Qualche domanda a Giorgio Sannino autore del recente romanzo ‘Il pianto delle falene’ (Edizioni Smasher, 2008).

Inizierei dall’elemento più forte e rischioso del tuo ultimo romanzo: il narrare in prima persona attraverso la voce della protagonista. Come sei arrivato a una scelta così delicata e controversa? Quanto è stato difficile infilare ‘quei tacchi’? Immagine di Il pianto delle falene

È stato difficile solo in parte, mi è risultato piuttosto naturale, quasi una scelta obbligata. Volevo parlare di una donna e descrivere quella che credo essere una delle fasi più delicate della sua vita, l’età matura e la sua consapevolezza. Per di più volevo che questa donna soffrisse di attacchi di panico, e scriverne in prima persona mi è parso fin da subito la forma più adatta, per via di una serie di considerazioni proprio legate al panico: una sorta di mondo strettamente legato all’Io di ognuno di noi. Ho incontrato le maggiori difficoltà all’inizio, in qualche modo non conoscevo ancora a fondo Katia, la protagonista. Poi il personaggio, e i personaggi, hanno preso vita e si sono fatti strada da soli, come spesso mi accade. È il modo che uso per capire se una storia funziona, altrimenti lascio stare.

A romanzo concluso, pubblicato e quindi dopo un ragionevole lasso di tempo dalla stesura, credi di esserci riuscito, a dare credibilità a una voce femminile o ci sono parti, aspetti, che oggi vorresti cambiare?

Ho rielaborato il romanzo più volte. Dapprima da solo, poi su indicazione dell’editore. Quella pubblicata è la terza revisione. Rileggendolo oggi, il romanzo mi pare decisamente femminile. Non intendo dire che sia adatto ad essere letto solo da donne, ma che forse potrebbe sembrare scritto da una di loro. Probabilmente ci sarebbe ancora da fare, e tuttavia mi chiedo se esista un limite, la stesura perfetta. Credo di no. Trovo Katia credibile e questo mi basta. Ci sono capitoli che mi piace rileggere e ogni volta mi stupiscono. A distanza di tempo, come giustamente intendi, si ha un occhio più obiettivo e soprattutto succede quella magia: leggersi come fosse la prima volta e come se si trattasse dell’opera di qualcun altro. Sono contento, il romanzo regge e ti porta per mano fino alla fine, questo è quello che provo e quello che mi arriva dai primi lettori. Va bene così.

Quanto c’è, dentro il personaggio di Katia, di te?

Io ci sono, ma poco. All’osso, l’inevitabile, se preferisci: il mio di cui non posso fare a meno. Per il resto ho rubato molto alle donne, soprattutto a quelle che conosco. Prima di cominciare a scrivere ho ampliato le mie frequentazioni femminili, le ho sbirciate, ho scavato. Ho perfino chiesto di guardare nelle loro borse. C’è un dialogo serrato fra Katia e Caterina, un personaggio non marginale del romanzo, durante il quale entrambe svuotano il contenuto delle proprie borse sul tavolo e si divertono a sezionarlo. E poi abitudini, sensazioni, miraggi femminili. Ho chiesto a tutte di provare a spiegarmi le sensazioni del ciclo. Non solo fisiche, anche sensoriali. È stato un viaggio unico, inimitabile. Ho avuto una certa difficoltà ad apprendere l’uso dei trucchi, ma ho scoperto di potermi innamorare di una crema da corpo al muschio bianco, per dire. E poi la magia del pensare femminile, il loro punto di vista sulle cose. Quelle quotidiane e quelle eterne. Poi, chiaro, c’è la mia parte femminile, che reputo piuttosto sviluppata e che ho scoperto avere un grosso potere ammaliante. Considera che io adoro le donne, le reputo decisamente superiori all’uomo da ogni punto di vista. In un certo senso ho scritto al femminile per invidia.

