A testa in giù
26 settembre 2007
Sono sicura.
[E fai male.]
Sono padrona del mio corpo.
[Oh lo credi, mia cara, per ora.]
Ho imparato ad amare, a lasciarmi andare.
[Disimparerai. Vedrai.]
Non le è molto chiaro il punto.
[L’eccitazione è una bomba potente, pronta a esplodere. Potente quanto l’adrenalina che è un ormone, eppure sembrano parenti quando ci si mettono.]
Perchè ha paura? Sa che deve averne, di paura, ma è tutto così confuso. Equivoco.
Perchè si sente forzata? Paralizzata in una posizione che non è la sua, non è così che vuole stare.
[La tiene sotto di sè ed è esattamene così che deve essere.]
La mente. Il corpo. I gesti. Le parole.
Tutti negano. Urlano. Segnalano un’intrusione. Furia cieca da frenare. Bloccare in fretta. Il più in fretta possibile. Poi scappare. Scappare lontano e chiudere gli occhi. Solo che.
Solo che non serve, non è sufficiente. Muoversi. Far uscire parole. Agitare gambe e braccia. Perfino piangere.
[Lei si dimena ed è così giusto che non importa altro. L’odore della pelle, dei vestiti che sbatte lontano e si strappano. Del suo sesso. Secco o umido è ininfluente. Per quello che deve fare sa come preparla. Tutte le donne ne hanno bisogno, di essere stimolate, solo le professioniste sono autonome ma a lui non interessano. E’ sempre e solo una questione meccanica, lui lo sa e si da da fare aspettando.]
E’come trovarsi all’improvviso a testa in giù. Puoi dimenarti quanto voi ma niente di quello che fai serve. Continua a non capire. I significati si sono capovolti, sembra. La paura può confondersi con il piacere? Mescolarsi fino a diventare una brodaglia profumata e succulenta? Un pianto forse può essere sia l’una che l’altro. Forse.
Lui non sembra preoccuparsene, ha una sola versione in testa e quella gli basta. Quando l’acceleratore è premuto non gliene frega un cazzo di chi travolgerà durante la sua corsa. Perchè è la sua corsa, sua e basta. Di chi non ascolta e prosegue. Strappa. Stordisce. Entra. Sbava. Tocca.
[Lo sa e si da da fare aspettando.
Aspettando che l’eccitazione prema così forte da fargli esplodere il cervello. Quando proprio non può più aspettare e ciò che rimane di superfluo verrà spezzato, allontanato. Senza cerimonie. E allora? Il piacere è piacere. Non servono convenevoli. E i ‘no’ sono così dolci da diventare mugolii necessari, preludio al finale. Il suo finale, quando il corpo arriva sul burrone e si getta. Il dopo è già oltre. Lontano. Conta il lancio, sentire.]
Cosa si può fare? Se lo sta chiedendo ossessivamente ma è solo un modo per tenere occupata la mente. Lei sa. Sa che non troverà una risposta. Perchè non c’è una soluzione. Non per lei. Non adesso. E’ confusa. Ormai non si torna indietro. Lui è già arrivato e la lascia. Così.
[Dannazione. Sentire è tutto. Senza è come morto, uno qualunque che si fa le seghe in solitudine e non conclude niente. Sentire è tutto.
E se lei ha un’altra idea.
Se.
Lei.
Piagnucoli pure. Sono lì adesso, lei sotto. Pronta, sudata. E’ora di agire, gestire ritmi e gesti. Arrivare.]
La lascia così.
Così.
Seminuda. Con qualche livido. Il seme sparso tra le gambe doloranti per lo sforzo, nel tentivo di impedire. Il seno arrossato per le strette violente. E quella sensazione di schifo.
Schifo.
Repulsione (verso se stessa).
Annullamento (perchè da oggi questo non è più un corpo che prova piacere, avverte giusto la pena e si nasconde, si celererà anche a se stesso).
Ferita che sputa. Silenzi (presenti e futuri, necessari quanto imposti).
Silenzi.
[Niente ha senso se il piacere non è violento. Incontenibile. Duraturo e preteso.
Allora ciò che resta è solo una conseguenza, che vive perchè respira. Nient’altro. Resterà lì finchè lui se ne sarà andato.
Soddisfatto.
Appagato.
Come deve essere.]
Negare non è servito allora.
Accettare sarà sufficiente?
Aste Fiorenza – Cocci di bottiglia
25 settembre 2007
All’origine della lettura c’è stato un errore. Uno scambio per l’esattezza.
