Ho paura

26 aprile 2007

Ho paura.
Respiro affannosamente.
Sento i polmoni che si contraggono. Cigolano a ogni tentativo.
Il mio cuore no. Sta correndo a occhi chiusi. Ma non riesce ad allontanarsi. Scappare è un lusso che non può permettersi.

Tu stai arrivando. I passi rimbombano nel corridoio. Lenti macigni che mi annebbiano la vista. Aumentano l’orrore, la consapevolezza.

Ho paura.
Batto i denti mentre spingo la schiena contro la porta chiusa. La lascio così, appoggiata. Incollata a quell’unico ostacolo che ci separa. Con la ridicola idea che, rimanendo in quella posizione, tu non riuscirai a entrare. So che lo farai. Ma non posso pensarci. Non adesso.
Mi guardo in giro. Cerco. Ma cosa? La camera è sempre la stessa.
Da due anni.
Potrei provare con il vecchio cassettone. E’molto pesante però. Mi ci vorrà un pò per spostarlo. E nel frattempo devo abbandonare la porta. Tu stai arrivando. Non posso farlo. Meglio restare dove sono. Immobile. Ghiacciata. Una bambola di porcellana.

Bussi. Con discrezione. Adesso sento anche il tuo respiro. Calmo. Deciso. L’odore di cologna, anche quello mi arriva. O è solo un ricordo. Di tempi lontani. Pieni di sms e baci.

Chiudo gli occhi. Il sangue scivola attraverso il mento. Gocciola sulla maglia fino al pavimento. Ma non mi fermo, continuo a mordermi le labbra. Più dolore arriva, meglio è. Perché dopo sarà insopportabile. Mi devo preparare, ci provo almeno. O il mio cervello impazzirà.
Non voglio perdere la lucidità. Non ancora. Forse cambierai idea. Forse smetterai di bussare. Di dare calci alla porta. Di urlare.
Forse.

Adesso non ti vedo. Non più. Fa troppo male aprire gli occhi. Muovere una qualsiasi parte del corpo. L’odore del sangue è metallico. Acido. Scorre fluido. E’dappertutto. Lo sento muoversi attorno a me. E’ una strana danza la sua. Segue un rituale che non capisco, si nutre della mia linfa vitale. Mi prosciuga placidamente.
Il dolore mi sta divorando. Non riesco a pensare. A parlare. Dove sei? Hai finito? Ne valeva la pena?
Non lo saprò mai.

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Ispirato alla vicenda di Laura Sparnacci, 54 anni, uccisa lunedì 9 Aprile 2007 dal convivente che l’ha picchiata selvaggiamente togliendole la vita.