Da ‘Assolo’ a ‘Il pianto delle falene’ una delle evoluzioni più evidenti è la gestione di una storia che si svincola dall’essere soprattutto introspettiva (come appunto in ‘Assolo’) per mescolarsi a molto altro, attraverso vari e diversi personaggi che ruotano attorno alla protagonista e, in molti casi, ne determinano in parte le scelte, i comportamenti quanto i dubbi e le incertezze. Poi gli ambienti, le atmosfere, odori, colori e sapori. Cos’è successo al Giorgio Sannino che scrive, nel tempo intercorso tra questi due romanzi?

Ho continuato a scrivere, semplicemente. E letto molto, come sempre. Di Assolo sono state dette svariate cose, non ultima il fatto che si trattasse di un tipico romanzo di formazione. È in gran parte autobiografico, innanzitutto. E scriverlo mi è costato enorme fatica e direi sofferenza. Tutti ingredienti che con Il pianto delle falene non ho provato o ho provato in forma nettamente minore. Diciamo che ho scritto “Il pianto” con molta più facilità, perché nel complesso mi sono divertito di più. C’è molta più invenzione, proprio perché per nulla autobiografico. E divertendomi ad inventare ho dato vita ai personaggi, di conseguenza alle atmosfere e ai colori. È molto più vitale, limpido. Anche più facile, probabilmente, pur affrontando tematiche di una certa importanza. Nella versione iniziale i personaggi erano anche di più, poi li ho eliminati perché non necessari. Anche gli ambienti, i sapori di cui parli sono completamente nuovi. In Assolo cupi, a carboncino, monocolore. Nel pianto decisamente più luminosi.

Questo pianto inconsolabile, bambino direi, delle falene è, secondo me, un simbolismo molto forte che richiami in varie circostanze, intervallandolo all’evoluzione nella trama. E’ un lanciare sassolini, in un certo senso, in attesa che il lettore li noti per raccoglierli. Da dove arrivano le falene? Sono volutamente simboli di fragilità e forza, che quindi riprendono le caratteristiche di Katia, oppure c’è dell’altro?

Un sogno, innanzitutto. Le falene che piangono sono un sogno terribile che feci una sola volta, ormai non ricordo più quando. Me ne stavo in questa stanza devastata, piena di mobili e oggetti distrutti, cercando la fonte del pianto di bambino che sentivo nelle orecchie, fino ad accorgermi che a piangere erano falene. Mi arrivavano addosso da ogni dove, finché mi svegliai molto agitato. Sogni così, soprattutto se vividi, non ti lasciano indifferente. Pensai dopo qualche tempo, un anno circa, di farci un romanzo. Il simbolismo con Katia mi parve perfetto.

La vita della protagonista è, tutto sommato, simile a quella di molte donne over trenta che ancora si cercano e affrontano le giornate in perenne stato di caccia e attesa. Verso se stesse e il mondo attorno a loro. Eppure le crepe, quel lieve sfaldamento costante, ciclico, ne ‘il pianto delle falene’ mi sembra decisamente accentuato. Sottolineato. Come se cercassi di far voltare la faccia del lettore proprio lì. Pensi che le donne ‘moderne’, le trentenni, quarantenni di oggi siano più fragili, contraddittorie rispetto al passato? C’è più bisogno di ascoltare certi dolori ormai non più adolescenziali?

Decisamente sì. Non solo le donne, per dirla tutta. Oggi siamo tutti più esposti, soprattutto per via delle nostre stesse aspettative. Il panico di Katia deriva da un eccesso di aspettativa. Nel romanzo ho cercato di enfatizzarlo, perché il più delle volte chi vive in qualche modo sfasato rispetto alla realtà è così che si sente: un alieno. Ha voglia di gridare di esistere e di voler essere come gli altri anche se non sa esattamente cosa significhi. E soprattutto non si rende conto che gli altri non sono diversi. C’è più bisogno di ascoltare certi dolori. E meno li ascoltiamo più ce ne creiamo. In fondo il più delle volte basterebbe semplicemente parlare, comunicare. Quando Katia impara a farlo ha inizio la sua rinascita.

