Dell’avere bisogno

26 ottobre 2008

Avere bisogno di qualcuno è una delle più grosse fregature che esistono.
E non te lo insegnano, a scuola, a casa, basterebbe che qualcuno si prendesse la briga di informarti. Sappi che. Invece no, lasciano che lo scopri da solo, attraverso l’esperienza che fortifica – spiegano per giustificarsi.
Comunque questo è quanto.
Il problema è, stringendo, che a tutti capita, prima o poi. Di solito più prima, fidatevi.
E non è tanto l’ammetterlo, si arriva a  un punto in cui è impossibile non esserne consapevoli.
E’ proprio l’aspettativa generata dal bisogno, che logora, sfinisce, distrugge barriere e speranze.
Anche sulle speranze ci sarebbe materiale su cui dibattere ma per oggi lasciamo perdere, meglio non esagerare.
Avere bisogno, dunque. Che significa sapere che qualcuno (o più di uno) volendolo e potendo, sarebbe in grado di farti stare meglio. In molti modi, badate bene. Non c’è un’unica ricetta. Si può avere bisogno della classica ‘spalla’ su cui confidarsi o piangere, ma anche di un corpo (magari desiderato o amato, anche qui non necessariamente nell’ordine o in collegamento). Poi può essere semplicemente che basta un appoggio, una parola di sostegno. O ancora, una discussione, di quelle sane, da confronto costruttivo (costruttivo è una di quelle parole chiave che la nostra tecnologica e veloce società sta perdendo di vista, dimentica troppo spesso).
Il problema è che i bisogni sono unilaterali.
Diventano bi- laterali se, dall’altra parte, spunta qualcuno o qualcosa che riesce a soddisfarli.
E, guarda caso, quando si tratta di necessità di questo tipo è quasi matematica la fregatura. L’ uni resta tale.
C’è anche chi sostiene che ‘ognuno raccoglie quello che semina’. Beata innocenza popolare.
Io non lo so, se davvero funzioni così. Se proprio dovessi guardarmi indietro con occhio critico mi sembra di sentire uno scricchiolamento insistente. Ho come l’impressione che sia più una questione di opportunità barra fattore C barra fattore C barra fattore C.
Ma posso sbagliarmi, anzi.
Avere bisogno di qualcuno racchiude anche un’altra pericolosità che sarebbe meglio non trascurare, ovvero il riconoscere che da soli non.
E vi sembra poco?
C’è tutto un mondo di fragilità, paure, incertezze e insoddisfazioni dietro l’ammissione che ‘da soli non’. Oggi più che mai. Oggi che abbiamo tantissimi ‘modi’ e ‘strumenti’ per comunicare ma abbiamo dimenticato come si conosce qualcuno. Come ci si fa conoscere.
Allora io dico: basta!
Non bisogna avere bisogno.
Fine del dilemma esistenziale ombelicale noiosamente egoistico.
Non so, magari si potrebbe iniziare con lo specchio. Non è molto confortante subito, ma facendoci l’abitudine chissà. Quanto meno non si commuove se piangiamo o inveiamo.
E’ lo sgretolamento dei sentimenti, me ne rendo conto. Ma cos’altro si può fare? Quando un certo bisogno non trova un modo (anche piccino piccino) per essere soddisfatto, quando il fiume si gonfia e vede l’orlo è lì – sta per – ma non straripa solo per inerzia, resistenza passiva?
No.
Credo che oggi dovremmo imparare (e insegnare) a difenderci da bisogni così.
A costo di indurirci troppo.
Che poi.
Sono ‘belle’ parole ma devo ancora afferrare del tutto come ci si arriva. Intanto ci ragiono, sbatto e mi sbuccio.

Appunti di lettura di ‘Chi ama torna sempre indietro’ e dei romanzi rosa.

Gli appunti che seguono sono stati ispirati dalla lettura del romanzo’ Chi ama torna sempre indietro’ di G.Musso ma spaziano verso ragionamenti soggettivi sui ‘generi’ e gli approcci. Forse risulteranno sgradevoli, per chi predilige un certo approccio alle storie o l’autore, ma non vogliono essere né assolutistici tanto meno critici nel senso più negativo del termine.

Da Wikipedia:
Viene detto romanzo rosa quel genere di romanzo che narra vicende amorose e passionali a lieto fine venate di romanticismo e dedicate soprattutto ad un pubblico femminile.