C’è questo sogno ricorrente che mi strozza ogni notte.
Mi sveglio di soprassalto. In camera c’è ancora buio e lui russa pacifico. Mi volto e vedo il lettino di legno. Mi alzo in fretta a piedi nudi. Il cuore è un martello pneumatico. A ogni passo il freddo è sempre più intenso. Quando raggiungo le sponde fatico a sentire gambe e braccia. Lo vedo. Piccolo corpo aperto al mondo. Allungo una mano e gli sfioro la testa. E’congelata. Mio figlio è un blocco di ghiaccio, come se lo avessi chiuso nel freezer. Rimango impietrita. Una statua di marmo. Le parole non vengono, muovo le labbra ma non succede niente. Lui, il padre, continua a russare, lo sento alle mie spalle. Ho paura. Di quel genere che ti prende il petto e tenta di soffocarti.
Quando riesco a uscire dall’incubo, il sudore mi si è spalmato addosso. Il cuore sta ancora correndo, mi devo concentrare per farlo smettere.
Poi mi sento ridicola.
Non lo capisco, questo sogno-incubo. Perché deve assillare proprio me? Senza un compagno. Senza figli.
Ho fatto una scelta e Dario se n’è andato. Ho festeggiato già tre compleanni da sola. Perché dovrei ripensarci proprio adesso?
A trentasette anni posso ancora provare a rimanere incinta. E allora? Potere non è volere. Di solito si dice il contrario, non stavolta.
Quelle come me non saranno mai buone madri. Inutile anche solo riprendere il discorso. Che poi, sul termine ‘buona’ si potrebbero aprire decine di discussioni. Per me è sinonimo di capace. Di accudirlo. Di proteggerlo. Di insegnargli cos’è giusto e cosa no. Figuriamoci!
Io.
Un ex puttana. Troia. Zoccola. Battona. I sostantivi sono tanti. Il significato è lo stesso. Questa sono io. Appartengo a quella categoria di donne a cui non è permesso pensare a dei figli. Procreare è compreso nel pacchetto standard ma alcune disattivano l’opzione. E lo trovo anche giusto, tutto sommato. Nella vita seguiamo un percorso che spesso tracciamo noi stessi. Libero arbitrio. Infatti io ho scelto. Ho aperto alcune porte e ne ho chiuse altre. Forse troppo sbrigativamente, ma ormai è fatta. Di tornare indietro non se ne parla. Certi marchi li porti sulla pelle finché non si decompone.
Ma non mi posso lamentare, sarebbe ridicolo. Alcune sono obbligate. A fare e lasciarsi fare. E quando entrano nel giro non ne possono più fare a meno. Corpi acerbi spinti a una maturazione violenta. Innaturale. Anime rapite in cambio di banconote sporche o assegni che urlano.
Non io però.
E allora perché questo sogno mi tormenta? Dario mi ha lasciata, forse ha un ‘altra, magari sta per sposarsi. O è diventato gay. Non so più niente di lui. Da quando gli ho detto che non potevo sposarlo. Da quando ha capito che non farò mai parte di una famiglia. Eppure lo sento russare accanto a me tutte le notti. Poi arriva il lettino di legno, non ne ho neanche mai visto uno. Non dal vivo almeno. Nei film si. E da lì la mia fantasia attinge per dipingerne i contorni. Per farmi vedere una realtà che non esiste se non in un angolo impolverato della mia mente. Quell’angolo che ancora non sa di trovarsi dentro un corpo offerto a molte mani. Molte bocche. Bavose. Viscide. Unte da un piacere unilaterale.
Ogni tanto provo a rimanere sveglia. Lascio accesa la lampada sul comodino e mi armo di libri e telecomando. Quando mi stanco di uno, passo all’altro. Una rivisitazione del ping pong. Ma finisco lo stesso per crollare sui cuscini. Il mio ritmo biologico si è spostato. Anni fa non avrei avuto problemi: di notte lavoravo.
Anni fa.
Ma adesso è tutto diverso. Per andare al lavoro mi sveglio alle cinque. Pulisco. Impugno il carrello stracolmo di detersivi, spugne, pezze e mi aggiro per i corridoi deserti degli uffici. E pulisco. Tutto tranne me stessa. Il sangue marcio non si toglie neanche con lo sgrassatore.
Eppure mi capita di sentirlo. Quell’odore. Inconfondibile. Di buono. Di morbido. Una sorta di focaccina al latte. La pelle dei bambini.
Sarei cosa poi? Un ex-prostituta-mamma. Una Mamma-ex-prostituta. Ho i brividi. Il solo pensiero mi disgusta. E’come comprare una macchina nuova e vomitare sui sedili che odorano di pelle sintetica.
C’è puzza di marcio. Una palude putrida. Ristagna.