Katia ha superato i trent’anni eppure non ha ancora un compagno fisso tanto meno figli o una famiglia stabile accanto. Oltretutto si è lasciata un passato ingombrante alle spalle. Perché hai scelto una figura femminile ‘fuori’ dai c.d. ‘passaggi evolutivi’ che dopo i trenta vorrebbero la donna o sposata/ accompagnata (più facilmente con almeno un figlio) o in carriera (e quindi lanciata nel mondo del lavoro)?

Sono passaggi evolutivi non più così radicati. Oggi a trent’anni una donna non è più automaticamente compagna, moglie, mamma o in carriera. Katia ne ha trentasei, l’età di mezzo, per come la vedo io. In cui una donna può ancora tutto. Mi piaceva l’idea di dimostrare la possibilità di un inizio post trenta. Chiamalo ottimismo, se vuoi, anche se non mi sembra così straordinario. Anzi, ti dirò, nei miei libri mi piace dimostrare la straordinarietà dell’ordinario. Sta tutto lì, mi pare: vedersi straordinari e andarne fieri.

Nonostante il tipo di narrazione, le figure maschili ne ‘Il pianto delle falene’ sono importanti, direi determinanti. L’amico gay, il compagno part time, il misterioso amante desiderato, la figura paterna sostitutiva… ce ne vuoi parlare?

È vero. Tutti i personaggi, anche quelli maschili, sono determinanti e definiti. Non ci sono personaggi negativi e questo è un altro aspetto che mi piace sottolineare. Non è necessario, per come la vedo io, essere estremi, anche nella negatività. Anzi a volte la stessa persona avversa, da cui ci si allontana, è una persona positiva. La presa di coscienza del proprio posto nel mondo, la consapevolezza, sta anche nelle rinunce. Katia impara a non accontentarsi, non è affatto poco, mi pare. E lo fa fidandosi dei consigli di Peter, Paolo, Umberto, Nico. E Geremia, non dimentichiamolo: il fedelissimo gatto. Sono tutti personaggi dotati di propria personalità, mi sono sforzato di definirla, anche se a volte con brevi tratti. Il ruolo dei personaggi sta nelle loro azioni. La coerenza di Nico, l’istinto di Paolo, la schiettezza di Umberto, lo sguardo indagatorio di Peter. Katia non può farne a meno e, contemporaneamente, impara a non abusarne.

C’è una ‘certa’ elettricità che scorre in molte pagine, direi in interi capitoli. E’ una carica sessuale velata ma non troppo, che accompagna la protagonista pur nelle sue contraddizioni, nel sentirsi destabilizzata, in bilico, nelle fughe quanto nelle attese. E’ stata una scelta ponderata, necessaria a tratteggiare la protagonista?

Sì, assolutamente. Ho usato la sessualità – e la sensualità conscia e inconscia – di Katia per delineare lei e la sua psiche per molti versi instabile. È una donna attraente. Vive la sua femminilità come un’arma che non sa usare. Non sa togliere la sicura, in un certo senso. Chi soffre d’ansia, a livello patologico o quasi, si trova a proprio agio solo nei propri spazi. Sessualmente lei vorrebbe esprimersi più di quanto non faccia, così arriva ad essere sfrontata, accoglie Nico al primo appuntamento in casa sua e si fa trovare nuda ad attenderlo sulla porta. Ci sta, per come la vedo io, ma solo perché il tutto avviene sul suo territorio, se così vogliamo chiamarlo. Fuori di lì, per esempio a casa di Nico, questo non sarebbe mai potuto accadere, a meno di non conoscerlo già da tempo. Fuori dai suoi spazi, infatti, Katia diventa goffa. La sua sensualità non l’aiuta. Accenna timidi tentativi che finiscono in un nulla di fatto. Le aspettative la opprimono. Il bilico, le attese, le fughe di cui parli si esprimono alla perfezione con l’erotismo. A volte sfociano nella violenza. In un episodio lei ammicca a un superiore, il padrone del fast-food in cui lavora da ragazza e che la assilla con proposte indecenti. Infine Katia si inginocchia di fronte a lui e al momento opportuno gli assesta un morso al pene. Anche questa è un’arma. Senza sicura, per una volta.