Ho sempre avuto difficoltà a ragionare considerando il sesso del potenziale lettore. A parte quest’annotazione personale, penso che ‘Chi ama torna sempre indietro’ possa rientrare nella categoria ‘romanzo rosa’ seppure con le dovute eccezioni. Nel senso che, nel romanzo, si rintracciano elementi di fantasia evidenti legati all’opportunità del protagonista di ‘viaggiare nel tempo’ per tornare indietro di trent’anni. Poi ci sono tutta una serie di elementi ‘introspettivi’, di analisi del protagonista e, sul finale, di altri due personaggi principali, che – di fatto – allentano la pressione ‘rosa’ per concentrarsi sui drammi personali, ombelicali se vogliamo usare un termine molto di moda oggi.

L’ho comprato da uno di quegli espositori che nei grandi ipermercati sbucano all’improvviso tra mutande ed elettrodomestici. Erano anni che non leggevo un romanzo così. E a quel ‘così’ non intendo attribuire un significato negativo, non necessariamente. La trama è evidentemente un elemento chiave e già dalle prime pagine il lettore capisce – sa – dove sta andando.
Forse anche per questo ho avuto dei problemi, mi sono dovuta imporre di finirlo.

In particolare, tre nodi.

Uno. E’ il primo romanzo da due anni e oltre, dove non ho sottolineato, annotato o pastrocchiato quasi per nulla, leggendo. E per me è un indicatore rilevante. Ogni capitolo inizia con una citazione, molte delle quali le ho cerchiati e rilette. Per il resto non ho trovato frasi o punti capaci di colpirmi, che sentivo di voler riprendere in seguito o segnalare in eventuali appunti di lettura. E questo non perché sia ‘scritto male’ qualsiasi cosa voglia dire. Affatto. Scivola, scorre senza intoppi, il linguaggio è semplice (con qualche termine ‘fuori registro’ che però può dipendere dalla traduzione), i capitoli sono brevi e strettamente collegati, la trama è ben sviluppata, non ci sono ‘buchi’ o sospesi, anzi. Eppure il mio sentire si è fermato lì. A un ‘tutto’ fluido, coerente, mediamente accattivante, tendenzialmente tenero. Nessun guizzo.

Due. Il buonismo dilagante. Inizio precisando che negli ultimi anni sono cambiati molto i miei gusti ma soprattutto le percezioni che ho di una storia. Preferisco nettamente intrecci realistici, dove luce e ombra si mescolano e non si da nulla per scontato. E questa lettura me lo ha dimostrato. In ‘Chi ama torna sempre indietro’ ci sono moltissimi elementi smaccatamente positivi. I personaggi sono comunque e sempre ‘buoni’ anche quando sbagliano il lettore avverte la volontà dell’autore di assolverli. Agiscono con l’intenzione di fare bene anche quando il risultato non corrisponde. Hanno si, alcuni tratti ‘neri’, da cattivi, ma sono brevissimi, parentesi sempre risolvibili (e il lettore lo sa, senza accelerare la lettura, lo avverte).
Poi il finale. Non c’è niente da fare: sono arrivata alla fine pensando che storie così (al di là degli elementi fantasiosi ma gradevoli) non solo non esistono, ma sono anche nocive. Giuro. E lo ribadisco: non è la storia in sé, l’intreccio o le costruzioni stilistiche. E’ questo alone di luce che acceca, procura bruciori di stomaco e tramortisce. L’idea di questo amore indissolubile, immenso perfino quando ci sono ore di aereo che separano gli innamorati, o trent’anni o la morte. E’ l’idea che si possa essere sempre (o quasi) così smaccatamente coerenti, onesti nonché pronti ad afferrare ogni possibilità per redimersi e riconquistare ‘un posto al sole’. E’ la volontà precisa e calcolata di concludere la storia chiudendo ogni porta nel modo migliore. Tutto quadra, si potrebbe dire che ‘torna al suo posto’ nonostante le difficoltà, i capovolgimenti e le sorprese. Tutto è inondato da questo caramelloso senso di pace infinita e amore traboccante. Ed è troppo, non mi viene in mente un altro modo per spiegare cos’ho provato. Troppo.

Tre. La trama verte, come accennavo, su alcuni elementi di fantasia. Al protagonista vengono date dieci pillole in grado di riportarlo indietro nel tempo, di trent’anni esatti, quando la sua vita è cambiata radicalmente perché l’amata è morta improvvisamente.
Ora.
Ci sono precise teorie sui c.d. ‘universi parelleli’ ma anche sul fatto che ‘cambiando i fattori in gioco il risultato finale è destinato inevitabilmente a mutare’.
Per tutte queste considerazioni, ogni tanto, leggendo ho sentito degli scricchiolii. Forzature, diciamo. Non che io sia in grado di stabilire, per ogni azione mutata, l’esatta e precisa contro azione corrispondente, nessuno lo è. Eppure certi espedienti usati mi hanno lasciata perplessa. Proprio per l’inquadramento del romanzo stesso dove c’è si, l’elemento evidentemente fantasioso, ma c’è anche la volontà di raccontare una storia concreta, con riferimenti (anche storici) precisi e tratteggi verosimili. Allora, in mezzo a tutta questa somiglianza con la realtà, certi dettagli, passaggi, mi sono sembrati ‘ pro trama’ in modo ecclatante. Come se l’autore li trascinasse in una precisa direzione perché così doveva essere, perché solo così poteva arrivare al risultato.

