Crateri

11 dicembre 2008

Lo guarda e si sente tremare.

É così bello, luminoso. Quando sorride succede qualcosa al suo stomaco, le viene da allungare una mano e accarezzarlo, piano, come fosse una porcellana rara, fragilissima. Invece no. É lei – adesso – quella fragile, friabile.

Ma deve, non c’è un’altra strada. Non esistono scorciatoie per quello che ha tra i denti e la saliva che scivola, scappa attraverso il palato.

Lui aspetta, capisce che, ma non dove. Allora la ascolta e ogni tanto abbassa gli occhi, aspetta ancora.

Se quelle frasi, quelle parole che hai, restano – per te – chiuse là, in quelle bolle di tempo che passiamo insieme.

Se quello. Era solo. Per te.

O magari.

Ormai l’ha detto e le lacrime la attraversano, scivolano sui buchi, i crateri che la ricoprono rendendola inconsistente, vuota.

Adesso è solo questione di tempo. Ma non dovrebbe averne così paura eppure è difficile, tanto, troppo.

Loro due, vicini, silenziosi. Che non sanno, non capiscono.

Poi la nebbia. Le mani si perdono.

Lo cerca, la stanza è vuota e il cuore accelera. La risposta non l’ha sentita, forse non c’è stata, forse non esiste. Ma lei ne ha un bisogno così disperato che lo chiama, smarrita.

É in quel momento che si sveglia.

Realizza, sfuoca e si asciuga gli occhi.

Non gliel’ha mai chiesto. Ecco perché qualcuno le preme il petto, la soffoca.

Il sogno è svanito. Sciolto.

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Flash sfilacciato apparso su TheSleepers

Trattieni il cellulare, lo culli nel palmo poi componi il suo numero, ancora lo ricordi a memoria e non ti impressioni, lo fai e basta.
Sette squilli vuoti.
Poi altri cinque.
Finché la sua voce affannata mormora un ‘si?’ che ti sta lanciando onde anomale precise, nel modo, con un tono in bilico tra lo stupito e l’irritato. Ma tu non ci fai caso, non puoi, provi a iniziare il discorso che in testa sta assumendo forme precise, sempre più pressanti. Ho bisogno di parlarti, vuoi dirgli, è successa una cosa che. Ma non ti da il tempo di finire. Prende a discutere da solo, lancia frasi del tipo ‘guardi è un brutto momento, poi sa oggi è domenica e sono a casa, non avrò la lista aggiornata dei campioni fino a domattina, diciamo verso le undici, le può andare bene?’. Unica sorsata pronunciata senza prendere fiato, monologo senza pubblico. Ti sta lanciando un messaggio cifrato, un codice nuovo, ma tu lo ignori. Non lo hai mai chiamato. In più di un anno solo la volta che sei stata male, una maledettissima volta in quanto? Quattordici, diciotto mesi? Ah no, ti sei contraddetta, c’è stato anche un altro precedente ma non per colpa tua: quando il cuginetto ha pensato bene di avvisarlo che sembravi in trance o roba simile e gli avevi invaso la casa nuova. Ma non è la stessa cosa, pensi. Diciamo una volta e mezzo, concludi, e sei così arrabbiata che non puoi chiudere la comunicazione e basta. Devi urlarglielo che è urgente, che hai bisogno di parlargli di cose serie, che non te ne frega un cazzo se si sta scopando la mogliettina o se fa jogging, devi vederlo oggi stesso. Percepisci il suo imbarazzo, forse sta simulando facce assorte, finge di ascoltare le repliche di un collega inamidato, o magari si guarda in giro in cerca di un posto appartato dove infilarsi e nel frattempo sorride a Ginevra.
Facciamo così, vedo se posso liberarmi per due ore oggi pomeriggio, capisco l’urgenza di cui parla, i nuovi prodotti sono sempre una grana, lo diciamo tutte le volte ma poi non ne possiamo fare a meno.
E ride.
Ti sta ridendo in faccia per inscenare una specie di battuta.
E tu lì come una disperata a urlare a un telefonino nel bel mezzo di una cucina deserta alle otto di mattina.
Spingi il pulsante rosso, fine della conversazione.
Pat non ha tempo per te, non quando ne hai un bisogno inspiegabile, un’urgenza da farti piangere e battere i pugni contro al muro.
[…]
Una fottutissima e bastarda volta. Una sola, è tutto quello che gli hai chiesto. L’hai praticamente implorato, ti sei zerbinata più che hai potuto rompendo il patto, lo hai chiamato, stavi per chiedergli ma niente. Vuoto. Fermo immagine. Silenzio.
E’ in questo preciso momento che inizi a capire.