E’la mia pelle che si sta staccando?
Magari sotto non c’è il marchio.
E allora.C’è questo sogno, che torna a galla a giorni alterni. Il problema è che ne capisco fin troppo bene il significato, solo che non ne posso parlare con nessuno.
Sono a letto, mi vedo nascosta sotto le coperte. Dario russa come sempre, con la bocca aperta in fessura. A un certo punto uno dei gemelli inizia a emettere uno strano lamento. Una specie di suono strozzato. Un rantolo, forse. Non capisco se è Matteo o Marco, non importa. Dopo poco anche l’altro fa lo stesso. Io sto dormendo, continuo a vedermi respirare con calma. Però sento anche i bambini. So che li sento. Forse sono in dormiveglia, magari ho gli occhi chiusi ma non è un sonno pesante, ne sono sicura. Sta di fatto che nessuno si muove. Dario non si sveglierebbe neanche con le cannonate e io rimango rannicchiata sotto le coperte. I gemelli smettono di rumoreggiare. E io so che sono morti.
Quando mi sveglio mi tremano le mani e mi sento un’assassina. Non posso avere piena consapevolezza di cosa si prova a uccidere qualcuno e a conviverci. Con il ricordo. Il rimorso. L’orrore. Ma dopo il sogno ho una tale pressione sul petto che una di queste volte rimarrò soffocata. E me lo meriterei in pieno.
Non sono una buona madre. Una buona madre non sogna i suoi figli che muoiono senza muovere un dito. I sogni sono una rivisitazione di quello che si agita nella testa. O nel cuore. Di quei pensieri che non abbiamo il coraggio di ammettere neanche a noi stessi. Inconfessabili. Mischiati a fatti o dettagli che ci sono rimasti impressi.
So che è mostruoso ma certi giorni mi toglierei la pelle e uscirei con l’altra parte di me in mostra. Quella che non sopporta più le urla. Le poppate. Gli orari inflessibili. Il non dormire. Il non capire di cosa hanno bisogno.
Sono due. Non è uno scherzo, lo sapevo ancora prima di vedere le loro testoline incrostate piccole come una mela acerba. Ma è sufficiente? Questo mi giustifica?
Quando sono nati pensavo che il vero inferno fosse quel primo periodo di altalena tra casa e il reparto di terapia intensiva neonatale. Sono rimasti nell’incubatrice due mesi e ogni giorno mi infilavo il camice verde sperando di non ricevere la notizia. Mi massacravo le unghie mentre mi obbligavo a sorridere. A raccontare storie allegre. Li accarezzavo, fragili come farfalle. Piccoli all’inverosimile. Dov’è finita la speranza che, usciti dall’ospedale, sarebbe stato più facile?
Affogata.
Adesso tutta la famiglia è a casa. Matteo e Marco compresi.
Dormono al massimo un’ora a volta. Mangiano. Di continuo. Poi c’è il ruttino. I cambi. I bagnetti. Tutto moltiplicato per due. Alla fine il cerchio si chiude con quantità industriali di pianti e urla, la maggioranza dei quali di causa incomprensibile.
Ci provo, a stare al loro ritmo, ma non distinguo neanche più quando ci riesco davvero. Se ci riesco. Il giorno e la notte sono concetti annebbiati, sbiaditi da azioni ripetute su un calendario parallelo. Inderogabile. Orariocontinuatopemanente.
Sono due. Ma basta per giustificarmi?
Tra l’latro il maledetto sogno-incubo rovina anche quei pochi minuti in cui lascio riposare il corpo. E’ una spina conficcata nella carne, sempre più in profondità. Sempre più forte.
Dovrei smettere di pensarci, tornare indietro è impossibile. Questa è la mia vita. Quella che mi sono scelta. I bambini non li ha mica portati la cicogna! Non scherziamo per favore… io e Dario ci siamo dati da fare eccome. D’altra parte quando vedi all’orizzonte gli ‘anta’ puoi solo partire a testa bassa. O rinunciare al viaggio. Noi ci siamo imbarcati, solo che abbiamo sbagliato nave.
No. Forse sono io quella sbagliata. Li accudisco. Cerco di soddisfare ogni loro desiderio. Li bacio e li cullo.
Poi sogno di lasciarli morire. Come posso essere una buona madre?
Ecco che si sono svegliati. Quarantasette minuti filati di silenzio. Durante i quali mi sono tirata il latte.
Piangono in quel modo cadenzato e acuto che scimmiotta le sirene delle ambulanze.
Se stanno arrivando addirittura due ambulanze deve essere una cosa grave. Meglio andare a vedere.