Qual’è, secondo te, la principale differenza (se esiste) tra la scrittura di un uomo e quella di una donna?

Adoro Joyce Carol Oates, per dire. E Nick Hornby. Mi sembrano due fulgidi esempi di scrittura femminile e maschile. La prima descrittiva, umorale, a pastello. La seconda diretta, pratica, colori a olio, per intenderci. Eppure entrambe istintive, caratteristica dalla quale per come la vedo io non si può prescindere, anche se molta letteratura di oggi, invece, ne fa tranquillamente a meno. Nel mio caso mi piace sperimentare. Credo che leggendo Assolo non possano sorgere dubbi: scrittura maschile. Con Il pianto delle falene, invece, i dubbi sorgono, così mi dicono, se non altro per il nome stampato in copertina. Io sorrido sotto i baffi che non ho. Mi piace scrivere da donna e non credo che smetterò di farlo. In pratica ti sto rispondendo a caso, perché non credo di conoscere la risposta alla tua domanda. Ho scritto al femminile e basta. Non credo di averlo potuto fare per via del fatto di avere capito, anzi sono certo che non è così. Alla fine esiste solo l’urgenza. L’urgenza di dire cose. La forma e tutto il resto vengono dopo.

Grazie a Giorgio Sannino.
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Barbara Gozzi – Luglio 2008

Premessa: da bambina – ragazzina ‘si diceva’ che ero portata per le arti grafiche ovvero disegnare, dipingere con tecniche varie soprattutto tempere, acquerelli e carboncini. Ho dei bei ricordi di quel periodo, quando ogni nuova lezione (specie alle medie inferiori) era una scoperta, un’energia propulsiva (in una classe sovraffollata, piena di odori non proprio gradevoli e schiamazzi vari). Ricordo che facevo infinite prove, a casa, nella mia cameretta-rifugio. Provavo e riprovavo, convincevo mia madre a comprarmi attrezzature professionali costose pur di continuare, andare avanti, mettermi alla prova.
In seguito, frequentare un Istituto Tecnico Commerciale ha bloccato tutto. Più o meno com’è successo a mia madre. Anche lei dipingeva, disegnava, faceva schizzi e tratteggiava con una precisione e decisione che (lo ricordo bene) anche dopo, quando io ero già una ragazzina, continuava a sorprendere. Anche lei ha frequentato il mio stesso indirizzo di studi, più per imposizione in realtà, perché una ragazza con poche possibilità economiche non poteva di certo dedicarsi a ‘futilità’ inconcludenti (dal punto di vista lavorativo, di ipotetici sbocchi professionali insomma). Erano gli anni settanta. Oggi non ne parla mai. Della non scelta. Oltre tutto lei è negata per i numeri per cui tutt’ora i conti li fa mio padre. Però quand’ero ragazzina ricordo che sorrideva, ricordando la remota possibilità di frequentare l’istituto d’arte.
Comunque.
Sono più di dieci anzi, forse quindici anni che non ‘lavoro di mani per creare immagini’.