Come la mettiamo?

7 agosto 2008


Alice ne ha fin troppo, riflette. Di spazio suo. Che è un ‘non posto’ in effetti, proprio come ha detto a Caterina. Non esiste, non ha coordinate precise. Eppure ci si ritrova da sola. Come adesso. Andrea è lì, a pochi passi. Ma non si sa dove sia sul serio, con la mente e il cuore quanto meno. Il corpo conta il giusto, e in momenti come quello le sembra che – anzi – non sia altro che un ammasso di strati coprenti che evitano ai polmoni di rotolare per terra, alle vene di correre ognuna dove le pare e al cervello si schiantarsi sul cemento. Nient’altro. Una scatoletta più o meno carina destinata a disintegrarsi.
Esce di corsa.
Il bisogno è troppo forte, pulsante.
Andrea, il suo Andrea c’è ma non è. O forse è ma non c’è. Comunque non si può, così proprio no. E neanche trova le parole per spiegarselo quel fastidio che è anche imbarazzo e vergogna.
Non si scappa da qualcuno che si ama. Anche se forse è più morto che vivo.
Eppure restare sarebbe peggio, lo sa. Con lei è tutto peggio. Quando ci si mette d’impegno è capace di distruggere tutto.
Allora la ritirata è la soluzione più sensata.
Se adesso lui potesse vederla la sgriderebbe. Non l’amante, no, ma l’amico si, eccome. Scappi da quando avevi dieci anni, A, non è ora che la smetti e affronti quei demoni?
Finalmente fuori, all’aria aperta, si blocca. Massaggia gli occhi ancora umidi e prende fiato.
Sarebbe ora si, vorrebbe rispondergli adesso, ma sto scappando da te. Come la mettiamo?
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Foto, rielaborazioni, incastri e testo di BG

Che vita di

1 luglio 2008

Sono un gigolò.
Lavoro prevalentemente on line. E funziona bene, il sistema intendo.
Ho imparato a non farmi fregare, le donne sono furrbe e ci provano ogni volta, a non pagare.
Non proprio ogni volta, bisogna essere onesti. Diciamo alcune.
Perché ci sono anche le timidone, quelle che cercano poi hanno paura, le religiose in evasione, le accasate con pruriti e le mammine con il grembiule ancora arrotolato alla vita… ce ne sarebbe da dire, sull’argomento.

Eppure mi capita questa.
Proprio a me che ormai sono quindici anni che lavoro e ho un certo nome.
Insomma mi accordo con una dall’aria banale, niente di che insomma. Frangetta lunga, capelli lisci e castani slavati, pelle impura e labbra sottili. Mi accordo sul prezzo, i tempi e le frequenze (perché questa, da subito via mail, chiarisce che mi vuole vedere con ‘un certo ritmo’… e figuriamoci se mi sono tirato indietro!)
Allora stiamo a posto, le dico io.
E lei mi sorride, si appoggia allo schienale della macchina, si rilassa (vedo che abbassa le braccia dal volante, mi sono pure guardato in giro preoccupato che si volesse spogliare così, senza cercare un posto sicuro) e attacca.
A parlare.
Mi seguite?
Questa qui non voleva scopare o fare alcunché’di fisico’… manco per il cazzo!
Questa voleva solo parlare.
Cercava un prostituto dell’ascolto, che non è proprio un confidente, neanche una semplice spalla su cui sfogarsi. E’ una via di mezzo, credo.
Uno che ascolta e ogni tanto risponde, dice la sua insomma, magari senza sapere tutta la storia ma per quello che ha sentito… uno a cui poter dire anche le questioni più delicate (tanto, non è che un gigolò si possa scandalizzare di qualcosa, che professionalità è?).