Gocciola

12 aprile 2007

Ha gli occhi opachi. Immobile sul water, con le gambe ben piantate davanti a se, fissa l’oblò della lavatrice. Ma non lo vede. E’un tondo trasparente che nasconde il grigio del cesto. Quello che ruota come un pazzo portandosi dietro vestiti spochi, schiuma e acqua calda. Lo fissa. Ha le braccia appoggiate sulle cosce, i palmi rivolti verso l’alto, come in attesa di qualcosa da stringere. Ma è solo un’illusione. Una delle tante.
Le ciglia si abbassano, appena un pò. La luce è fastidiosa. Urla troppo e lei non vuole distrazioni. Potrebbe alzarsi e abbassare le persiane. Si, potrebbe. Ma le gambe restano lì, piegate. Il sedere incollato al coperchio del water. Con le ciglia semi chiuse intravede la parte bassa dell’oblò e le sue mani. La destra è aperta. In attesa. Trepidante. La sinistra stringe la piccola lametta con tenerezza.
Respiro lento. Cadenzato. Il corpo è abbandonato a se stesso. Piegato a fisarmonica ma naturale. A suo agio. Non potrebbe essere più perfetto.
Il primo taglio è un tradimento. Piccolo, però, perchè previsto. Anzi programmato.
Le gocce di sangue colorano il pavimento freddo. La lama si sposta e prosegue la sua corsa lenta ma precisa. Su e giù. Giù e su. Ma piano. Non bisogna fare rumore. Il piacere va gustato in silenzio. In solitudine. Nessuno può capire, ne vuole farlo. Lei invece sa. E non si ferma.
Lo svuotamento arriva come un’onda anomala. Prepotente. Le palpebre si chiudono completamente. Il buio è delicato. La culla verso la pace.
Adesso va decisamente meglio. Le urla sono sparite, inghiottite dal rosso che gocciola. Sono più forti i tagli, che pulsano feroci e spurgano tutto il male. Quel pus melmoso che ha dentro. Che non la lascia neanche per un momento. A parte quando gocciola.

I non sogni

7 aprile 2007

Il vuoto. Un senso di nausea al collo dello stomaco. Mi guardo in basso e vedo del tessuto nero. Seta nera. Il vuoto è un drappo infinito di seta nera che non mi fa respirare…
Ho un senso di nausea al collo dello stomaco, solo che non ho più lo stomaco. Ho solo il vuoto. E per un attimo sono felice. Poi qualcosa mi sveglia.
E’sempre così. Quando torno.
Stavolta è stato Luca a strapparmi anzitempo al vuoto. Non so perché, ma ogni volta che chiama lui mi sembra che la suoneria si alzi di volume. Sta di fatto che il cosetto ultratecnologico che mi ha regalato per Natale sta suonando e vibrando come un ossesso.
Mi alzo a fatica, ancora sudata e tremante, ma quando riesco a raggiungerlo smette di dimenarsi. Il fastidio è uno sciame di pizzicotti sulla pianta dei piedi. Perché diavolo mi ha chiamato, sapendo del nuovo attacco di stamattina?
Divento intrattabile quando non riesco a starmene in santa pace quel pugno di ore necessarie a stare meglio. Poi mi riprendo. Ma non devo essere disturbata.
Mi preparo il caffè e il ronzio dello strumento elettronico riporta a galla un vago pulsare alla tempia destra. Male. Molto male. Vuol dire che stavolta non se n’è andato del tutto.
Mi siedo sul divano con la tazza fumante in mano. Due dita di caffè e un litro di latte, più o meno. La caffeina mi rende nervosa ma senza non riesco a tornare alla realtà. Non del tutto. E ormai l’idea di recuperare la via del letto è scartata a priori. Quando mi sveglio è fatta, i sogni sono svaniti per sempre… che poi, proprio sogni non sono. Vedo sempre avvenimenti passati. Situazioni realmente accadute. Persone che ho conosciuto, a volte ancora in vita. Altre no.
Niente fantasmi ne morti che parlano. Non devo aiutare nessuno a raggiungere la luce considerando che non sono una fattucchiera o una strega o una sensitiva (la mia vita non è un fiction per carità!)… sono solo vecchi ricordi che riaffiorano. Un po’ più vivi di come li ricordavo prima dell’attacco. Non so spiegarmi perché tornino proprio quando sto più male. E’così e basta.
Soffio sul liquido bianco sporco e fisso il televisore spento, è ora di recuperare quello che ho visto.
Le prime volte facevo di tutto per dimenticare, pensavo che non servisse riportarli a galla. Ma loro continuavano a tornarmi in mente, a distanza di tempo. I frammenti. Di qualcosa che avevo vissuto. Due anni prima. Dieci. O addirittura quand’ero bambina. Sequenze senza senso, dapprima, che si trasformavano in fotogrammi collegati con il passare del tempo.
Adesso non li contrasto più. I non sogni. Li richiamo a me quando mi sveglio e cerco di fissarli in una delle tante pareti della mente.
Il cellulare riprende il suo show. Stavolta perdo la pazienza. Gli rispondo in fretta, a monosillabi. ‘Si, sto bene. Non importa, stavo per svegliarmi. Si, le solite medicine. No, sono sola. Ti chiamo io stasera.’ E piantala di rompere proprio adesso che inizio a recuperare il ricordo.
Povero Luca. Le fasi del pre e post sono sempre difficili per me. Divento irritabile e scontrosa. E lui, così premuroso e maniacale, proprio non riesce a lasciarmi il giusto spazio. Mia madre direbbe che è un uomo da sposare. Ma quando fa così è difficile non pensare che la colla appiccica e basta.