In uno di quei rari momenti in cui i programmi sembravano incastrarsi alla perfezione, aspettavo un libro che mi è arrivato tra le mani il giorno dopo averne concluso un altro.
Tempismo si potrebbe dire. Richiamo ho pensato io, con un sorriso ebete.
Sta di fatto che ho aperto il pacco in fretta (i libri mi trasformano in una bimba invasata davanti alle caramelle) poi sono rimasta immobile. La copertina. La grafica. I caratteri. Li conoscevo eppure. Eppure non era lui, quello che aspettavo.
Era ‘Cocci di bottiglia’ di Fiorenza Aste.
Di cui avevo letto un’appassionata recensione di G.Franchi che mi aveva emozionata. Ricordi vicini eppure già lontani. Flash di facce. Letture fugaci on line.
Ho deciso. I libri tra le mani chiedono solo di essere letti e sapevo che questo sarebbe stato un viaggio tra emozioni intense. Graffi.
C’è una prefazione di Antonella Lattanzi che è un frammento di storia tra le storie, un’introduzione che vorrebbe presentare ma non ci riesce perchè a conti fatti sono altre le cose da dire, da spiegare a chi non sa. Tante sono le sensazioni, le percezioni di un testo e di una donna, la Aste, che emerge dai racconti e non teme il dolore, lo condivide. Antonella Lattanzi racconta di un parco, di un cane che le si è avvicinato e di una telefonata con l’autrice che l’ha fatta sentire a casa, le ha fatto arrivare parole e sensi già risvegliati dalla lettura di “Cocci di bottiglia”. Una prefazione che è il battito di ali delicate ma acute, lucidamente profonde, che trasforma l’oggetto libro in uno strumento di conoscenza. Perchè dentro “Cocci di bottiglia” ci sono tre donne e un uomo, quattro persone le cui voci hanno toni diversi, presenze che si alternano ma che lasciano al lettore piccoli doni. Il cuore che pulsa e sanguina, le mani che dirigono e le pennellate sfumate ma decise sono della Aste ma le vene che portano in giro quel sangue sono della Lattanzi così come la pelle che racchiude ogni coccio non può che appartenere a Francesca Mazzucato. In ultimo, per rispetto e intelligenza, arriva la voce di Gianluca Ferrara, editore atipico che vive di testi capaci di trasmettere e lotta dentro un mercato che invece si nutre famelico di proiezioni di vendita e marketing.
Entrare nei dodici racconti è un risucchio. Un universo di colori, odori, percezioni e dettagli. Piccoli si potrebbe pensare, quasi insignificanti e invece. E invece è proprio in quegli elementi di margine che si nascondono i sentimenti intensi, crudeli, tristi. Reali. Mollemente appiccicosi.
La vita è un insieme di dettagli che spesso ci scivolano dalle mani senza che ce ne accorgiamo ma che racchiudono percezioni prepotenti che possono trascinare in un viaggio da cui non si torna. Non del tutto e non come prima.
C’è una patata pelata che intorpidisce l’acqua in cui viene immersa. Ci sono espedienti olfattivi di una forza impressionante come l’odore di casa.
“Quell’odore. Si sente quell’odore appena si entra dalla porta di casa. Non sa che odore è. E’ l’odore della casa.” (pag. 39)
Lo stesso sentire che anch’io più volte ho provato a spiegare ma non ci sono termini appropriati. Casa mia ce l’ha quest’odore che non è lo stesso delle altre case e la Aste trova così l’espediente letterario per farci entrare il lettore.
Oppure c’è una certa sensazione che sale fino alle labbra riunendo due stimoli contrari:
“Ha una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Come se avesse fame e nausea insieme”. (pag. 85)
Poi sarebbe infinita la lista dei dettagli visivo-olfattivi che emergono dal tessuto narrativo risvegliando nel lettore emozioni associate alle parole.
“Ha un colore noioso. Latte e luna. Liscio e floscio”. (pag. 51)
oppure
“La voce suona grigia nella stanza nuda. Chissà perché è così nuda, pensa. Tutta bianca di formica e di metallo.” (pag. 66 )
In mezzo a tutto questo “sentire” emergono annotazioni, riflessioni importanti che si annidiano tra i respiri. Tutto nei racconti della Aste arriva e si incolla in un continuo valzer di contatti.
