La metà invisibile dell’invisibile meta.
14 agosto 2009
[di Barbara Gozzi, Agosto 2009]
Quella notte è successo.
Ma non ha capito subito, che era successo.
E’ scesa dalla macchina dopo averla parcheggiata tre volte, in altrettanti posti diversi entro lo stesso parcheggio. Ha controllato almeno due volte di aver chiuso il frontalino nel cassetto portaoggetti davanti al posto vuoto del passeggero. Due volte, si. Ha chiuso la macchina premendo lo stesso pulsante di sempre che però ha emesso un leggero tonfo, come un sasso tondo, piatto e largo lanciato senza garbo nell’acqua fonda. Ha toccato le maniglie più di quattro volte. Boom, boom, boom, boom, boom. Sequenze nevrotiche. Mania di controllo. Evidenza di incertezza.
Quella notte poteva ancora. Cambiare idea. Dare un senso contrario alle parole sbucate chissà da dove, e pronunciate ore prima al cellulare. Alle dieci va bene. Sei sicuro che al Palace’s già sanno? Ok, due-uno-due (risatina bassa, nervosa, a proposito della sequenza numerica simil palindromo, ha pensato). No, no, ho capito. Ce li ho sempre i documenti (in tono quasi divertito, tentativo di sdrammatizzare). Si, va bene. Anch’io. A dopo.
Boom, boom, boom, boom. Comunque.
Poi.
Con la mano ancora sulla maniglia, quella della portiera nel lato conducente. Con il sole ormai morto all’orizzonte, il parcheggio isolato, e una vaga patina umida sul collo, verso la scollatura generosa ma non troppo vistosa. Con un sospiro lungo, di quelli che espellono aria lentamente, e facendolo liberano alcune tensioni muscolari localizzate. Con i polpastrelli a sentire il duro della maniglia, più reale di quanto riuscisse in quel momento a focalizzare.
Lì.
Nell’istante appena descritto.
La materia si è sfocata. (S)doppiata letteralmente.
L’altra mano, quella libera, si è alzata rimanendo ferma, lungo il fianco.
Il volto ha ruotato proiettandosi verso l’ingresso dell’hotel ed è rimasto fisso, immobile su quell’orizzonte morente. Sono in anticipo, ha pensato ripetendolo nello (s)doppiamento. Sono in anticipo. Infatti erano appena le nove di un’estate bagnata e afosa. Il cruscotto ha rimbombato due volte, la lancetta delle ore si è fermata sul ‘ventuno’ con un doppio scatto. Ventuno. Ventuno. Elemento comune.
Poi però il corpo si è spostato, il cuore ha accelerato. Doveva entrare, nel parcheggio poteva essere vista, poteva arrivare qualcuno e riconoscerla, non voleva che nessuno. Nessuno.
Le porte scorrevoli si sono aperte davanti a lei.
Contemporaneamente fissava il bagliore, il sole verso la fine del suo ennesimo tramonto, dietro di lei il Palace’s pareva scomparso, ologramma ignorabile. Blocco necessario. Doveva entrare ma. Ma. E la mano stretta alla maniglia ha ordinato all’altra di recuperare le chiavi nella tasca esterna della borsa e rimuovere la chiusura centralizza. Altro tonfo, altro sasso lanciato nel fondale.
Le lancette nel frattempo si sono mosse, il tempo non ha permessi da chiedere, il tempo è. Resta.
La più grossa sempre sul ‘ventuno’, l’altra sottile e lunga sul ‘sette’. Appena qualche minuto insomma. Per entrare trovando il coraggio di chiedere la due-uno-due e, contestualmente, restare imbambolata tra posti auto vuoti prima di risalire e andarsene.
Due diverse azioni. Un solo scenario. Lo stesso corpo in movimento, materia moltiplicata a se stessa, azioni multiple inseguendo intenti e volontà relativamente opposti tra loro.
Le scelte spesso sono reversibili. Si dice che le seconde possibilità siano pratiche necessarie, innegabili. Alcune però determinano un percorso, chiudono porte mentre qualcosa si ingoia la chiave. E quelle porte lì, chiudendosi sono destinate a rimanere eternamente inagibili. E con loro il contenuto di carne, movimenti, azioni, parole, volti ed emozioni.
Ma quella notte è successo. A lei. Di entrare attra-verso entrambe le porte.