Quando sento i nervi del collo che si irrigidiscono so già cosa mi aspetta. Tre anni sono un tempo sufficiente per imparare a capire i segnali che il corpo mi invia. Ho almeno un’ora e mezzo prima che mi salga al cervello l’emicrania vera e propria. Ovunque sono mi precipito a casa. Preparo il cocktail di medicine e quando sento arrivare il fiume in piena le ingoio tutte insieme. Mi infilo a letto e mi copro fino alla radice dei capelli. Dentro al bozzolo lascio che il nero arrivi. Per un po’ il dolore è quasi insopportabile ma poi si trasforma. Centri concentrici lo assorbono per portarlo verso l’oscurità che lo annulla dentro di sé. Allora arrivano. I non sogni. Lentamente focalizzo una scena e parte la sequenza. Terminata la sbirciatina, torna il nero accompagnato dal vuoto. E’meraviglioso perché mi trasformo in un vaso privo di contenuti. E’una sensazione di leggerezza indescrivibile. Purtroppo dura solo alcuni minuti. Poi riapro gli occhi e l’attacco è ufficialmente terminato. L’emicrania è scomparsa e mi ritrovo in compagnia dell’ennesimo frammento del passato. Da liberare nel presente.

Stavolta è più complicato perché sono stata svegliata di soprassalto. Ho constatato che, se vengo riportata alla realtà prima che la sequenza dell’attacco sia terminata, qualcosa gira storto. Infatti oggi fatico a ricordare con esattezza quello che ho visto. Anzi, sognato.

Mi concentro. Abbandono la tazza ancora piena tra le cosce, le stringo per bene così da evitare una caduta rumorosa.
Ho bisogno di tranquillità. Immobilità. Tepore.
Chiudo gli occhi e abbandono il corpo sullo schienale morbido del divano. La tempia destra pulsa ancora. Insistente. Intermittente. Un ronzio altalenante. Si avvicina per martellarmi alcuni secondi poi scappa in alto, prendendo la giusta rincorsa per il prossimo assalto.
Ritento. Mi concentro. Richiamo il nero intorno a me. Con lui è tutto più facile. Torna anche la nausea al collo dello stomaco. Fingo di non notarla. Mi basta riacchiappare un fotogramma, uno qualsiasi. Il resto lo seguirà a ruota.

Il nonno mi da un bacio sulla fronte. Sorride e sembra una giraffa. Di quelle simpatiche dei cartoni. Se ne va lasciando la porta della camera socchiusa e io non resisto alla tentazione. Scendo dal letto in punta di piedi e, scalza, raggiungo quella fessura magica da cui posso vedere cosa succede fuori dal mio mondo. Il nonno brontola a bassa voce…

