Mi resta

29 Maggio 2009

di Barbara Gozzi


Pensavo.

A come staccarmi di dosso questa fatica, questo strascinarmi tra cemento familiare e noia fastidiosa imposta dal sistema, che poi sono io, il sistema, io che l’ho accettato, carezzato negli anni, qualche volta perfino amato. Ora no. Non vedo come, mentre il pollice nudo poggia timido sul marmo della camera da letto arriva la fitta e resta, ossessionante, dodici, diciotto ore filate attendendo il distacco, il finto riposo buio.
Pensavo anche, che prima o poi il serpente muterà, lo fa sempre in effetti. Stavolta non tanto presto, lo so, scrostarsi richiede tempo e pazienza, ho bisogno di toccarlo quel freddo da decomposizione, quelle zone che stanno morendo dentro di me, ora agonizzano ma spero presto. Presto. Le dovrò staccare, piano, molto piano ripulirò ferite e croste, non so quanto bene mi riuscirà, credo davvero poco stavolta.
Potrei, riflettevo anche, alzarmi ora, prendere la borsa con i piccoli oggetti essenziali del mio non essere e oltrepassare una porta, poi l’altra. Nessun cenno, assenza di sguardi. Camminare svelta attraverso il piazzale slabbrato (non chiamatemi, non seguitemi, non voglio sentire niente, niente), gli occhiali da sole infilati senza fermarmi, aprendo e chiudendo la zip con mani vagamente tremanti, instabile nelle scarpe a tacco basso che per anni non ho messo. Potrei salire in macchina e lì si ferma la mia mente, mi vedo dentro l’abitacolo impolverato e rovente, mentre fisso il cruscotto e stringo ancora la borsa bianca, contro un petto che corre, corre, corre.
Alla fine, come sempre, mi resta quel certo pen-sare che è sbri-ciolare, immobilità stantia, dispersione energetica unta di amarognolo, artigliata e incurante di quanto.
Manco.
Perdo.
Fingo che del sole fuori me ne resti un granello, nel fondo solo mio, e che basti. Per non, per poi. Anche di un microscopico ‘per’ solitario, mi accontenterei.
Per.
Per.
Per.


Foto di Bg

E’buio, quasi mezzanotte, quando dal fondo di via Cesare Battisti si sentono arrivare dei rumori. Rumori insoliti. Un uomo è in strada, dentro la scuola fa troppo caldo, d’altra parte siamo in luglio, in Italia. Forse, pensa l’uomo, è meglio l’estate inglese. Il rumore si avvicina, sembra quello di una marcia, l’uomo guarda verso la fine della strada e vede una colonna di persone. No, non sono semplici persone, sono poliziotti. L’istinto gli fa gridare all’amico accanto di scappare, ma lui non riesce, viene travolto.
(pag.9)

Ci sono eventi che più di altri si sbucciano, dove la realtà assume troppe facce perché occhi e mente umana le possano cogliere tutte, essendo poi in grado di ricostruire ’un intero’. I fatti spesso, sono il vero e unico problema. Riuscire a recuperarli, possibilmente ’interi’ appunto, e non mere schegge o parti rese soggettive dalle memorie individuali, le volontà, i credo politici ma anche religiosi o etici o morali e così via.

Ciò che accadde sabato 21 luglio 2001, a Genova, in occasione della riunione del G8, e più precisamente dentro la scuola Diaz nel corso della notte, fa parte di questo grappolo di non-eventi, quando gli accadimenti mutano forma e sostanza per volontà e parere individuale. Quando la gente fatica a capire, la stampa, i Tg e ogni altro mezzo di informazione non riesce a chiarire, né nel corso di quel fine luglio rovente, né negli anni successivi.

Ce ne sono voluti sette, di anni, per arrivare, il 13 novembre 2008, alla sentenza di primo grado.

Eppure oggi, maggio 2009, se si ferma qualcuno per strada, non importa dove (nord, sud, centro, come volete) e non importa neanche ’chi’ è questa persona; se si chiede cos’è successo alla scuola Diaz nel 2001, cos’è l’assalto alla Diaz, ecco che le parole si confondono.

