basta un appoggio, una parola di sostegno. O ancora, una discussione, di quelle sane, da confronto costruttivo (costruttivo è una di quelle parole chiave che la nostra tecnologica e veloce società sta perdendo di vista, dimentica troppo spesso).
Il problema è che i bisogni sono unilaterali.
Diventano bi- laterali se, dall’altra parte, spunta qualcuno o qualcosa che riesce a soddisfarli.
E, guarda caso, quando si tratta di necessità di questo tipo è quasi matematica la fregatura. L’ uni resta tale.
C’è anche chi sostiene che ‘ognuno raccoglie quello che semina’. Beata innocenza popolare.
Io non lo so, se davvero funzioni così. Se proprio dovessi guardarmi indietro con occhio critico mi sembra di sentire uno scricchiolamento insistente. Ho come l’impressione che sia più una questione di opportunità barra fattore C barra fattore C barra fattore C.
Ma posso sbagliarmi, anzi.
Avere bisogno di qualcuno racchiude anche un’altra pericolosità che sarebbe meglio non trascurare, ovvero il riconoscere che da soli non.
E vi sembra poco?
C’è tutto un mondo di fragilità, paure, incertezze e insoddisfazioni dietro l’ammissione che ‘da soli non’. Oggi più che mai. Oggi che abbiamo tantissimi ‘modi’ e ‘strumenti’ per comunicare ma abbiamo dimenticato come si conosce qualcuno. Come ci si fa conoscere.
Allora io dico: basta!
Non bisogna avere bisogno.
Fine del dilemma esistenziale ombelicale noiosamente egoistico.
Non so, magari si potrebbe iniziare con lo specchio. Non è molto confortante subito, ma facendoci l’abitudine chissà. Quanto meno non si commuove se piangiamo o inveiamo.
E’ lo sgretolamento dei sentimenti, me ne rendo conto. Ma cos’altro si può fare? Quando un certo bisogno non trova un modo (anche piccino piccino) per essere soddisfatto, quando il fiume si gonfia e vede l’orlo è lì – sta per – ma non straripa solo per inerzia, resistenza passiva?
No.
Credo che oggi dovremmo imparare (e insegnare) a difenderci da bisogni così.
A costo di indurirci troppo.
Che poi.
Sono ‘belle’ parole ma devo ancora afferrare del tutto come ci si arriva. Intanto ci ragiono, sbatto e mi sbuccio.

C’è un sottile filo che unisce due autori contemporanei e due romanzi profondamente diversi: Chuck Palahniuk – Ninna Nanna e Don DeLillo – L’uomo che cade.
Il filo è davvero sottile eppure palpabile, è impossibile non notarlo.
Si tratta, secondo me, di un comunissimo ‘loop’, una dinamica semplice che si ripete ciclicamente, spesso silenziosa, che non si fa annunciare tanto meno pretende il centro dell’attenzione. Eppure c’è.

In ‘Ninna nanna’ Palahiunk ricorre spesso a ripetizioni che acquistano ogni volta un senso preciso, angolato, calzante con l’episodio o il preciso svolgimento della trama. Eppure, tra tante annotazioni a margine che ritornano, una di quelle più pressanti é:

” Il trucco per dimenticare il quadro d’insieme è osservare i dettagli da vicino. Il modo più rapido per chiudere una porta sulla realtà è seppellirsi nei dettagli.” (pag.46)

Un’affermazione questa, che poi trova riscontri precisi nella narrazione, il protagonista si concentra in effetti su dettagli, su singole azioni, obbiettivi semplici e pratici che gli impediscono di ricordare la famiglia persa (il dolore più grande, insopportabile) ma non l’obbiettivo principale (distruggere ogni copia della filastrocca). Ecco dunque che di notte (il momento peggiore, quando non sta lavorando e sono tutti più o meno a casa o comunque in compagnia dei propri cari) Carl costruisce modellini di edifici, si concentra su pezzi minuscoli e li assembla nel silenzio dei rumori che lo circondano.