Sto leggendo un libro di John Berger, questo, che raccoglie alcuni suoi scritti a proposito del disegnare, della filosofia del disegnatore, dei diversi approcci, e in generale dell’uso della mano su un foglio bianco per imprimere linee.
E non credevo, davvero, che ne sarei rimasta così colpita.
Sembrano blablabla inutili, inconsistenti, spiegati così, me ne rendo conto. Ma spero di poterne scrivere con più calma in futuro.
Ci sono tanti modi di disegnare.
Che non hanno nulla a che fare con il risultato finale. Non si tratta di classificare un’opera come, invece, si fa di continuo per i dipinti. Un disegno è un atto più ‘privato’, che può avere finalità diverse eppure non ci si aspetta di vedere una rappresentazione peculiare della realtà (sia in esso raffigurato un paesaggio, un dettaglio, un corpo o un oggetto).

Quello che vedete qui accanto è un disegno fatto dallo stesso Berger (che, in pratica, disegna da sempre).
Ed è anche la copertina originale del libro che sto leggendo (l’immagine è stata mantenuta, seppure rimpicciolendola) anche nella versione italiana.

Dentro il libro, ci sono molti disegni, che accompagnano e (a tratti) spiegano, chiariscono, gli scritti di Berger e anche questo mi piace immensamente.
Saggiare con gli occhi quello che le parole tentano di denudare, decodificare anzi.

Berger è capace di interrompere una cena o una conversazione per tirare fuori il suo blocco e mettersi a disegnare un volto o un dettaglio. E lo fa spinto da un bisogno incontenibile. Ce ne sono tracce tangibili anche nel testo di tutt’altra natura ‘Abbi cara ogni cosa‘ (Fusi Orari, 2007). Lì Berger ha lasciato il disegno di un volto femminile, Alexandra, a cui ha aggiunto delle frasi, in un’evoluzione delle contaminazioni tra significati e tratteggi. L’oggettività che si deforma in una trasposizione soggettiva alimentata da tratti e parole. Qui sotto ripropongo il disegno di Alexandra anche se, purtroppo, le dimensioni e la qualità dell’immagine che ho trovato on line non gli rendono giustizia, non è possibile leggere le frasi.


On line ho, anche, trovato il brano che si riferisce a questo disegno, pubblicato nel libro ‘Abbi cara ogni cosa’ appunto. E’ in inglese ma merita davvero. In particolare il finale è un messaggio per chiunque scrive:

“I look again at Alexandra’s face as she sat in the garden and I recall a sentence by Anton Chekhov, who was also a doctor. “The role of the writer is to describe a situation so truthfully… that the reader can no longer evade it.” We today with our lived historical experiences, which the political machines are trying to erase, have to be both that reader and writer… it’s within our power.”

Il testo completo dello scritto (sempre in inglese) QUI.

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Annotazioni apparsi sulla rubrica ‘Moleskine’ nell’Emagazine Declinate.

Camminare e non guardare

2 ottobre 2008

Mi dicevi ‘cammina e non guardare’ e io non ci pensavo.
Eseguivo.
Cammina svelta e basta. Non pensarci.
Col tempo ho imparato davvero a non pensarci. Ho scelto uno e mi sono sposata. Non abbiamo avuto figli ma lì un pò c’entravi anche tu, per via di questo corpo gracile e di un utero troppo secco, friabile per.
Poi ho ottenuto la promozione. E ancora ho continuato a camminare. Mi svegliavo e riaddormentavo senza darmi il tempo per registrare quello che accadeva – che mi accadeva – in mezzo.
Finché ti è venuto in mente di morire. E neanche si è capito bene come o perché. Incidente domestico, hanno detto. Ti fissavo, mentre quelli delle pompe funebri portavano via il tuo corpo. Semichiuso dentro la sacca di rito, con la testa che si dimenava neanche fossi mai stata un’isterica.
Allora ho aspettato che tutti se ne fossero andati. Mio marito. I tizi in nero. Il ragazzo sudato della croce blu. Sciò.
Mi sono chiusa in casa e non ho fatto niente, mi sono fermata. Non aveva più senso restare in movimento, quel rantolare ovunque tenendo i muscoli tesi. Allora mi sono spogliata e ho aperto il tuo armadio. Ne è uscito l’odore di rose che tanto ti invidiavo da ragazzina. Ho indossato quasi tutto. Perfino le mutande e i reggiseni enormi, che guardandomi allo specchio sembravo in restringimento. Forse lo ero.
Da quel giorno ho smesso.
Era più semplice prima. La tua voce scandiva il tempo, dava il ritmo.
Adesso invece, se provo ad ascoltarmi sento solo un gran silenzio. Che non mi piace.