Qualcosa però si è mosso, tra parole e carta: un funzionario della Polizia, ex sindacalista, una donna. Simona Mammano. Non è riuscita a placare un’ossessione, un bisogno di equità, che da anni si trascina. ’Assalto alla Diaz’ da poco pubblicato da Stampa Alternativa in una collana coraggiosa, tenta di ascoltare le voci, ma lo fa attraverso il rigore dei documenti, attraverso le dichiarazioni, le ’registrazioni dei fatti’ che non dovrebbero dunque finire troppo inquinate da animi, pathos e umori. Dovrebbero certo, nessuno ci può dare certezze in proposito. Ma questo è un male ormai consolidato. Sappiamo che ciò che ascoltiamo dall’amico quanto dal rinomato giornalista può essere una verità parziale, la verità di quel dato soggetto, di quel momento.

Eppure in questo libro di raro impegno civile, Simona Mammano fa uno sforzo ulteriore. Si scherma. Quello che pensa, o ha provato, vedendo, poi scoprendo strato dopo strato non è rilevante, non per un testo che mira a ’presentare fatti’. Nudi. Crudi. Ma fatti reali, messi in fila, tentando di districarsi tra tante, forse troppe, voci spesso contrastanti, confuse, ma che qualcosa, comunque, dicono.

E’ evidente, dunque, lo sforzo dell’autrice, non solo personale ma anche pubblico, l’urgenza di ricostruire. Non condannare a priori, tanto meno assolvere o criticare.
Fatti. Accadimenti. Sequenze di azioni, reazioni, ragioni, cause-effetti.

Antonella Beccaria (on line rintracciabile qui: http://antonella.beccaria.org/ ) , co-responsabile della collana ’Senza finzione’ (che ha all’attivo altri due titoli pubblicati: http://www.stampalternativa.it/collana.php?collana=senza%20finzione), ha affermato alla presentazione bolognese che “i fatti qui urlano più delle parole”. Pare perfino scontato a dirsi oggi. Eppure è proprio così. Non c’è bisogno di lasciarsi ’convincere’ o trascinare da questa o altre teorie su chi, cosa, come, perché. Non c’è n’è bisogno dal momento che gli eventi, rintracciati e proposti come assi di legno su cui camminare, non necessitano di spiegazioni sformanti. Solo dopo, a lettura ultimata, ognuno penserà – se vorrà – crederà o meno, ragionerà insomma.

Però saprà.
E sapere, questo tipo di sapere non è solo prezioso ma essenziale per ricostruire una memoria che non sia astratta, menzognera, inutile.

Simona Mammano cerca il dialogo attraverso un libro senza fronzoli o romanzate. La fantasia qui non esiste, non deve. Ogni pagina registra. Nient’altro. E le storie che si intrecciano inevitabilmente non sono fiction ma reali respiri di chi, quel luglio 2001, si è trovato a Genova, dentro un ’qualcosa’ forse più grande di loro, di loro tutti messi insieme.

’Assalto alla Diaz’ non ha la pretesa di raccontare ’tutto’ di quel G8 maledetto, restringe volutamente il campo, gli occhi della Mammano si concentrano su un preciso lasso temporale, proprio quando i pareri, i ricordi, le certezze dei presenti (e non) si sono troppo facilmente spaccati, stratificando una realtà che perde così una propria collocazione nella storia italiana, si trasforma in circo, illusionismo dove ognuno si sente autorizzato a pensare quello che preferisce.

L’autrice è assistente capo della Polizia di Stato, una donna forte e fragile, ma piena di passione, che cerca disperatamente il confronto, l’occasione per ascoltare e farsi ascoltare, per non perdere quelle briciole abbandonate, frammenti di un passato ancora recente, doloroso, troppo controverso per poter essere accantonato senza lottare. “Vorrei essere un anticorpo” ha detto l’autrice, e gli anticorpi sappiamo cosa fanno: neutralizzano corpi estranei, virus, batteri. Combattono ’i cattivi’ insomma. Ed è questo, io credo, il grande valore di una persona – prima – e di un libro – poi – che non cerca il mercato editoriale ma la gente, che non costruisce ma ri-costruisce, che combatte per riportare a galla quanti più strati possibili. Fornisce strumenti.