“E’ perchè leggo troppo che sono così. Noi tutti siamo condannati a sapere. Sdraiati sui letti e sui divani e condannati a sapere. Non è una bella cosa.” (pag. 63)
Oppure ancora
“Tutta questa gente condannata a sapere. Anche i bambini. Così piccoli e già vecchi. Decrepiti.” (pag. 73)
Quando poi l’olfatto e la vista entrano anche nei racconti e portano il protagonista di turno a tornare indietro con la memoria, a ricordare qualcosa o qualcuno che sembrava perso, ecco che il processo della Aste è completo, si chiude un cerchio. Sono associazioni. Le stesse evocate dal flusso di parole poi associate a puntuali percezioni soggettive e per questo variabili e incontrollabili.
“Un odore. La faccia di mia madre. E’ improvviso e violento. Viene e va.” (pag. 100)
Ho pensato, mentre leggevo, a come tratteggiare questa raccolta di racconti coraggiosi, intensi, delicati e dolorosi. Ho pensato a come riuscire a spiegarli senza sminuirli, senza farli sembrare qualcosa che non sono.
Ma non c’è un modo.
Bisogna leggerli e non è retorica. La narrazione della Aste ha tanti strati, tanti sussurri, tante percezioni racchiuse in parole usate con sapienza. E’ un libro che richiede più di una lettura, senza dubbio, perchè quello che ho sentito oggi probabilmente sarà diverso fra qualche mese o magari un anno. I racconti hanno quell’alone di sospensione che abbraccia il lettore e lo trascina verso ragionamenti soggettivi, che dipendono proprio da lui, dal lettore, sospeso negli spazi e nei tempi modulati dalla Aste. Qui il bagaglio di esperienze e percezioni di chi affronta la lettura può fare la differenza nella decodifica degli elementi.
Non è quindi un libro facile, tutt’altro. Scivola veloce ma bisogna entrarci per bene, accettare le emozioni che sgorgano, le attese, il pulvuscolo negli occhi. E non si deve avere fretta.
Alcuni racconti li ho già letti due volte. Ne avevo bisogno e lo consiglio a tutti. Leggere. Riflettere. Poi di nuovo tornare, ripartire. Arriveranno nuovi odori che la prima volta vi avevano appena sfiorato, credetemi.
Cosa mi è rimasto addosso dunque? Cosa porto con me di questo libro così graffiante? Solitudine. Insoddisfazione. Tristezza (quel tipo di tristezza che si fissa nelle ossa e ti fa cigolare a ogni movimento, sempre). Passione non sfogata, erotismo sussurrato. Dolcezza. Quel senso di incapacità e consapevolezza dell’incapacità. L’incomunicabilità (pesante eppure sopportata con quella vaga rassegnazione che è morte nel cuore). Il gelo della fatica ma anche il fuoco dei ricordi. E.
C’è questo frammento, fermo immagine, che mi ha avvicinata a “Cocci di bottiglia” prima ancora di sapere cos’era, prima ancora di decidere. Lo recupero ora che mi è tutto più chiaro, ora che so.
Sabato pomeriggio a Bologna. Uno dei pochi reading a cui posso partecipare senza fare i salti mortali per lasciare il mio piccolo angelo a giocare (perchè per ora le letture ancora non lo interessano!), senza dovermi scervellare per far coincidere impegni e scadenze.
Un sabato pomeriggio, dicevo, di inzio settembre. E una lettura potente, appassionante, devastante. Poi, nella semioscurità, in mezzo al brusio generale e alle opere d’arte appese un abbraccio. Una piccola magia tra due donne. E io lì per caso, sto per uscire alla ricerca della calma necessaria per assorbire l’urto. Un abbraccio che è l’essenza di questo romanzo. Due donne. Una era Francesca Mazzucato. L’altra Fiorenza Aste.
Berselli Alessandro – Io non sono come voi
24 settembre 2007
Ci sono romanzi fatti per essere gustati con calma, lentamente, una porzione alla volta fino al gran finale che può (si spera ma non è detto)lasciarti dentro qualcosa anche in virtù del tempo dedicato, della lettura appassionata, dell’attesa. Ce ne sono altri che ti si incollano addosso finché non hai consumato l’ultima riga e anche oltre, te li porti in giro perché un frammento di quella storia è diventata la tua. Una scheggia veloce tanto quanto il libro stesso che hai letteralmente divorato.
‘Io non sono come voi’ fa parte della seconda categoria, senza ombra di dubbio.
E’un romanzo coraggioso.