In conclusione, non è un romanzo che sconsiglierei.
Dipende dal tipo di lettore e dal momento in cui lo si legge.
Bisogna essere predisposti a entrare in una precisa atmosfera. E definirla ‘rosa’ mi sembra ridicolo, limitante. La storia d’amore è il fulcro di tutto. E’ per ‘amore’ che i personaggi agiscono, che accadono ‘cose’ e stravolgimenti. Ma è di un preciso amore che si scrive. Quel tipo che non ammette eccezioni tanto meno repliche. Quel tipo che sconfigge davvero tutto, che tira fuori praticamente solo ‘lati positivi’, capace di giustificare o almeno capire, perfino i comportamenti meno nobili.

Amore per un’altra persona, la vera e unica ‘metà’ perfetta.
Ma è anche Amore per una figlia a cui non si rinuncerebbe mai.
E infine, Amore per ciò che è giusto, positivo e propositivo in ogni cellula.

Chi ama torna sempre indietro
di Guillaume Musso
Rizzoli – libri oro, 2008

Isbn: 9788848603775

Barbara Gozzi, 1/8/2008

5 ottobre 2007

Quella volta là è successo qualcosa. Lui lo sapeva, se lo sentiva tra la spina dorsale che scricchiolava già da tempo. Eccome. Solo che ha tentato di tenere duro. Di proseguire nelle azioni ripetute come se. Se fosse niente. Solo che niente era un’illusione. Come credere di sapere la strada che si percorre. Finzione. Costruzione mentale. Poi quella notte. Immerso nel silenzio irreale, stantio dei sonni altrui è successo qualcosa. Qualcosa si è rotto. (Ha sentito il toc, da qualche parte nel suo cervello stanco). Toc. Fine. Raus. Le lacrime erano un contorno. Necessità di espellere quel grande dolore. Il vuoto. Le paure. Le insofferenze. I fallimenti. Il senso di. E tutte le stramaledette volte che qualcosa o qualcuno l’ha trattenuto afferrandogli l’elastico delle mutande. Si. Lui era già lanciato, in corsa. Deciso. Fiero. Pronto al duro lavoro. Ma. Ma l’elastico si tendeva e a un certo punto lui si fermava. Non c’era verso di. Finiva sempre con le gambe sospese nel vuoto, in quel periodo (anche prima solo che ci faceva meno caso, era normale fallire all’inizio. Poi l’inzio è diventato un sempre lancinante. Assurdo.). Sudore sprecato. Stomaco attorcigliato, epilettico. Fatica. Cristosanto quanta fatica che si poteva risparmiare! Quella notte là però, davanti al vecchio pc sputa brusio si è spezzato l’equilibrio. Eppure era lo stesso da anni. Tavolo traballante. Muro grigiastro davanti agli occhi. Tastiere nera. Tutto come. Come. Ma lui ha interrotto la catena. Prima le lacrime poi la scelta. Scelta. Quasi poteva ridere. Se solo avesse smesso di singhiozzare come un bambino cagasotto. Non si vince quando si combatte ad armi dispari. Quando non deve. Non è. Questo era quanto. Allora ha spento tutto, quella volta là, e si è lasciato andare. Solo. Vuoto dentro. Stanco, soggiogato dalle fatiche inutili, assorbi energie diaboliche. Stanco. Mortalmente stanco. Di quei tiepidi bagliori che, invece, erano solo illusioni. Al primo soffio d’aria svanivano lasciandolo fragile (sempre di più, poi ancora e ancora come tante pugnalate svelte, ben assestate) e piegato. Allora. Allora era difficile comunque. Proseguire o continuare. Lui era una larva. Bavosa. Rantolante. Odiosa. Per questo era finito così. Per questo o quello. O magari per niente in particolare. E ha smesso di credere. Credere è una deformazione della realtà, si è detto prima di annegare nel letto freddo e grande. Annegare invece no, era una bella parola. Dolce. Musicale.

Tato. To.