Non è una lettura immediata, è bene precisarlo, non potrebbe né deve esserlo. Gli accadimenti ricostruiti attraverso atti, documenti, dichiarazioni, diventano piccoli serpenti che sgusciano, tentano di scivolare lontano ma. Proprio perché le voci ci sono e sono tante, il lettore ha la possibilità – l’occasione – di ascoltare con calma e pazienza, di seguire code e sensi, di unire tasselli, delineare quei fatti con una precisione fin ora forse impossibile.

“La confusione e l’agitazione di quei momenti può aver reso i ricordi imprecisi e confusi” è stato dichiarato dai magistrati di Genova, il febbraio scorso, spiegando la sentenza del novembre 2008. (fonte: http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/cronaca/g8/diaz-motivazioni/diaz-motivazioni.html )

Allora è arrivato il momento di recuperarli, quei ricordi, di perderne il meno possibile.

Simona Mammano ci prova, con coraggio e determinazione, con la disperazione di chi non ha capito per molto tempo e già questo stato – di non conoscenza, non comprensione, confusione – è inaccettabile. Oggi più che mai. Sommersi di media, mezzi di comunicazione e tecnologie.

Certo, il G8 è finito. A un certo punto l’Italia ha preso a respirare regolarmente, passato il caldo, con le foglie dell’autunno e nuovi anni in successione. Il tempo allevia, attutisce, si dice.

Ma è necessario, doveroso, per noi, per le prossime generazioni, per riprendere una coscienza civile, una memoria storica che non sia solo ventriloquismo sterile; è necessario aprire gli occhi e impegnarsi.

Non ci sono rivelazioni, sia chiaro. Colpi di scena o capovolgimenti inaspettati. Nulla di quello che il libro contiene è di fatto ’inedito’. Ma la capacità di sintetizzare raccogliendo l’essenziale; l’intento asessuato, apolitico e lontano da ogni moralismo di ricostruire meri fatti; lo sforzo di rendere carte processuali, dichiarazioni, ’leggibili’ anche da chi ha poco tempo, magari fa altri mestieri, ha una propria ’vita’ e routine da assecondare. Questi sforzi non vanno ignorati.

Ultima annotazione sul libro: ciò che accadde la notte del 21 Luglio 2001 alla Diaz ha avuto dei ragionevoli ’prequel’, ovvero circostanze, situazioni, condizioni che hanno portato le persone a essere ’ciò che sono state’ e non solo in termini di motivazioni, intenti e ideologie. Tutt’altro. Ed è fondamentale, riconoscerli questi antefatti, questi pre-accadimenti perché non si arriva alla violenza dal nulla, a quel tipo lì di violenza collettiva, non sono le ’lune storte’ o le congiunzioni astrali sfavorevoli. In ’Assalto alla Diaz’ tutto questo viene delineato con lucida precisione, ed è un ulteriore sforzo di equità, restituzione, un modo concreto per andare oltre i parafulmini, per annusare davvero quella polvere e quell’aria elettrica.

Il blog di Simona Mammano: http://simonamammano.blogspot.com/.

Le fughe sono anche perdite. Di solito è inevitabile.
E lo sono soprattutto per gli occhi di una bambina che non capisce, non sempre, cosa succede attorno a lei, cosa dicono ‘davvero’ i grandi che invece dosano toni, modi, significati. Eppure quegli stessi occhi non cedono all’inganno, ricordano e si sforzano di comprendere, uniscono tasselli lontani. Seppure dentro una realtà di divisioni, fughe appunto, e fatica che è anche perdita, abbandono di qualcosa che prima era poi nulla.

Una famiglia lascia un paese del Sud, verso un ‘Altitalia’ fredda, sconosciuta e vuota, ma in grado di garantire sopravvivenza. Padre, madre e due figlie lasciano la famiglia. La. Famiglia. In fretta e furia partono, abbandonano terra e grida, morti.
Finché un’altra morte, l’ennesima, e il passato che torna, si incastra col presente che è diverso per forza, lontano dagli affetti, i luoghi noti. E nel ritorno gli occhi di una bambina ricostruiscono. Recuperano memorie e percezioni, volti familiari e pianti nuovi.