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Allo specchio

5 settembre 2008

ALLO SPECCHIO (clicca qui per la slideshow)

Lo specchio è rettangolare.
Illuminato da un neon giallastro.

Entra e si spoglia in fretta.
Via
i pantaloni, la camicia color vinaccia e i gambaletti grigiastri. Si ammassano dentro la lavatrice, l’oblò rimane aperto, in attesa.
La luce dello specchio la fa sembrare più colorita, con le dita si allunga la pelle delle guance, l’angolo delle sopracciglia, le labbra. Si guarda con attenzione ma quello che c’è – dall’altra parte – quella sagoma riflessa non le piace.
E non è la giornata lunga, la pioggerella subdola, il fumo o il sudore. E’ proprio lei che non.
Respira piano, quasi rantola. Smette di toccarsi la faccia.
Il beauty è un astuccio nero enorme rivestito di brillantini. Con la mano destra rovista, le è venuta una certa frenesia.
La spazzola passa attraverso le sottili maglie dei capelli lunghi, sono folti e castani con qualche venatura chiara. Li liscia con cura annullandone la piega rimasta miracolosamente in equilibrio per più di dodici ore. Alcune ciocche finiscono davanti agli occhi, le solleticano le ciglia. Inizia proprio da quelle. Le lame sottili delle forbicine scivolano sicure, forti, sente una leggera resistenza mentre conclude il primo taglio ma è uno sbuffo veloce. Prosegue con lo stesso ritmo mentre le lunghezze scivolano come burro fuso sul lavandino. Taglia seguendo una melodia stonata, casuale. Restano spuncioni corti, cespugli radi dall’andamento sconclusionato.
La testa è adesso una palla lucida ricoperta da peluria irregolare, si distingue la pelle candida, timida. Sa di avere il rasoio, da qualche parte, ma non lo cerca.
E’ così che vuole essere. Nuda e imperfetta.
Posa le forbicine sul mobile accanto al lavandino e immerge le dita nel barattolo dello scrub. La crema è fredda, densa e grumosa. Se la plasma attorno al collo, raggiunge ogni spigolo del volto e ricopre la pelle della testa. Interamente fasciata da uno strato abbondante di esfoliante inizia a massaggiarsi. Movimenti piccoli, circolari che strizzano la pelle e le fanno assaporare pieghe e incavi, ruvidità e pori. Inizia così a frizionare più forte, spinge i polpastrelli e affonda nei cerchi immaginari che sta seguendo, sul naso, nella gola, lungo la fronte, attraverso la testa spoglia fino al retro delle orecchie. Si sente friggere, migliaia di pizzicotti invisibili la procurano brividi involontari.

Infila la testa dentro la doccia, afferra il rubinetto dal collo morbido e lo apre con movimenti meccanici. Il getto è bollente, le arrossa la pelle del collo poi tutta la testa che perde il colorito biancastro e l’unto della crema, la schiuma scivola rapida verso lo scolo e lei la fissa con gli occhi semichiusi che bruciano, l’acqua le è finita tra le labbra secche, sta aprendo nuove ferite.
Lo specchio la aspetta. Serio.
Allora recupera le pinzette da un cassetto e avvicina il volto al vetro. E’ un lavoro che richiede tempo e pazienza. Inizia a strapparsi le sopracciglia. Una a una. Ne afferra l’estremità con cura poi tira secca, i gomiti saltellano concentrati.
Gli occhi sembrano più piccoli, adesso, si perdono nelle pianure tortuose quanto morbide. Eppure sono lucidi.