L’autore ha fatto una scelta stilistica graffiante, ha superato lo spartiacque e ha imposto una logica ben precisa. Rimanere concentrato sul protagonista e far si che anche il lettore veda e senta sempre e solo quello che vuole il protagonista. Paolo Graziani, portiere di un palazzo di ricchi, appena quattro appartamenti, che ragiona. Pensa. Riflette. Racconta. Spiega. Ripercorre. Affronta. Tutto in prima persona. Eccolo qui il rischio, una narrazione dove non c’è l’esterno, non ci sono ‘altre voci’, il lettore non deve immedesimarsi in nessun altro che non sia Paolo Graziani che gli si siede accanto per tutto la lettura. Un rischio, a ben pensarci, davvero grosso per il mondo della letteratura contemporanea dove impazzano i generi rigorosi, accurati, tecnici e pieni di dettagli di ogni tipo (dall’uso dei cinque sensi agli approfondimenti legali, medici, scientifici, politici, religiosi…). Il lettore viene abituato a un certo modo di ‘sentire’ la storia. Anzi, a tanti modi, punti di vista, descrizioni chiare e il più possibile oggettive.
In questo romanzo non c’è niente del genere.
C’è Paolo Graziani.
La sua vita monotona, inutile, passata a lamentarsi e ubriacarsi nell’illusione momentanea di poter smettere di pensare quando invece non fa altro. Pensa Paolo. Riflette. Analizza il mondo che lo circonda e lo disprezza. Le coppie che vanno al supermercato sperando di perdersi di vista (e quando ci riescono ne sono sollevati), quelli che vanno a mangiare al ristorante poi non dicono una parola e sperano che il conto arrivi il prima possibile. Poi ci sono gli abitanti del palazzo dove lavora. Per ogni inquilino Paolo ha idee precise, difetti e deformazioni da mettere in evidenza, che lo schiacciano nella sua condizione di misero portiere incapace e inutile perfino nelle ridicole mansioni attribuitegli.
‘ Io non sono come voi’ è l’autopsia del cervello di un pazzo.
Di una persona ordinaria, con un lavoro banale e neanche tanto impegnativo dove a poco a poco taluni neuroni iniziano a girare ‘storti’, la mente stessa si ribella alla ciclicità di un esistenza che non ha senso, si ripete e basta ( ‘La vita è davvero lo stesso giorno ripetuto trecentosessantacinque volte l’anno’ pag. 15). Dove tutto è malinconico, tedioso, doloroso e inutile.
Perché Paolo Graziani non ha mai provato. Alcunché di fatto.
‘ Contento come può esserlo qualcuno che arriva alla conclusione che se sei incapace di amare anche l’odio può diventare un sentimento apprezzabile. L’importante è non lasciarsi morire da soli. Nell’indifferenza’. (pag.94)
Ecco l’essenza della svolta di Paolo. Il passaggio dalla condizione di insofferenza, dolore, malinconia, rassegnazione alla scelta di riscattarsi. Di uscire dal tunnel di banalità e darsi un senso (anche se temporaneo). Paolo inizia a uccidere. Dapprima casi isolati, occasioni scatenate da una frase, un dettaglio fuori posto o un’offesa gratuita. Poi inizia la premeditazione, l’organizzazione di ogni cosa (la conta dei passi, di cosa ha mangiato, di quante macchine passano…). Paolo è un assassino e in quanto tale rivendica questo nuovo ruolo scelto (addirittura anelato dopo la prima volta), una scelta che lo allontana dalle masse e gli farà dire ‘Io non sono come voi’.
Se i primi tre quarti del romanzo sono l’autopsia di una mente malata che arriva alla follia e ci si crogiola candidamente, l’ultimo quarto è adrenalina pura. Da pagina cento in poi si fa sul serio e le chiacchiere di Paolo sono descrizioni di scelte, analisi di accadimenti in corso, riflessioni ad alta voce. Se prima analizzava la vita che lo attraversava, la routine che si ripeteva, dopo è lui stesso che la gestisce, questa vita, togliendola agli altri. E ce n’è davvero per tutti, credetemi.
Il romanzo è un’indigestione che può durare anche un pasto solo perché la lunghezza lo permette e non potrebbe essere diversamente. Quel rischio di cui accennavo sopra avrebbe reso complicato e forse poco credibile una narrazione più lunga e complessa. Oltre che priva di senso in quanto andrebbe contro all’intento originale dell’autore.
Entrare nei meandri di un borderline del ventunesimo secolo per arrivare a svelare come il passaggio dalla ‘normalità’ (propriamente detta) alla follia è in realtà infinitamente sottile, facile e fin troppo vicino alla quotidianità di ognuno di noi.