Rosella Postorino sceglie un angolo narrativo preciso, che sposta la visuale mostrando la storia attraverso incastri differenti. Caterina e quello che ricorda, metabolizza, affronta nei suoi dodici anni anagrafici. Il viaggio di Salvatore, il padre di Caterina, il ritorno alle origini tra parenti in lutto, rimorsi gravosi, dolori mai sopiti, dubbi graffianti.

Il senso di ciò che è giusto e ciò che non lo è qui si sfalda, ed è uno sbriciolamento lento ma inesorabile. L’immagine ormai consolidata della famiglia del Sud in fuga da una realtà evidentemente scomoda e illegale ma che mantiene legami forti e contrastanti con le proprie radici, la Famiglia e un passato fin troppo presente; questa immagine fa parte ormai di una precisa idea del meridione, dei meridionali e di quegli affari che sporcano l’Italia. Eppure. Straordinariamente questa storia vira, narra senza sovrastrutture. La voce bambina di Caterina aggancia il presente scosso dall’improvvisa partenza del padre, con un altro viaggio altrettanto improvviso e segnato dal presagio funesto della sciagura, in un passato ancora vivo, pulsante. Ed è necessariamente una voce che non può, non deve, attribuire colpe se non ponendo ogni cosa, ogni azione, persona e ricordo sullo stesso piano. Noi non siamo cattivi, vero? Arriverà a chiedere ma è una domanda a cui il lettore ha già risposto, inconsapevolmente forse, senza pronunciarla ad alta voce. Perché non si riesce a ignorare il dolore di questa famiglia, la ferocia di un buco tra la carne di un uomo e una donna, giovani sposi, giovani genitori, pieni di paura, divisioni che sono fratture in aumento, disposti a dividersi pur di salvare le figlie e allo stesso tempo pulcini impauriti in una terra straniera, quest’Altitalia che pare ostile per definizione, talmente diversa negli odori, sapori e nel silenzio che diventa crudeltà tra le mani dei bambini.
Siamo tutti fatti di ossa, carne e cicatrici. Questo sembra dire il romanzo. Possiamo aver commesso questo o quello, sbagliato o meno, abbandonato ma non dimenticato, scelto eppure lottato contro la scelta stessa, amato e odiato nello stesso momento, ricordato e tentato di dimenticare, reciso legami poi rimasti aggrappati al collo, accarezzato e impugnato armi.

Salvatore non sa distribuire colpe, Salvatore delle colpe non se ne fa nulla. Quando ama non condanna, Salvatore crede nel rispetto, nel bene che a volte prende pieghe strane, nel bene che a volte devia dal percorso…
(pag.293)

Perdere Dio, d’estate, è dunque l’unica strada percorribile.
Per trovarlo ugualmente, un modo per continuare a vivere, seppure in perenne fuga, da eterno ospite spesso sgradito, ma ‘vivo’ e capace ancora di sorride a un arrivo con le mani che stringono ancora – sempre – l’ultima partenza e dietro, visibili e pressanti, quelle precedenti, le persone che.

Una struttura che assorbe, dove i tempi e le visuali si alternano con sapienza, catturano.

Poi i dettagli.
Credo che uno degli elementi notevoli e degni di nota, plauso di questo romanzo siano propri i dettagli. La capacità della Postorino di volgere l’attenzione a piccoli gesti, azioni banali e semplici, oggetti comuni quanto spesso invisibili. Eppure ogni tassello non è casuale, bensì funzionale, necessario a catturare l’anima di Caterina, la lotta di Salvatore e quella altrettanto dura, faticosa, della moglie Laura. Poi Margherita, la sorella minore, Ignazio, nonna Cata e nonno Cecè (protagonisti di delicate quanto toccanti scene familiari unte dal dolore), ‘Ntoni, Fatima e tutti gli altri rimasti in quel Sud pericoloso, faticoso eppure unico luogo dove poter stare.
Non si può essere naufraghi per sempre, pensa Laura a un certo punto, e come lei il marito Salvatore si sente un sopravvissuto che ama e odia la vita rimasta. Eppure in quelli che paiono dialoghi tra sordi, linguaggi incompatibili; lì tra silenzi e labbra che sanguinano; lì, c’è l’essenza di una storia che non chiede. Si spoglia.