Si è vista deglutire parlando con l’uomo attempato alla reception, sorriso vagamente giallastro e dita a uncino che le allungavano la tessera magnetica della camera matrimoniale prenotata. Siete di passaggio mi risulta, le ha sibilato tra i denti giallastri. Siamo di passaggio, ha ripetuto lei rischiando di tartagliare ma salvandosi concentrandosi sulla tessera che ora, stretta nella sua mano sudata, pareva pulsare.
E mentre saliva le scale – l’ascensore no, non importa – ha mormorato, aveva bisogno di muoversi, di avvicinarsi piano, poco alla volta, a La camera. La due-uno-due. Mentre.
Sapeva.
Che in macchina, prima di riaccendere aveva tentato di riposizionare il frontalino della radio e al terzo tentativo le era caduto sul tappetino. Le mani instabili si prendevano gioco di lei. Voleva andarsene da lì, e in fretta, le prudeva la pelle. E’ ripartita senza guardare davanti a sé, poteva arrivare qualcuno, poteva essere riconosciuta. Stava uscendo dal parcheggio privato di un noto hotel della zona. Spiegarlo sarebbe stato complicato, non impossibile come essere vista entrare, ma complicato. Ha ingranato la seconda dopo essersi immessa nella principale e il frontalino si è staccato ancora, ruzzolandole ai piedi. Ha frenato nel primo passo carraio libero approfittando di un piccolo spiazzo davanti al cancello di una villa giallastra qualunque. Alto, il cancello, e di ferro con incisioni incomprensibili. Si è imposta di calmarsi, il cuore ansante iniziava a cedere, rullava invertendo la corsa, ormai era fuori, lontano da. Da.
Lo (s)doppiamento, il primo, era appena una nota, tra le maglie di una (in)finita melodia. Ma non aveva nulla di metafisico men che meno astrale o psicologico, non era pratica esoterica, né percezione di un ‘aldilà’ o altre interpretazioni più o meno mistiche. Non era devianza mentale, invenzione malata, chimica inceppata. Non era viaggio ‘fuori’ dal corpo. Viaggio, si. E il corpo – i corpi – ne dominavano le dinamiche. Ma non erano fuori le spiegazioni. Non arrivavano neppure, da fuori, i corpi e il viaggio.
Quella notte, per la prima volta poteva aprire entrambe le porte.
Scegliere l’immersione, apnea nuova, con e in un uomo che non compariva nel suo stato di famiglia.
O rinunciare all’ (im)previsto che le ha risvegliato un (in)definito orfano di termini adatti.
Le scelte sono questo. Il lancio di una moneta che, dopo aver rotolato su se stessa per un pò, posa un lato sul piano, oscurandolo, e l’altro lo espone. Quest’ultimo, il lato visibile, diventa l’unico conosciuto da tutti eccetto il lanciatore e la moneta stessa. E spesso, lanciatore e moneta sono quell’unico corpo sfilacciato che si mette in gioco.
Lei sentiva che la moneta rotolava, rotolava, rotolava, pronta a scegliere tra due modi di vivere.
Essere metà invisibile.
Oppure.
Cedere all’invisibile meta.
Ma per ora, quella prima notte, non li conosceva per nome. Gli invisibili.
Poteva vivere entrambe le realtà, esserci nello stesso modo, presente a sé, con corpo e affezioni. Con quel ‘sé’ che è bagaglio ingombrante. E l’empatia causa-effetto del bivio.
Poco sapeva, in effetti, delle conseguenze, del dopo. In entrambi i casi poteva comunque essere o rimanere molte ‘cose’. Oppure nessuna. E di ogni possibile variabile aveva paura. Forse per questo è successo. Forse è stata la sospensione. Il pressoché identico peso, l’indecisione tra stomaco e membra. Forse succede quando scegliere è impossibile. Forse è davvero possibile quell’im-possibile manifesto. Percorrere due strade contrarie contemporaneamente. Essere, nello stesso momento una vita e due virate, e assorbirne le evoluzioni, entrambe unite e scollegate. Fino a quando, non lo sapeva, non se lo è chiesta, la domanda è finita chiusa da qualche parte entro il recinto del paradosso.