Perché Paolo Graziani è uno di noi, solo, con dei rimpianti, tanta confusione in testa, paure, tristezze, acidi in movimento per i torti subiti, fragilità e un piccolo vulcano all’interno che produce lava.
Alla fine Paolo Graziani è esploso.
E voi?
Sicuri, sicuri che non?
Non.
Credo che questo romanzo sia una scommessa vinta perché considerando l’atipicità nella struttura, la scelta coraggiosa di concentrare le energie in una sola voce e l’addentrarsi in quei meandri di normalità comuni a tutti (e quindi poco attraenti agli occhi del lettore medio che cerca emozioni, evasione, storie forti, sangue, sesso, and c.) quando si chiude l’ultima pagina le parole così sapientemente usate lasciano una traccia. Una riflessione in mezzo alle riflessioni. Un non so che di angosciante barra incerto barra incredulo barra ‘certo che però pure io…’.
Vi è mai capitato (immagino di si) di seguire un servizio al telegiornale, quando intervistano i vicini o i parenti o i compagni di classe che con quelle facce stranite, confuse e desolate dichiarano ‘Gente per bene’ o ‘inimmaginabile’ o ‘ Li si vedeva ogni tanto ma erano riservati, mai un problema o un capello fuori posto’, vi è mai capitato? Ecco. Il nocciolo della questione mi sembra tutto lì, quel nocciolo che Berselli cerca di analizzare svelandone i segreti, i lati oscuri e la ridicolezza di una mentalità che ogni giorno ormai si scontra con la cronaca nera presentata come ‘inspiegabile’. Dopo aver letto questo libro, talune dinamiche, certi tasselli sono molto più che spiegabili. Sono addirittura comprensibili.
Sarasso Simone – Confine di Stato
24 settembre 2007
“Confine di Stato” è il primo libro di una trilogia sui misteri d’Italia. In questo romanzo la storia si svolge dal 1954 al 1972.
Prima ancora della dedicata si legge “Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie al cento per cento. In esse compaiono personaggi e circostanze riferiti a un periodo della storia d’Italia, ma da intendersi come pura elaborazione di fantasia”, molto bene mi sono detta, allora procediamo. Poi, mano a mano che proseguivo nella lettura mi arrivavano flash lontani, di avvenimenti che invece di fantasioso non avevano niente se non, forse, nelle conclusioni tutt’ora nebulose e incerte che la storiografia recente attribuisce. Perchè “Confine di Stato” è questo: un romanzo che affonda le radici nella storia recente e la rielabora, con un pizzico di fantasia certo, ma con tante valenze concrete, reali, analisi di quella storia che ha macchiato l’Italia e della quale molte generazioni (a partire dalla mia che è la stessa di Sarasso fino agli adolescenti di oggi) ignorano l’esistenza. Se ne fregano perchè è un gran casino. Non si capisce niente, non c’è un’interpretazione unica o almeno abbastanza chiara, non ci sono risposte, non ci sono fatti oggettivi. Non. Bene, Sarasso ha fatto secondo me uno sforzo non da poco. Si è studiato incartamenti, stralci di giornali, ha intervistato chi c’era, ha cercato le interpretazioni, le versioni e le analisi. Poi ha rielaborato il tutto mescolando per bene in modo che il “prodotto finito” fosse sufficientemente accattivante da incuriosire il lettore medio (da qui la fantasia che cammuffa la realtà, i nomi tutti rigorosamente inventati e le licenze “poetiche”). Incuriosire con l’obbiettivo di far riflettere. E’ questa, a mio parere, la chiave di lettura. Sarasso non ha la pretesa di raccontara la storia (che comunque tutt’ora non è stata chiarita) né si illude di poter illuminare quei lati oscuri di un’Italia che nel ventesimo secolo ha davvero dato il peggio di sé per molti aspetti. Sarasso vuole intrattenere ma con la giusta dose di approfondimento, pungolando il lettore ad approfondire, a capire il riferimento alla cronaca reale, a farsi domande o quanto meno a dubitare sui motivi di un dato evento passato e trasferito alle masse in un certo modo dalla stampa, dai politici e dai critici. Lo spiega bene lo stesso Sarasso in un’intervista su “il paradiso degli orchi”:
“Io non racconto la storia del delitto Montesi, né quella di Piazza Fontana o dell’omicidio Mattei. Per il semplice fatto che i documenti dicono che quelle tre storie non sono andate come le racconto io. Le tre vicende giudiziarie sui tre Misteri Italiani del mio libro sono concluse. Concluse con tre sentenze di piena assoluzione degli imputati. Per la legge italiana nessuno è colpevole per Piazza Fontana. Né, tanto meno per la morte di Mattei e quella di Wilma Montesi.