Uno pensa di essersi guadagnato il rispetto col duro lavoro. Pensa di potersi rilassare, di non doversi più preoccupare di quantità e qualità perché l’esperienza ormai è arrivata, conquistata anzi.
E pensa male, cazzo!
Perché ti arriva una che ti paga per farsi ascoltare, oltretutto in quel modo ibrido che solo le donne sono capaci di ( e valla poi a capire com’è la faccenda, quando è meglio tacere, quando vuole essere consolata, quando sarebbe il caso di dire qualcosa o magari annuire e stringerle le mani in quel modo da fratello maggiore… )
E adesso non lo so mica se glielo devo dire, che io mi so vendere benissimo e lo faccio con piacere. Ma non con le parole. Quelle, cazzo, sono tutt’altra faccenda. Ci sono i preti, gli assistenti sociali o quelle robe lì, gli psicologi (o psicoterapeuti, non ho mai capito che differenza c’è), gli amici (anche se qui, in effetti, le devo dar ragione: è sempre più una merda riuscire a trovare qualcuno che), poi – super cazzo – le chat. Vuoi che nel world wild web una così non trovi uno spostato che la ascolti e la tenga buona?
Mi sa che mi sto infognato.

Sono tre settimane che va avanti questa storia e inizio a pensare che sia una roba da ‘contrappasso’.
Perché ormai, a forza di sentirla parlare finisce che la osservo anche, ogni tanto, mica sempre.
E non è proprio come mi era sembrata all’inizio. Non sexy o provocante, per carità! Eppure…
Che vita di merda.
E dire che ridevo di mio padre quando ripeteva che ‘non esistono più le mezze stagioni’. Che deficiente che ero! Adesso mi tocca dire che ‘non esistono più le sane scopate e basta’, pensa un pò.
Che vita di merda.

Foto Bg

Quello che non sapevo

26 giugno 2008

Sapevo.
Che sarebbe stato diverso.
Che tu mi avresti distrutta per poi recuperare ogni coccio, perfino quelli piccoli come chicci di riso.
E che poi mi avresti ricostruita, poco alla volta. Senza fretta.

Sapevo.
Contro quali dolori combattevamo.
E tenacemente resistevamo, ognuno a modo suo, ognuno chiuso dentro alveari stantii costruiti su silenzi e menzogne.

Eppure mi sembrava giusto così, normale.
Lasciarmi andare, ascoltare il rumore del tuo cuore e capire.
Sapevo che potevo arrivare così in fondo da scavarti tra le budella. E tu con me. Uguale. Esattamente lo stesso percorso, esattamente lo stesso rito ingenuo, sottile.


Quello che non sapevo era che avevamo iniziato una cura.

Tu e io, senza ricette o prenotazioni, ci stavamo guarendo. Senza chiedere, oltre i margini dei ruoli e delle definizioni, là stavamo.
E’ stato così che sei diventato la mia medicina, ogni volta più amara, dolorosa. Eppure benefica perché lenitiva. E io lo ero per te, adesso lo vedo chiaramente. Ti guardavo, strappavo parole da quelle labbra secche, inaridite. Ti colpivo senza pietà, ma era un gesto d’amore. Ora lo capisco.

Che sia stato affetto profondo o disperazione, ancora non mi è chiaro. Per quanto, mi sembra poco rilevante ormai.
E’ andata così.
Tu e io, amandoci abbiamo disinfettato ferite vecchie e purulente. Abbiamo aperte le gabbie, quelle stesse gabbie che tanto tenacemente ci eravamo costruiti attorno.

Sapevo, guardandoti negli occhi, che in te c’era qualcosa. L’ho capito subito, la prima volta che ti ho visto.
Ma non potevo immaginare quanto male e quanto bene avresti portato nella mia vita preconfezionata.