Photoshoperò di Francesco Forlani da ‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ di Barbara Gozzi per la performance all’interno dell’evento ‘Corpo di donna: corpo politico e corpo poetico’ che si terrà a Bruxelles il 30/01/2010. Musiche di Frank Lassalle. Citazione Magritte di Georgia.

[Grazie a Francesco e Frank. Bg]


La cronologia delle pubblicazioni on line del progetto ‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ QUI.

Su Nazione Indiana.

Il comunicato stampa dell’evento, in una prima versione in francese.
Il comunicato stampa completo, aggiornato:

Il Club del libro asbl e l’Associazione Gramsci Bruxelles

Presentano

CORPO DI DONNA
CORPO POLITICO & CORPO POETICO

29 e 30 Gennaio 2010
29 Gennaio ore 20,00
Radio Alma FM 101.9 on air

30 Gennaio ore 21,00 Sale
Culturelle Expace Marx

Salle Culturelle Expace Marx
Rue Ruppe 4, 1000 Bruxelles
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‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’
di Barbara Gozzi
e con Francesco Forlani

Il progetto nasce per contrastare cecità e smemoratezze dell’Italia di oggi partendo da un corpo, quello di Eluana Englaro, nodo centrale di fatti recenti, battaglie legali, mediche e massmediatiche.
Eluana Englaro è morta a Udine il 9 febbraio 2009 dopo diciassette anni di vita in stato vegetativo.
Il suo corpo è stato ‘oggetto’ conteso, immagine deformata, capovolta, violata nell’identità, nella non-voce, nelle volontà. Ha subito imposizioni, strumentalizzazioni che dalla sua carne si sono diramate alle complesse questioni del testamento biologico, lo Stato di Diritto e le libertà individuali. Fino ai corpi-tutti.
‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ è una trattazione in tre movimenti: ascoltare, dire e raccontare. Movimenti che recuperano ciò che questo corpo è stato, ciò che è diventato nell’immaginario collettivo quanto nella dimensione intima della carne.
Ora il progetto trasmuta in performance con la collaborazione e l’interpretazione di Francesco Forlani.

Per recuperare ascolto e accoglienza verso i corpi nella loro essenza, dimensione dell’umano.
Per non dimenticare ciò che è già stato, ma che può cambiare.
Perché ogni corpo non diventi – prima o poi – ‘oggetto’ nelle mani di circuiti altrui, volti sfocati incapaci di essere e decidere.

Per recuperare la morte come transito, accompagnamento, rispetto, scelte.

Testi e performance di Barbara Gozzi.
Interpretazione video in photoshoperò e performance di Francesco Forlani.
Musiche originali dal vivo di Franck Lassalle.

Contenuti del movimento uno: i fatti attorno al corpo di Eluana Englaro (cronologia e testamento biologico in Italia); attorno al saggio ‘Corpo morto e corpo vivo ‘ di Giulio Mozzi (Transeuropa, 2009 con nota finale di D.Paolin); massmedialità (il corpo di Eluana Englaro attraverso i media); Quando l’etica manca di benevolenza (intervento inedito di Piero Bocchiaro); non epilogo – appendici (evoluzioni sociali, espansioni culturali e artistiche dal-nel corpo di Eluana Englaro).
Movimento due: Errant entre les pages effiloché ( La mia voce è questa, esiste. E’ ).
Movimento tre:Pelle’, una storia.
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Per il movimento uno: Piero Bocchiaro (collaboratore). Teresa de Cesare e Federica Sgaggio (consulenti). Grazie a Giulio Mozzi, Demetrio Paolin, Claudia Boscolo. Grazie a Barbara Garlaschelli e Luca Radaelli.

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Punto di fuga 03 Corpo di donna
di e con Dale Zaccaria e Francesca Checchi

Puntodifugaproject nasce dall’idea dell’artista Francesca Checchi insieme ai testi alle parole di Dale Zaccaria.

Si cercano puntidifuga per uscire dalle barriere-dittature sociali storiche o politiche o semplicemente intime e personali.

Poesia video performance installazioni diventano così i “contenitori artistici” per un proprio punto di fuga.

Il terzo punto di fuga sarà il corpo femminile. Corpo poetico e artistico il corpo di donna creerà il proprio spazio attraverso la poesia, le immagini video – audio, la musica, e la voce. Il corpo di donna protagonista assoluto, soggetto creativo e dominante del proprio spazio. Il corpo di donna quale fulcro di attività creatrice che “evade” trova il proprio “passage” nell’atto stesso della creazione.
Creazione e fuga diventano così semplicemente sinonimi del femminile poetico.

Testi di Dale Zaccaria
Immagini Video Audio Installazione di Francesca Checchi
Musiche Elettroniche di Roberta Vacca

Respirare

25 agosto 2009

Stanotte ho letto una cosa che me ne ha fatte tornare in mente altre.

Non sapevo nulla della morte.
O meglio: sapevo tutto come tutti. Ne avevo letto, avevo ‘visto’ la sua messa in scena nei vari schermi della giovane vita che avevo avuto fino ad allora. Raramente ne avevo parlato, più con qualche amica (anni prima era morto un altro corpo, il primo grande dolore avvertito, assorbito dal mio, di corpo). Un’altra volta, andando ancora indietro, riavvolgendo il nastro delle memorie, mio padre mi aveva portata con sè prima di un funerale. Altro corpo, ancora più vecchio e lontano, sangue incastrano con altro sangue che piano, lento e paziente mi aveva dato la vita. Mia madre aveva borbottato un pò, sottovoce (ed era raro, evento allarmante, che mia madre borbottasse contro mio padre). Io ero salita in macchina con un misto di emozioni crudeli come noia, fastidio, fatica. Poi l’ho visto, tassello perfetto incastrato nella bara, con la pelle trasparente e inconsistente, il volto allungato che era appena cranio osseo, e un’infarinatura bianca ovunque. L’ho visto e ho assorbito l’urto. Non ne ho parlato per anni. Finché un click ha echeggiato nella mia testa.