Nel mio libro i colpevoli ci sono. Eccome. E alcune delle manovre che compiono (penso in particolare alle porcate dei ministri Dc nella prima parte della storia) sono storiograficamente discutibili (anche agli occhi dei peggiori complottardi).
Detto questo si giustifica il disclaimer. Non è bieco rifiuto di responsabilità o un meschino tentativo di nascondersi dietro a un dito. È la linea di demarcazione tra Storia e fiction, uno dei capisaldi del mio mestiere.
Nella speranza, questo sì, che la mia fiction scateni un interesse per la Storia vera.
Ester Conti può restare un personaggio da romanzo. Per conto mio non c’è nulla di male.
Ma se qualcuno leggendo di lei pensasse a Wilma Montesi e gli venisse voglia di saperne di più sul suo caso, allora sarei davvero felice. Avrei fatto bene il mio mestiere senza tentare di rubarlo ad uno storico.”
“Confine di Stato” è senza dubbio un libro impegnativo. Che non può lasciare indifferenti al di là della trama in senso stretto e dei personaggi che si muovono. L’Italia di “Confine di Stato” è la nostra Italia solo adattata ai ritmi e alle dinamiche della fiction e in parte dei fumetti. Ci sono tutti, ma proprio tutti. Politici corrotti che muovono le pedine sotto di loro per un disegno futuro più grande, militari addestrati per uccidere all’occorrenza nel silenzio della notte, poliziotti mandati al macello (“Da vivo non valeva un cazzo. Da morto era oro.” [pag. 328]) , giornalisti costretti a cammuffare la realtà per non rimetterci le penne (e quelli che invece si impuntano e scavano tra i meandri finiscono appunto ammazzati brutalmente), il mercato delle droghe in ogni forma e salsa come meccanismo propulsivo dell’economia e della ricchezza, l’evento di cronoca nera trasformato in espediente per agire sulle forze politiche al potere, gli insabbiamenti gestiti con perizia e precisione, infiltrati, idealisti, mercenari, strategia della tensione…
E’ un quadro doloroso e deprimente, che denuda un paese spaccato, corrotto e malfamato dove non esiste la realtà ma varie versioni di essa a seconda di chi-ne-trarrà-profitto.
“Da quello che si dice, niente è come sembra in questa faccenda. Niente è come sembra in questo Paese. Voglio solo rendermi conto di come vanno le cose…” [pag. 131]
“Te l’ho già detto: la verità non interessa a nessuno. Conta solo il peso politico delle storie intorno alla cosa.” [pag. 133]
Non vi ricorda qualcosa?
Ci sono poi stralci di analisi sulla situazione economica italiana che meriterebbero interi dibattiti. Il concetto di indipendenza energetica come strumento basilare per rendere l’Italia veramente competitiva e sana nelle strutture economiche e lavorative.
“Fabio Riviera aveva un sogno: l’indipendenza del suo Paese. L’indipendenza energetica. E poi non ci sarebbero stati più ostacoli. La povertà sarebbe sparita. Sarebbe sparita la disoccupazione. La gente non avrebbe più dovuto trasferirsi.” [pag. 220]
Oppure:
“L’autonomia politica e la rinascita economica dell’Italia passano attraverso l’indipendenza energetica.” [pag. 287]
In realtà ci sono molti altri punti che mi sono annotata, frasi così significative che non passano inosservate tra i meandri del tessuto narrativo che Sarasso sviluppa con ritmo ma senza fretta, ogni aspetto viene attraversato con rispetto e dovizia. Lo stile è fluido, scorre davvero, immediato e vario (molto vario per stili e stacchi), ti arriva addosso senza chiederti permesso.
Ne sono uscita con un senso di impotenza tra la pelle e di schifo per la gente, i poteri e il denaro, perchè ogni scena è così vivida che sempra davvero vera (non si va comunque lontano da taluni accadimenti reali, come accennavo sopra). C’è poi l’uso di tecniche narrative che trasformano la narrazione in sequenze di scene da film, con la camera che si sposta e muta le inquadrature. Al lettore sembra di essere davanti allo schermo del cinema.