5 ottobre 2007

Questo vuoto. Si, si proprio questo. Q. Lo so che non lo senti, tu. Ma prova un attimo a fermarti. E stai zitto, tanto non ti ci vuole niente. A tacere. Allora fallo e basta. Ieri sera ero stanco, proprio molto (cos’è che dici? Non si usa ‘proprio molto’? Ma vaffanculo). Adesso non mi ricordo più di cosa volevo parlare. Ah. Sai che mi sembrava di aver finito (te l’avevo detto lunedì, ricordi?) e invece. Invece no. Restano ancora da scrivere delle pagine, pezzettini che mi erano rimasti tra il cervello e le mani. Dici che forse mi posso risparmiare la fatica? Cosa ne sai, manco l’hai letto il mio ultimo romanzo. Appunto. Lo so che non ti va di perderci tempo, lo so. E ti dirò: mi ci sto abituando. Prima o poi ti pentirai ma adesso non mi va di continuare su questa strada. E bevi una buona volta! Quando sei nervoso apri il frigo e ingoi quello che trovi, ci hai fatto caso? Dai mò, fai anche il sostenuto adesso? Si, sto sbuffando e allora? Provarci con te è un’impresa. Di quelle che risucchiano energia e linfa vitale. Sei mostruoso ecco. Com’è poi che ti sei deciso a venire. Ad abitarci intendo. Com’è pure? Il silenzio è più o meno lo stesso anche se distribuito tra due case, non trovi? Lo immaginavo. Che finivi col fare così. Cosa mi guardi a fare, porco mondo? Non importa. No. Davvero. Tanto è sempre la solita vecchia minestra insipida. Io qui. La notte che arriva. Poi si dorme un pò e via a produrre merda. Beh ok, ultimamente non riesco a dormire, è vero. Va bene lo stesso.    Non ne ho più voglia. Cosa parlo a fare? Ci sarebbero questi vuoti qui ma. Ma poi. Poi vedi come va a finire? Che mi escono le parole ma tu non ascolti. E se. Niente. Mi manchi però. Tante cose che non ci sono più mi hanno lasciato dei solchi aperti. Giuro. Poi si, si cambia in tutto però certe cose. Certe. Dovrebbero rimanere ecco, e invece. E  non capisco cosa diavolo ci facciamo con le corde vocali e la bocca se poi non le usiamo. Manco le dai aria, tu, alla bocca.  Dici é? La scrittura. La. A me sembra il contrario. Mi libero. Sputo di tutto e le parole si fissano dove vogliono. E dai, ricominci? Sarà anche fallimentare ma senza. Senza. Cazzo cos’è la mia vita senza?    Certe storie poi, se non le racconti si perdono. Non le trovi più ed è un peccato non poterle mostrare ad altri. Non è una questione di farsi i cazzi proprio, sù, non fare il cinico forzato che sembri una caricatura. Tutto è personaggi. Trama. Tu pure lo sei, solo che non hai battute e improvvisi. Te ne freghi e non lasci tracce. Io non lo so. Ci ho provato così tante volte a lasciare. La. Sci. A. Re.  …  Ma poi. Vero. Poi finisco come adesso a ragionare sui vuoti e faccio decisamente ridere. O pena, povero esserino ingobbito e inutile. Cosa vorrei? Essere ascoltato. Essere. Ascoltato. Tato. To.