Lui taceva. Serrava le labbra. Si strappava le pellicine coi denti. Sembrava cattivo in quel momento, a guardarlo. Ci sono uomini che quando soffrono non fanno tenerezza, fanno paura. Ci sono uomini che mascherano il dolore con la rabbia, la desolazione con l’indifferenza, e solo conoscendoli bene si può trovare la forza di andargli incontro, solo amandoli molto si può soffrire per loro.
(pag.218)

… il giovane uomo e la giovane donna camminavano con facce spaesate, e tuttavia non si fermavano, sapevano che un minimo scollamento avrebbe potuto far crollare tutto, produrre in uno a caso dei due un guizzo di follia, fargli mollare di colpo la mano della figlia, voltarsi e iniziare a correre, con un’agilità mai vista prima salire di nuovo sul treno, restare sospeso ancora un po’ sul limine, al confine tra la vita precedente con le sue certezze e i suoi sogni programmati, e quella futura, un lenzuolo bianco steso sopra ogni cosa.
(pag.50)

Rosella Postorino scrive osservando, vivendo, cogliendo moti, stati e livelli di quel dentro della natura umana che non sempre ci piace conoscere ma che c’è – preme – e fa parte di ognuno di noi.

L’estate che perdemmo Dio
di Rosella Postorino
Einaudi, stile libero big
Isbn: 978-88-06-19625-7
Aprile, 2009, pag..344, E.19

“Quando il male ci tocca, noi torniamo bambini. Il male annulla ogni identità e ci trasforma, ci riporta in quel periodo della nostra vita dove anche un’ombra sul muro aveva più influsso e spessore di noi…”
(pag.108)

Il male non ha genere, sapore, odore, peso specifico.
Esiste, re-siste dentro e fuori.
Ma non è come nelle battaglie epiche, non ci sono ‘Terre di Mezzo’, noi lo siamo. Creature che nel mezzo alitano e lo respirano.

Ma cos’è poi, Il Male? Dov’è? Di cosa si nutre, quando si mostra?
‘Il mio nome è legione’ non lascia risposte, non deve ma lo sfoglia, questo Male, lo accarezza , lo proietta in ogni possibile eccezione: ferocia, incomunicabilità, bisogni individuali, dolore, lucida e cruda osservazione, colpa.

Ed è una narrazione che si muove su piani differenti, sposta inquadrature, salta tra trame e personaggi dai corpi diversificati, strati di immaginario e passato storico reale, voci che mescolano confondendo, incastrando reazioni, pensieri e logiche.

Questo ‘oggetto narrativo urgente’ così lo ha definito Giuseppe Genna (http://www.giugenna.com/2007/09/19/pubblicate-il-mio-nome-e-legione-di-demetrio-paolin/ ), non si preoccupa di essere, mostrarsi, non si mortifica abbellendo azioni e parole, non si cura di toccare ferite scoperte, purulente. E’ il lettore, al contrario, che faticherà a non avere paura, a non sentire un peso, una pressione sul petto, se riuscirà ad addentrarsi in una storia, che non è mera sequenza di eventi, sviluppi o dialoghi. In questo libro c’è dell’altro che tocca snodi profondi dell’essere umani imperfetti che si illudono di poter scegliere, che sognano ‘Terre di Mezzo’ e non accettano ciò che realmente è. Il Male siamo noi. Non l’essere o vivere nel, ma avercelo dentro, respirando, mangiando, amando, volendo.