Cimara Diego – Genocidio turco degli armeni
24 settembre 2007
Questo è l’inizio della Premessa:
” … gli Armeni si presentano come una popolazione non assimilabile e perciò nel 1915 si procede con l’eliminazione dei maschi attraverso un obbligo di leva che va dai sedici ai sessantacinque anni. … Subito dopo tocca ai notabili, ai vescovi e ai preti Armeni. Le abitazioni, le scuole, le chiese, i conventi, i collegi, gli alberghi Armeni vengono distrutti o requisiti. La popolazione rimasta, donne, vecchi, bambini e malati viene deportata verso destinazione ignota con l’intenzione di eliminarla. Lungo la strada si cerca di fiaccare la determinazione delle donne, attraverso lo stupro delle ragazze e delle giovani spose. I bambini, dopo essere stati immediatamente circoncisi e infibulati, vengono usati come schiavi o concubini delle famiglie che li adottano, li acquistano o li rapiscono. … Le cifre parlano di due milioni di deportati: un milione e mezzo di vittime, cinquecentomila sopravvissuti.
…
Il negazionismo di questo barbaro massacro, questo primo grande genocidio, con cui si è aperto il nostro secolo, e il suo rapido oblio hanno ribadito quella legge che regola la storia dove ‘ogni amnesia è in un certo senso un’amnistia’.”
Inizia così il saggio.
E già qui ho chiuso il libro. Cos’altro c’è da dire? Mi sono chiesta. A parte il fatto che gli esseri umani fanno schifo (e ho usato un termine soft).
Questo saggio nasce dall’intento di Cimara, giornalista, di dare una voce alle 18.563 pagine scritte dal nonno, Zarian Costant ritrovate in una cassapanca vecchia. Cimara studia e approfondisce il materiale che include oltre agli scritti anche dischetti dove Costant salvava le informazioni che avrebbe poi usato per le lezioni universitarie e i suoi numerosi scritti (saggi, poesie, analisi teologiche, sociopsicologiche, drammaturgiche e geopolitiche). La teoria che porta avanti Zarian Costant è evidente: gli Armeni sono stati sterminati per soddisfare l’esigenza degli uomini al potere dell’impero ottomano che vedevano nella questione armena una fastidiosa spina nel fianco. Una razza che non doveva crescere né mischiarsi alle altre.
Di fatto tutto il saggio è incentrato sulla figura di Zarian Costant, attraverso il racconto della sua vita Cimara mostra le fasi di preparazione, esecuzione e insabbiamento del genocidio armeno senza però risultare ossessivo o ridondante. D’altra parte gli occhi che vedono e le labbra da cui escono dialoghi e descrizioni sono quelli del nonno.
Ne emerge prepotentemente la figura di un uomo, poeta e drammaturgo, isolato per il suo impegno verso la questione armena ma anche per natura. Per esigenza, si potrebbe dire. Costant viaggia di continuo, è per lui motivo di stimolo e approfondimento. E’ un uomo controverso insomma, Cimara lo tratteggia con un portamento dignitoso anche se eccessivamente eretto che lo fa assomigliare a un despota dittatoriale (ricordo degli obblighi collegiali). Veste bene, fuma tabacco inglese nella pipa e nei gusti alimentari è abbastanza abitudinario. Eppure è un tipo curioso, inesauribile, che si fa domande di ogni tipo e non si risparmia. Cerca, scava, raccoglie informazioni e le divulga. Ma sa anche essere pigro, maleducato e brutale. Dicevo, un uomo controverso quanto geniale. Ma Costant non è soltanto un documentarista, uno che osserva e registra informazioni. E’ anche un narratore apprezzato, le sue produzioni sono numerose come le sue idee sulla struttura di un testo narrativo. Oggi li chiameremmo i trucchi per fare un bestseller (e già immagino Zarian Costant menare le mani). Comunque. In sintesi (senza volervi togliere il piacere di queste pagine squisitamente delicate e intriganti) la Bibbia di Costant per favorire il piacere della lettura comprendeva: nessuna descrizione degli ambienti (la noia è una pessima compagna), banditi i prologhi (inutili) e le descrizioni dettagliate dei personaggi, pochi punti esclamativi e, dopo altre regole, quella che ho trovato davvero sublime ovvero ‘eliminare le parti che il lettore salterebbe’.
Per tornare sul seminato, in mezzo alle narrazioni a tratti ironiche e quasi buffe di quest’uomo decisamente fuori dal comune, Cimara prosegue nel ripercorrere le tappe della vita del nonno e con esse le evoluzioni storiche.