Quindici anni di niente

10 settembre 2007

Si muove, pesante e stanca. Finisce per crollare sulla prima sedia libera che trova. La stanza è in penombra, gli scuri sbattono rabbiosi mossi da un vento autunnale già freddo. Insistente.
Seduta si sente meglio, ma è una delle tante illusioni. L’ennesima.
Prende fiato, lo guarda poi attacca. Così. Una scarica secca. Inferocita.
– Si può sapere cosa vuoi da me? Cos’altro vuoi da me, dovrei dire. –  Lo fissa seria ma non è sicura che lui capisca davvero. I significati. Il senso di tutto quel parlare che alla fine sembra solo l’unione di tante parole messe in fila per fare ‘il trenino’ delle feste disperate.
Dei disperati.
Come lei.
– Allora? Neanche ti prendi la briga di rispondermi vero? Ho trovato quel lavoro per diventare indipendente. Ovvio. E pensavo di esserci perfino tagliata. Ok, diciamo che è abbastanza nelle mie corde, alla fine me la cavo più o meno con tutto. Sono quindici anni che entro alle otto meno cinque ed esco… dipende, diciamo dalle diciassette alle diciotto. Ti torna? Bene. Allora, facendo due conti funziona così: mi alzo alle sei, colazione, make up, doccia e vestizione, non in quest’ordine si intende, poi via in macchina ad affrontare il traffico e il tempo, porco d’un tempo, poi si entra. Negli anni ho cambiato scrivania. Alcune faccie si sono alternate come in quei valzer che vedi alla tv dove certi sorrisi scompaio dall’inquadratura e amen. Dentro e fuori. Quelli più rompicoglioni  sono rimasti, chiaro neanche dovrei stare qui a ribadirlo. E mi hanno esasperato. Pungolato. Stressato. Forzato. Rotto i coglioni insomma. Cosa dici? Non fare il furbo, va là, che lo sai benissimo che ne ho due grossi così anche se non si vedono. Ce li ho tra il cuore e il cervello e fin ora li ho anche usati. Non come avrei dovuto. Ma tant’è – Riprende fiato e non smette di fissarlo. Spera in una reazione che non arriva. E’sempre più stanca. Incazzata certo ma più qualcos’altro. Che a chiamarla rassegnazione si rischia il pestaggio.
– Allora dicevo. Quindici anni a battere tasti, far quadrare conti, scrivere robe che il più delle volte non sono servite, rispondere al telefono con voce dolce e accondiscendente per beccarmi gli urli del capo del tipo ‘il dottor Meneghini chi?’ oppure ‘ Rossi di che ditta? Stia più attenta quando risponde!’ Ecco. roba così che a raccontare tutto facciamo notte davvero, lo sai. La pausa pranzo è una puttanata. Al bar si spende un quinto dello stipendio giornaliero per cui mi rintano in mensa su sedie di plastica che dire scomode fa venir da ridere. Mangio per lo più robe fredde. Ultimamente abbiamo fatto una colletta per prendere un microonde anteguerra per cui adesso qualcosa si riesce a scaldare, una pacchia insomma. Poi arriva sera e si torna a casa. Dieci ore su ventiquattro passate così. Tutti i sacrosanti giorni da quindici anni. A tacere. A fingere interesse. A fingere di lavorare anche quando te ne hanno tolto perchè hai partorito e devi pagare dazio. Anche quando vedi delle robe che a spiegarle fuori  ti prendono per una demente e invece sono tutte vere. Ecco. – Stavolta si ferma e non sembra intenzionata a riprendere.
Rotea gli occhi e si blocca sul dettaglio della finestra che sbatte.
– Cosa posso fare? Ti decidi a rispondere? Vorrei solo sapere questo: cosa. Per evitare di impazzire del tutto e diventare come quelli che manco si accorgono di essere arrivati alla pensione e di non aver fatto un demerito cazzo di niente che valga la pena di essere ricordato. Cosa?
Talune volte il silenzio è un conforto. O una maledizione.
Lei si alza mentre la sedia crolla di lato. L’espressione sdegnata che ha sul volto è più di una maschera. Un contegno forzoso per non esagerare. Eppure c’è così vicina.
– Forse un pò hai ragione. Sono un anima inquieta. Dovrei farmi bastare i gesti ripetitivi. La busta il ventisette. Il tempo passato in macchina o coi colleghi che se li ribecco fuori ufficio rischio di farli sotto. Dovrei andare e basta.
Sembra quasi convinta. Ma lui sa che è una tempesta annunciata e di poco ritardata. Non si muove e aspetta.
– Solo che io non ci sto. Mi sono rotta di tutto. Delle stronzate che non restano e forse manco servono. Delle gentilezze di facciata. Dello stare inchiodata a una sedia che ruota. Parlare, anzi sparlare, di questo o quello. Tutte cazzate che non mi possono interessare di meno. Come pure fare la carina con chi so che tenta di continuo di sputtanarmi davanti al capo. Stà merda qui è un ridicolo circo dove hai l’impressione di correre di continuo. In realtà non ti muovi di un millimetro. Poi, porca puttana, tutta la vita che c’è fuori dalla mia scrivania dove la mettiamo? Tutta quella che non vedrò mai se continuo a marcare e rintanarmi là dentro a battere sulla tastiera, spedire fax e compilare documenti. Col tempo poi, ho anche scoperto di non aver ottenuto niente. Quindici anni di niente mi sembrano un pò troppi, che dici?
Ancora tace. Lui.
Non è che possa fare molto di più.
Con la testa aperta in due. Il sangue secco che ha deformato i lineamenti in decomposizione. Il colorito indefinito nella penombra ma freddo come una lama tagliente.
Quando se ne va lascia aperta la finestra.
C’è puzza qui dentro, gli ha detto stizzita prima di uscire.
Quando non si trovano le risposte giuste è difficile non continuare a domandare.
Tornerà domani. A tormentarlo