Non sembra più una faccia.
Non sembra più una testa nascosta dietro ornamenti e vezzi faticosi. Le barriere sono sparite, erbacce selvatiche strappate con forza. Via i capelli, il trucco e le cellule morte, perfino le sopracciglia.
E’ diventata un ammasso deforme, splendente. Ci sono angoli, spigoli vivi e distese chiare che seguono le rotondità del cranio. Le gocce d’acqua rimaste sulle spalle si stanno asciugando. Nel bagno c’è caldo, ha alzato il riscaldamento prima di entrare.
Si slaccia il reggiseno poi sfila le mutande. Entrambi finiscono per terra. E lei lì, dritta e immobile.
Eccola finalmente.
Così com’è all’esterno.
Si sorride e la fa stare bene quel movimento dei muscoli facciali. Si sente pronta.
Le forbicine sono ancora sul mobile, silenziose. Le afferra con cautela, lucide e sottili, quasi inconsistenti.
Adesso si, è davvero pronta per la scarnificazione.
Per cercare al suo interno.

C’è questo gusto, di sapone e ferro.
Il neon ammorbidisce i contorni, sul lavandino i dettagli sono nitidi, segnano il tempo, scandiscono lo spazio.
E quel rosso che scende, cola, si mescola a peli e capelli morti, quel rosso la sta liberando dalla schiavitù dello specchio. La svuota.

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> Alcune riflessioni  su Declinate.

Ci sono posti

14 giugno 2008

Si ritrova lungo la strada senza rendersene conto; non c’è un percorso, qualcosa che le indichi con precisione dove girare o come arrivarci.
E neanche se ne accorge, non subito almeno, che l’ha trovata.

Cammina continuando a guardarsi in giro poi un raggio di sole, due cartelli storti e nell’aria un odore familiare. Si è lei, pensa, mentre rallenta l’andatura. D’improvviso ricorda il verde scuro che la colpì scendendo dalla Volvo dei suoi, ricorda l’odore di muffa e la nebbia mattutina che ne sfumava i contorni. Poi quel senso di pericolo che le ha fatto gelare il sangue, voci lontane, distorte e un agente che l’ha presa per un braccio, la tratteneva ma lei non capiva, voleva andare, proseguire e sapere cos’era successo, perché dicevano che suo fratello era lì. Ma lì dove?

Certi posti trattengono frammenti indelebili, che li collegano alle persone; tracce invisibili che sono vecchi amici mai dimenticati. E quando si riuniscono riaffiorano colori precisi, un vago aroma che trasforma la percezione in memoria e recupera schegge sepolte, di vite che sono rimaste impresse.

Proprio lì, in quella strada stretta dimenticata dall’urbanizzazione è successo.
Dieci anni fa, però.
E il solo pensarci, ricordare che, sembra complicato, uno di quei film in bianco e nero con la pellicola rovinata dal tempo e le mani. Sembra anche diverso però, adesso che si guarda in giro associando spazi a pezzi di vita sepolti dallo scorrere del tempo; sembra perfino insensato mentre ci cammina con gli occhi di quei vent’anni rubati ai banchi, con la voglia di fare tutto, ridere, non pensare e uscire solo per il gusto di non fermarsi mai.

Le campagne emiliane sono indolenti, è difficile descriverle perché il loro sapore dipende dall’umidità, dai canali quanto dalle distese di terriccio secco e incolto. E’ difficile perfino immaginarle, bisogna posarci i piedi in certi angoli nascosti, tra piante enormi e strade che sono scie di buche e ciuffi d’erba selvatica.
Lei sa però, si è fissata tutto nella testa – polaroid automatica – prima di andarsene. E adesso è tornata. Solo che non pensava di averne ancora paura.