Già nel 1906, infatti, Costant scriverà. “ Noi Armeni, da sempre guardati con sospetto dal popolo mussulmano, anche per la nostra religione cristiana, di cui siamo fortemente fieri e convinti, siamo diventati una popolazione assai scomoda per il governo centrale, trovandoci tra l’altro ad essere una sorta di ‘cuscinetto’ tra l’impero ottomano ed il grande impero zarista ed avendo ripetutamente avanzato richieste di autonomia da Costantinopoli.”. Dalla lettura di questi anni emerge una fase di preparazione al genocidio disarmante. E tutto sotto gli occhi di un’Europa indifferente che lascia il potere nella mani dei Giovani Turchi, movimento rivoluzionario estremamente nazionalistico (e per questo ostile agli ‘stranieri impuri’ Armeni).
Il saggio in effetti è l’intreccio, la fusione di riassunti degli avvenimenti storici dove la voce di Cimara mi sembra più forte e decisa che introducono i resoconti del nonno sulle realtà vissute fino ad arrivare alle parti puramente narrative dove Costant diventa il protagonista di una storia, sì vera, ma tratteggiata con tutti gli elementi di un romanzo delicato che cerca di cogliere ogni sfumatura e contraddizione. Il mix può risultare contraddittorio all’inizio o forse è sembrato a me perché precedenti saggi che ho letto erano impostati con un unico linguaggio e un rigore quasi scientifico. Questo libro no e devo dire che è il suo punto di forza. Non credo che una tematica così grave e controversa possa essere affrontata per ben 252 pagine con rigidità. Ci sono così tante anime che urlano in mezzo alla voce di Costant che chiuderle dentro a rigorosi schemi è impensabile. Oltre al fatto che l’intento di Cimara è quello di recuperare l’immenso lavoro del nonno e riportarlo alla luce in modo che tutti, oggi, possano riconoscere il valore e l’importanza di una vita dedicata a scrivere soprattutto di tragedie vere. Dure. Assurde. Legalizzate nel silenzio. Sangue. Scomparse. Violenze. Terrore. Tutto concentrato in un’unica vita vissuta di certo intensamente con l’intento di non mollare la presa, anzi, di registrare ogni particolare.
La narrazione è piena di aneddoti, personaggi che si alternano e raccontano tante piccole e miserabili anime che si lasciano vivere mano a mano chi incontrano Costant e con lui instaurano dialoghi o rapporti duraturi tra un viaggio e l’altro.
Di certo è un libro crudo. Diretto. Lucido nel suo tentare di riunire tanti fili. Tante voci che sono poi la stessa, quella di Costant che ha raccolto davvero ogni conchiglia.
Non è una lettura facile, tutt’altro. Io ho faticato. Certe pagine se lette davvero col cuore, ascoltando il suono delle parole e addentrandosi nei meandri dei significati sono strazianti. Decapitazioni. Violenze carnali. Sadismi. La politica del terrore. Torture di ogni tipo. Sfruttamenti. Morti per fame tra il piscio e la merda. Cataste di corpi sparsi. Pestilenze. Gente che pur di sopravvivere mangia cani e topi. E mi fermo. Non sono una con lo stomaco ‘forte’, mi sembra evidente. Nonostante i bombardamenti dei tg giornalieri ancora mi viene la pelle d’oca quando appaiono certe immagini. Per cui.
Per cui questo saggio è stata una delle sfide più dure per me. Davvero.
Eppure non si può non sapere.
Non ascoltare la voce di Costant e di Cimara. Sono due isolate e misere voci, potrebbe ribattere qualcuno. Vero. Verissimo. Eppure trovo che due sia sempre meglio di niente. Specialmente quando trattano di una tragedia di queste portate che a tutt’oggi trova ancora esponenti pronti a negare (si sgolano per negare) che sia mai successo. O se proprio che non era un genocidio, solo qualche morto come in tutte le guerre civili. I commenti mi sembrano superflui. Poi.
Poi come in tutti gli avvenimenti storici recenti le versioni possono essere varie, i critici si spaccano e la realtà cambia i suoi contorni a seconda dell’angolazione e dell’opinione socio-politica-economica del soggetto che la divulga.
In quest’ottica non si può sostenere oggettivamente che tutti gli avvenimenti e le opinioni espresse in questo saggio corrispondano a realtà. Si può, però, a mio avviso registrarli, questi avvenimenti e opinioni, e farne tesoro. Confrontarli con le altre posizioni. Metterli in un angolino della testa a maturare.
Concludo con uno stralcio dell’ultima pagina che mi ha lasciato addosso qualcosa, ho pianto. Si tratta della testimonianza di Karapert Mkrtchian, nato a Tigranakert nel 1910.
E’ giusto sapere ma fa davvero male.