Nella due-uno-due l’odore di disinfettante fruttato le era insopportabile. Ha aperto la finestra davanti al letto matrimoniale, ha fatto appena alcuni passi entrando. Due per posare su un tavolino in legno la borsa. E quattro per raggiungere la finestra. Dopo, ha chiuso gli occhi. Non ha idea di com’è fatto il letto, di che colori è vestito, il letto, e il resto attorno. Entrando si è accesa automaticamente un’abat-jour sul comodino vicino alla finestra. E lei li ha tenuti chiusi, gli occhi, sentiva sulla nuca il fresco della notte in avanzamento progressivo. La piccola cucina puzzava. Si era dimenticata di portare fuori il sacco stracolmo della spazzatura, con i resti della frutta e della carne dell’altra sera. E la stanza era sigillata. Entrando ha avuto una vertigine, dopo due passi appena si è bloccata, in attesa. Di qualche rumore. Suoni indicatori di presenza. Ma gli è arrivato tra le narici il puzzo dei rifiuti, nient’altro. Non c’era nessun altro. Le stanze immobili e buie attendevano. Allora si è lasciata assorbire posando la schiena contro la finestra aperta, abbandonando il collo e dimenticando le palpebre.
Il corpo ha sussultato seguendo l’onda di un brivido improvviso.
Un sottile senso di acido si è insinuato entro la bocca dello stomaco. Lo stesso, unico, stomaco separato da muri lontani, stanze differenti e medesimi respiri.
Le ginocchia si sono piegate. Piano. Lentamente. Un centimetro alla volta. Finché il pavimento ha riassestato gli equilibri di muscoli e ossa. Le ginocchia esposte, alte, hanno laschiato che la fronte sudante ghiaccio vi si posasse. Il collo allungato in avanti era già indurito, cedendo al nuovo baricentro. L’aria usciva svelta da naso e bocca. Il bagno e la cucina frullavano tra loro, amalgamavano materie, montagne russe improvvisamente insopportabili.
E lei con la testa in giù, una mano sulla moquette neutra della due-uno-due e l’altra sul granito rosato della cucina, mentre le lancette insistevano a camminare come sempre, ventuno e trentuno, mentre attorno il resta resisteva, stava dov’era il giorno prima, e così quello dopo: è svenuta.
Allora gli Invisibili l’hanno accolta entro membra lievi, sfioramenti dal sapore delle memorie ingiallite, bagnate dal sudore amarognolo. Allora il Silenzio, imbottitura tagliente, filamento poliforme, ha attutito lo (s)contro delle carni.
Le lancette si sono spostate divertite, curiose. Toc. Ventidue. Toc. Zerozero. Alcuni attimi ancora, il tempo ha allungato le sue lingue viscide, sfiorando consistenze, dominando moti.
Il cellulare si è mosso seguendo vibrazioni regolari. Ingabbiato in una borsetta scura, schiacciato da un pacchetto di fazzoletti di carta, sfiorato da un lucidalabbra dai bordi rovinati, e torturato dai denti appuntiti di un piccolo mazzo di chiavi aguzzine. Il cellulare ha vibrato. Uno, due, tre scossoni assorbiti dalla borsa, nascosti ai tavoli su cui è stata posata frettolosamente un’ora prima.
Tardo dieci minuti, aspettami. Voce silenziosa di un messaggio.
Sono arrivato ora, ti aspetto. Voce silenziosa dello stesso messaggio, che insegue l’altra virata.
Perché i silenzi, certe volte, sono mani grandi ricoperte da dita grasse, carnose e succulente, forti. Che circondano il collo senza scatenare aliti attorno e stringono, stringono, stringono. Finchè.
Una palpebra si è mossa, l’altra l’ha seguita.
Iridi enormi, liquidi. Scheggiati. Ciglia sottili, non troppo folte. Pupille calme, attente. Caldofreddo. Sudore. Sapore acido che dalla gola ha tentato di risalire. Deglutire piano, appena un’unghia che sul collo si è deformata in onda fluida. Fragranze amarognole di frutti che maturando si sono decomposti troppo in fretta. Polvere sulla pelle. Membra annodate vagamente intorpidite. Labbra secche, pronte per una febbre imminente. Vaniglia nell’aria. Saliva. Formiche tra i polpacci. Seno schiacciato, dolorante verso i capezzoli. Un ginocchio si è arrossato. Aprire e chiudere gli occhi, asincronie piatte. Penombra e buio. Buio e penombra. Chiaroscuri mutevoli. Stop.
Il gioco.
Il viver(si)e.
E’.
Ora.