Torno all’origine, allora. A quando non sapevo nulla della morte.

Avevo vent’anni.
E questo corpo che era una persona con tanto di nome e cognome, declinazione precisa in me, affrontava gli ultimi tre giorni. Ultimi prima che gli organi smettessero il regolare funzionamento. Ultimi per occhi sempre più fermi, arti ormai lenti, immobili nella mobilità dei moribondi, e respiri.

Dei respiri non credo potrò mai scordarmi.

Non tutti, tre giorni sono settantadue ore dense da poterle ingoiare solo tagliandole a cubetti, se non si sa cosa fare. E io non lo sapevo. Cos’era la morte. Ma anche – e soprattutto, aggiungo ora dopo oltre dieci anni – non sapevo cos’era affiancare un corpo verso. Dargli quell’appiglio prima del blackout generale, prima di smettere tutto, ma proprio tutto.
Respiri compresi.

Comunque non sapevo e ho imparato ora dopo ora. Cuscini su, cuscini giù. Attirarlo verso di me per far riposare la schiena, riporlo sui cuscini gonfi e stantii. Bagnargli le labbra, asciugarle. Pulire il viso, fissarlo e basta. Aprile le finestre, chiuderle. Parlare e tacere. Alzarmi e sedermi. Accanto e attorno. Dentro la camera e fuori.


La mattina del terzo giorno (e a ripensarci ora sono state molto meno di settantadue ore) è iniziata la procedura. Non trovo un termine migliore, non lo conosco. L’intero apparato respiratorio, sotto la direzione della pompa principale, ha preso a singhiozzare. Non avevo mai – mai – considerato prima quanto fosse complesso, laborioso e faticoso respirare. Respirare è atto istintivo, gesto che non chiede istruzioni, è ciò che è, avviene senza pretese, ci lascia al tempo e al resto.


Eppure respirare per molte ore, su quel corpo che non era  più corpo,  era improvvisamnte una sequenza precisa inversamente proporzionale. Procedura. Di frenata lenta, rallentamento graduale, riduzione sistematica e puntuale. Respirare era l’atto finale. Il metro, la misura. I secondi si sono sommati tra loro. Non avevo mai pensato – mai – alla possibilità di variare la frequenza, dei respiri. Non avevo mai pensato alla morte. Alla morte-morte. Che non è inquadratura, singhiozzi telecomandati e dolore di gomma catarifrangente.


Ho un frammento, nitido e consistente, conficcato tra gli occhi che porto sempre, ovunque finisco, e ogni tanto come oggi si assesta e fa male. E’ un frammento di un momento preciso. L’ultimo respiro di quel corpo che è durato più di un minuto, molto di più e io con lui, con quel respiro, seguivo e aspettavo. L’ultima lunga, lunghissima, lentissima rincorsa poi. Nulla. E il mio primo respiro dopo. E tutti gli altri che si sono seguiti e rincorsi dopo, ai quali non ho più fatto caso, non potevo, non importava ormai Era prima, che faceva differenza, quado respiravo ma non riuscivo più a farlo senza pensarci. Pensavo che stavo respirando. Respiravo pensando aggrappata all’altro respiro, quello del non corpo in dissolvenza. Lo sentivo ovunque, in casa. Perfino al piano di sotto davanti a una tazza di latte che era ricotta molliccia per gli occhi, le lancette del vecchio orologio a scandire un non tempo gambero.


Respirare è atto dovuto, che non attira attenzioni, non scatena interessi o riflessioni. Proprio come la morte-morte. Eppure i corpi affrontano un preciso punto di rottura. Che è quel frammento rimastomi incastrato nella fronte, sotto, entro pareti e cassetti.


Quello non era più, corpo. Non era. Ma da prima. Da quando esattamente ancora non l’ho capito. Dall’inizio dei respiri lunghi, forse. Dall’immobilità cronica. Da quando gli occhi hanno smesso di lacrimare e illuminarsi. Non lo so.

Ancora oggi molto non so, della morte.
Ma che in quei respiri non ci fosse più carne, più niente, si, questo mi è rimasto. E ringrazio.

I corpi custodiscono segreti. Sono indicatori. Non possiamo nulla contro di loro. Quasi, nulla. Tendiamo i nostri limiti finché il filo è talmente sottile e lungo da non essere più reale. Tecnologie, medicine, cure, chirurgia, regimi alimentari, attività fisica, trattamenti e follie varie.

Ci prodighiamo, per mantenerlo vivo e possibilmente vicino a ciò che ci sentiamo, siamo, attendiamo, desideriamo.
Ma dell’aggancio, del dopo, del verso. Nulla. Non facciamo nulla. Non sappiamo, nulla. E quel poco che avevamo scoperto lo stiamo perdendo.

Io vorrei sentirlo. Lo pensai quella mattina, di oltre dieci anni fa, mentre fissavo ossa, pelle e nient’altro. E ancora oggi. Vorrei sentirlo, aggrapparmici, e permetterlgi di essere, in me.

Mi fermo, ora.
Chiudo gli occhi.
Spengo luci e apparecchi vari.
Mi ascolto.

Respirare.