Il suono del campanello mi arriva al cervello come un martello pneumatico. La tempia destra pulsa sempre più forte, mi precipito a rispondere per interrompere quel supplizio. Sono fuori di me dalla rabbia.
Ma è Stefania, mia sorella. Le sento fare le scale di corsa – abito al terzo piano di una vecchia palazzina senza ascensore – e quando la guardo in faccia ogni traccia d’ira evapora. Ha le guance in fiamme e gli occhi stravolti. Se non la conoscessi come le mie tasche direi che ha in corpo dell’ecstasy.
Si muove per casa come un animale in gabbia. Ha parlato con Luca. E il furbacchione si è lasciato sfuggire qualcosa sui miei attacchi. Qualcosa è riduttivo.
Quando lo becco vede come lo concio, il genio! Aveva promesso di starne fuori e tenere chiusa la bocca!
Vengo raggiunta da un’onda di domande a raffica. ‘Da quanto tempo’. ‘ Cosa mi ricordo’. ‘Perché non gliene ho mai parlato’. Quesiti più che leciti ma che mi infastidiscono all’inverosimile. Le emicranie sono mie e me le tengo. Non sono libera neanche di scegliere come gestirle? Per quanto riguarda i non sogni… anche quelli non li ho richiesti. Arrivano. Ma sono semplici sequenze passate. Il più delle volte mi rinfresco la memoria e basta. Non capisco qual è il problema.
Poi mi fissa, Stefania, con quegli occhi rigati di rosso e mi chiede se so com’è morto il nonno. Un brivido involontario mi attraversa il corpo. E’ successo più di venticinque anni fa, cosa dovrei sapere? Tentativo ridicolo, lei non demorde. Si avvicina con aria sempre più indemoniata, muovendo quelle mani lunghe e appuntite come fossero armi pericolose. Non ho mai temuto seriamente per la mia vita. Fino a oggi. Per un secondo mi sento ridicola. Sono in casa mia. Quella che si dimena come una tarantola è mia sorella. La maggiore. Cosa può succedermi?
Ma lei è incontrollabile. Ha iniziato a urlare. Un misto tra un attacco isterico e un lucido interrogatorio. Inizio a balbettare e mentre indietreggio la rivedo com’era allora. Una bambina alta e magra di dieci anni che litigava con il nonno sul pianerottolo. La camicia da notte con gli orsetti si muoveva stizzita. Senza essere chiamati i frammenti tornano e si sostituiscono alla faccia di Stefania.

Il nonno brontola a bassa voce. Distinguo nitidamente la sagoma di mio sorella accanto all’abatjour del corridoio. Piagnucola e mette il muso ma lui è irremovibile. Alla fine si volta per dirigersi verso la sua camera mentre il nonno le da le spalle avvicinandosi alle scale. Prima di dormire si fa sempre una tazza enorme di camomilla, il nonno. Alza il piede destro per iniziare la discesa…

Stefania insiste. Dice che non mi crede. Se davvero riesco a ricordare certi episodi del passato meglio di quando li ho vissuti, non posso non sapere niente di quello. Le faccio presente che ho sempre dichiarato di non aver visto niente perché ero già a letto. Ma lei è irremovibile. Mi segue attraverso il divano e il tavolo della cucina. E’una caccia. E io sono la preda. Continuo a non trovare le parole giuste. Ho sempre creduto di non aver visto niente da sotto le coperte. Eppure i flash che mi appaiono a intermittenza stanno cercando di dirmi qualcos’altro.

Alza il piede destro per iniziare la discesa e incontra un ostacolo imprevisto. La punta delle ciabatte di mia sorella. La piccola Stefania è tornata indietro con un balzo e si è buttata per terra con le gambe in avanti. Ha fatto lo sgambetto al nonno proprio mentre iniziava a scendere le scale. E lui è caduto. Rovinosamente. Fino al piano di sotto. Emorragia cerebrale.

L’espressione della mia faccia deve avermi tradito.
Quando ritornano, i frammenti, sono spesso molto realistici. Sento il rumore del mio cuore che batte all’impazzata. Ho visto davvero quella scena dalla fessura della mia cameretta.
Non ero a letto. Però lo credevo. L’episodio era stato oscurato dalla mia mente. Avevo sei anni.
Ma adesso ricordo alla perfezione e la fisso come si guarda un leone che ha appena banchettato con un cervo indifeso.
Sbatto contro la finestra aperta.
Stefania ha qualcosa in mano.
Lo noto solo adesso.
Ha smesso di urlarmi domande. Entrambe abbiamo già le risposte che cercavamo.
E una di noi è di troppo.
Ma chi?