L’autore, Demetrio Paolin, racconta di un Demetrio, giornalista in perenne contorsione tra ciò che è stato, le memorie del suo passato e di quello di tutti, e ciò che è, che sente di essere eppure ancora non si ferma, continua ad analizzare, strappare strati di pelle, ossa e sangue.
Demetrio personaggio ha gli occhi del giornalista, il cuore aperto ‘ai’ colpi ricevuti quanto inferti, naso e orecchie in stato di allerta, pronti a cogliere ogni spostamento d’aria, mani in attesa di afferrare tempi e luoghi di ieri e oggi, braccia decise per liberarsi dall’immagine (o meglio: dalle immagini ovvero quella dell’uomo che registra fatti, ma anche l’innamorato, il figlio rispettoso, l’amico indifeso, il fratello protettivo) per arrivare. Al fondo. A lui, il Male. Attraverso un percorso complesso, a tratti confuso, volutamente scarno e frammentato, che attende decodifiche.

Chiunque può avere una visione, un’estasi, del paradiso o dell’inferno. E’ un’immagine comune, come le domeniche nei paesi o lo struscio nelle città, basta entrare in una chiesa e guardare in alto sulle volte e vedere cosa è paradiso e cosa inferno: e poi, magari, sognarlo. E sognandolo convincersi che è vero, che è reale.
Nessuno ha visioni di limbo, Tomacek era il limbo di Demetrio, la sua visione, la sua estasi. In questo limbo ci stanno le persone che Demetrio ama, ma trasumanate.
(pag.38)

Le capacità dell’autore di scarnificare narrando, tratteggiare senza descrivere, muovere stati, umori, percezioni con la fluidità dell’artista con le tempere sulle dite; tutto questo merita attenzione.

Un buio perfetto colmava di sé ogni cosa. Pennellate dense, profonde, nere, scendevano dall’alto del quadro e andavano in fondo. Sembravano la pece che i soldati – a difesa di qualche roccaforte – facevano calare sulle mura contro gli assedianti. Era un nero saturo di grida, di pianti, di bestemmie a dio, di lamenti. Un nero di corpi liquefatti e feriti, che a guardarlo bene, però, prevedeva zone opache, come trasparenze dove s’indovina un paesaggi celato.
(pag. 101)

L’edizione di Transeuropa è impreziosita dai disegni di Nadia Zorzin rintracciabili anche on line, sul sito di Vibrisse (http://vibrisse.wordpress.com/)  scorrendo i post dal 5 al 13 maggio 2009.
Qui invece il booktrailer realizzato da Grenar: http://www.youtube.com/watch?v=2IHElZ6P2bc
Il primo capitolo pubblicato sul sito della casa editrice: http://www.transeuropaedizioni.it/leggi/13_Primo_capitolo_Legione.pdf

Il mio nome è legione
di Demetrio Paolin
Transeuropa Edizioni, Maggio 2009
Isbn : 978-88-7580-051-2
Pag.140, Euro 12,90

Aspetto

16 Maggio 2009

Ero confusa, stordita si.
E avevo questa paura che era (è) serpente velenoso, striscia su di me, attraversa pancia e petto, opprime.
Il tempo, si, dovrebbe smussare, e livellare spazi, tempi e ricordi. Dovrebbe farci respirare con più calma, favorire la lenta digestione di quei componenti che non hanno sostanza, non si possono afferrare ma dentro (tra il buio che siamo) sono materia. Non so se davvero funziona.
Non so granché in effetti.
Fuori è grigio.
E’ tornato il freddo della primavera che stuzzica, non cede al sole che aspettiamo (noi che con l’inverno ci copriamo, tramiamo e aspettiamo avidamente i raggi caldi, avvolgenti).
Ero confusa, adesso meno. O meglio. So qualcosa, qui e là, il resto fluttua.
Ho comprato un nuovo profumo. Avevo il campioncino da un pò, rintracciato in una vecchia borsa e stamattina l’ho visto sullo scaffale. E’ una fragranza maschile, ruvida e legnosa. Non l’ho preso per te, il tuo odore non credo si possa riprodurre artificialmente. Sono io che ne ho bisogno.
Di qualcosa che mi restituisca la dimensione del mio corpo, del mio essere, dei piccoli gesti.
Le formiche corrono. Stanotte le ho sognate (davvero sai). Corrono svelte e mi solleticano la pelle. Ogni tanto mi giro e una zampina mi sfugge. E’ piacevole però, perché fanno parte di questo. Dell’essere viva. E dell’aspettare (cosa, giuro, non lo so, non ci posso pensare).

Sta per piovere.

Aspetto.