Era il millenovecentonovantasette.
Quando suo fratello si sentì male.
Dopo una nottata passata con la solita compagnia, ‘quelli grandi’ li chiamava lui perché erano tutti ultra venticinquenni mentre lui ne aveva appena compiuti diciotto. Ogni minuto libero lo passava con loro. Beveva e di certo faceva anche altro ma non le interessava granché all’epoca. Dopo invece si, è diventata un’ossessione scoprire cosa, come, dove ma soprattutto perché. Ossessione subdola, ridicola nel suo cercare qualcosa che ormai non esisteva più eppure per molto tempo non è riuscita a fermarsi, ha continuato a inseguirlo, cercarlo. Come oggi.

Era il diciotto febbraio, faceva freddo, umido come sempre in questi posti pieni di vegetazione rada e case diroccate.
Una macchina – si dice scura – ha scaricato un corpo lungo una stradina di periferia, in piena campagna. Un vecchio se n’è accorto solo perché urinava in santa pace dietro una pianta, oltre un paio di siepi c’era casa sua ma la necessità era tale da impedirgli di raggiungerla in tempo per. (Non si è mai chiarito cosa facesse a quell’ora il distinto contadino in pensione tra stradine buie e piante selvatiche).
Comunque li ha visti arrivare a tutta velocità – ha detto alla polizia che la macchina era stipata di gente – poi un’inchiodata da film americano e il tonfo.

Era mezzanotte passata da poco quando suo fratello è stato lasciato lungo quella stradina fangosa.
Nel suo stomaco c’era una miscela letale di alcool e chimica ma nessuno poteva saperlo. Ancora.

Raggiunto l’incrocio con la provinciale si volta, il sole illumina il paesaggio al punto che deve mettersi la mano davanti agli occhi per non vedere tutto bianco.
Allora è così, pensa mentre la paura evapora e lo scopre meno doloroso quel posto, non c’è niente lì che racconti di quella maledetta notte più nera delle altre. Le scappa una smorfia, un sorriso strozzato. Cosa pensava di trovarci? Anche adesso non riesce a rispondersi. E’ tornata ma non sa, non capisce se davvero, se lui o magari loro, se si poteva.

Ci sono posti che non si possono spiegare, in realtà non esistono finché non li si attraversa con gli occhi sbarrati e le orecchie in ascolto. Poi forse, anche dopo finiscono dimenticati.

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Foto BG.

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Alcune note dall’ ‘officina’ creativa.
Fotografia: è stata ‘rubata’ in senso letterale mentre aspettavo in macchina lungo una strada provinciale delle campagne modenesi, in pratica mi sono fermata in attesa che la macchina davanti a me svoltasse a sinistra e voltando la testa alla mia destra ho visto che ero ferma davanti al collegamento con un piccolo viottolo non asfaltato. C’era questo sole mattutino, brillante e in salita ma i colori risentivano ancora della nebbiolina leggera della notte. Così ho scattato.
Racconto: come dico in parte nella narrazione, ci sono posti che hanno qualcosa da dirci pur rimanendo in silenzio. Ci aspettano per sussurrarci quei segreti che custodiscono, di gente passata, avvenimenti accaduti… l’idea che in questa stradina di campagna possa essere successo qualcosa di ‘brutto’ mi è arrivata da subito, già mentre scattavo. Di certo ha contribuito l’atmosfera. Il fatto di trovarmi ferma proprio lì davanti di mattina presto (non erano ancora le otto), in quella finestra temporale dove le campagne si allontanano dalla brina, la notte e il grigio e cercano di avvicinarsi al chiarore di mezzogiorno, quella limpidezza che nelle belle giornate illumina tutto. E’ un transito anche questo per me, l’ho sentito sulla pelle, come una finestra in un certo senso anche temporale. Allora lì, tra la ghiaia e la vegetazione selvatica ci ho visto una donna che camminava, un pò smarrita, un pò confusa. Il resto è venuto da sè.

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Racconto contaminato pubblicato sul blog Declinato al Femminile su menstyle.