DeLillo non lancia nessun amo, non la manda a dire. In ‘L’uomo che cade’ i dettagli colpiscono e basta. Dal primo capitolo. E’ come se, attraverso le descrizioni minuziose di gesti comuni, banali anche, l’autore tentasse di stordire, di sbucciare una realtà frantumata dall’undici settembre, da quei crolli che diventano ferite perennemente aperte per i protagonisti che comunque riprendono a vivere, ritrovano affetti, case, mestieri e routine solo all’apparenza rassicuranti. Il vero ‘click’ che scatta in ognuno è il loop delle piccole e semplici azioni ripetute a cui aggrapparsi. Che diventano riti salvifici. Anestesia dai pensieri bui, dal terrore di vivere. Attraverso questi gesti ripetuti, appuntamenti fissi in giornate che sembrano di pastafrolla, in mezzo a dialoghi lucidi quanto confusi, i personaggi rischiano di cadere in ogni pagina ma poi, in un qualche modo e ognuno diversamente, restano in piedi, resistono.

Dunque un filo sottile, un unico messaggio che passa attraverso due autori diversissimi eppure la percezione di un intento comune si sente, colpisce duro.
Davanti a un grande dolore, perdita fisica o sentimentale che sia, probabilmente esiste un bivio che nasconde infiniti percorsi intermedi ma le ‘macro scelte’ restano – forse – due: abbandonarsi totalmente, interamente, perdutamente al dolore o ridurre il campo visivo, concentrarsi sul presente, sulla praticità dei bisogni, sui piccoli ma grandi gesti da ripetere senza pensarci troppo, automatismi quasi. Dedicare, dunque, energie ad azioni semplici, microscopiche e proprio per questo meno rischiose, che non hanno retrogusti (di solito), non impongono grandi ragionamenti, ma obbligano a concentrarsi evitando virate.
E paiono perfino messaggi scontati, inutili.
Ma se ci si pensa sul serio probabilmente è già capitato, nel piccolo di ognuno, di applicare questa ‘regola’ silenziosa alla propria dura realtà.

” Si stava calando in qualcosa che era plasmato a sua immagine e somiglianza. Mai era se stesso come in quelle sale, mentre un mazziere annunciava un posto vacante al tavolo diciassette. Guardava una coppia di dieci, in attesa del suo turno. Erano i momenti in cui fuori non esisteva nulla, nessun balenare di storia o di ricordo a cui tornare inconsapevolmente nello scorrere monotono della carte.” (pag. 233 – L’uomo che cade)

” Trovava rigeneranti quelle sessioni, quattro volte al giorno, le estensioni del polso, le deviazioni dell’ulna. Erano quelle le vere contromisure al danno che aveva subito nella torre, nel caos della discesa. Non la risonanza magnetica, né l’intervento chirurgico che l’aveva riavvicinato allo stare bene. Era quel modesto programma casalingo, contare i secondi, contare le ripetizioni, i momenti della giornata che riservava agli esercizi, il ghiaccio che applicava dopo ogni serie. ” (pag.42 – L’uomo che cade)

” Lei viveva in una condizione di imminenza costante.
Si abbracciavano, senza dire nulla. Più tardi cominciavano a parlare in toni sommessi, che contenevano una sfumatura di tatto. Prima di parlare di cose rilevanti arrivavano a condividire anche quattro giorni interi di discorsi indiretti. Era tempo a perdere, progettato fin dal primo istante per non essere ricordato. ” (pag.218 – L’uomo che cade)

Senza titolo

20 ottobre 2008

VERSIONE BREVISSIMA.

Avrebbe potuto picchiarla.
O ucciderli tutti, lei e i gemelli.
Inspirò lentamente e la fissò dritto negli occhi.
Uscì.
Aveva con sé solo le chiavi della macchina.

VERSIONE INIZIALE.

Avrebbe potuto picchiarla, perché no? In fondo se ne stava in piedi, davanti a lui. Sembrava una strega. Lo era.
Poi quei lamenti continui, quel massacrante cigolamento era insopportabile. Però ‘son bambini’, dicono. Dunque.
Valutò un’altra opzione, drastica si, eppure non gli sembrava poi così terribile.
Ucciderli.
Inspirò lentamente senza muoversi.
La fissò dritto negli occhi arrossati, dilaniati.
La testa gli pulsava, più verso sinistra dove c’era la cameretta dei gemelli.
Uscì.
Aveva con sé solo le chiavi della macchina.

Foto, rielaborazioni ed esperimenti di scrittura di Bg, idea lanciata da questo post.