Cielo ferito

1 dicembre 2007

Cielo ferito di Barbara Gozzi

Il cielo si è tagliato, mamma.

Stringe il volante e sorride. La bambina seduta dietro, sua figlia, è alta e sottile in quei sette anni portati con urgenza. Si è messa le calze da donna, come le chiama lei, che sono un paio di collant centocinquanta denari a righe fitte rosa, bordeaux e verde pisello. La gonna a frange nocciola le arriva a mala pena al ginocchio ( quella mamma, quella ce l’hanno tutte le mie amiche ti dico, e poi ormai sono grande posso fare la signorina ogni tanto).
E’bella, sua figlia, ha l’ovale chiaro incorniciato da lunghi capelli castani che la luce del mattino stria di rosso, sono spettinati adesso, i capelli, perché la partenza è stata frettolosa (decisioni così diventano urgenze incontrollabili, pruriti da croste che si staccano).

Il cielo si è tagliato.

Torna a osservare la strada poi più su, quel cielo frizzante che le si para davanti, come a volerla rassicurare. Andrà bene vedrai, sembra sussurrarle, non vedi cosa sono?
Lei osserva e le sembra di essere meno. Trepidante, tremante, schiacciata.
Si sente bene a fissare quello squarcio come fosse normale, agganciare gli occhi alla ferita sanguinolenta di qualcosa che non le appartiene ma sente vicina (è anche un pò suo, quel cielo striato, rossiccio, venato di promesse e bellezza muta, suo e di sua figlia).
L’orologio accanto al conta chilometri segna le sette e venti. D’inverno la luce arriva prima e in certe giornate limpide si concede di giocare con gli elementi, sposta le nuvole, allunga le forme e colora lo spazio con toni mutanti che aprono varchi in quello che normalmente è cielo e basta (perché sopra la terra c’è solo lui, il cielo e neanche ci si fa più caso che c’è o com’è, perché poi? E’sempre lì, basta alzare gli occhi, staccarsi dai volanti, abbandonare per un attimo i cicalii nauseanti e i piedi che si muovono, basterebbe poco, si, ma ormai non lo fa più nessuno).

Quando arriviamo, mamma?

Lancia un’occhiata fugace alla figlia curiosa riflessa nello specchietto retrovisore, la bimba muove la testa attorno al finestrino, le gambe rannicchiate si nascondono sotto il debole riparo della gonna corta.
Certe risposte non sono semplici, sembrano (semplici) ma quando le devi pronunciare diventano talmente pesanti da non poterle sopportare. Non lo so, si sente uscire dalle labbra screpolate e ha già gli occhi umidi. Torna a guardare il cielo, quel cielo ferito così intenso e pensa di fermarsi. Perché no? Le strade sono deserte, la campagna non ha nulla da aggiungere a ciò che la sovrasta mentre l’aria fredda apre i polmoni, calma i nervi. Fermarsi va bene, ma dopo? Restare con la faccia per aria a immortalare (imprimersi nella mente) quello spettacolo che le ha accolte senza chiedere, le ha aspettate proprio la mattina che sono partite, trafelate, eccitate. Ma dopo?
Si concentra sulla strada, stringe il volante ancora, e ancora. C’è questo silenzio sottile che avvolge l’abitacolo dell’utilitaria (la radio si è rotta da un pezzo, è rimasta muta, ha detto sua figlia). E’ un rumore avvolgente, il silenzio, e il rosso del sole che tenta di abbracciarle toglie il fiato. E’un rosso intenso come quello delle foglie autunnali e tutto quello che tocca si ammorbidisce, sfuma, sembra più caldo.
Vorrebbe spiegarle perché la macchina le sta portando lontano. Perché certe volte si sbaglia strada e allora bisogna cercarne un’altra, infrangere le regole pur di togliersi da lì, correre lontano e non voltarsi (mai guardare indietro, allungare una mano e perdersi in qualcosa di familiare ma bruciante, che si fissa sulle dita poi risale il braccio, raggiunge il collo e si dirama, arpiona il cuore con un uncino e blocca il cervello, troppo alto e possente per essere annullato, mai).
Vorrebbe raccontarle cos’è questa vita che crediamo di conoscere, gestire, decidere e invece è lei la padrona di tutto, è lei che sa di noi e può anche pensare male, toglierci l’amore e regalarci un cielo ferito.

Dove sono tutti? Qui non c’è nessuno.

Non c’è nessuno. Sospira e tenta un sorriso pacato, tenta ma in fondo non si sente sincera e smette. Dormono, risponde, o mangiano o fanno, vivono. E’tutto quello che le esce. E’presto per parlarle della solitudine, del sentirsi soli in mezzo a tanti, del riconoscere quei momenti in cui nessuno (ma proprio nessuno) può.
La bimba resta in silenzio.
Le piace stare lì, lasciarsi cullare dai sedili vagamente ruvidi ma profumati (hanno quel particolare odore che solo abbracciando sua madre ritrova). Le piace ascoltare il cielo, lasciarlo raccontare e sorridere al vetro del finestrino che riflette due occhi neri e qualche angolo che può essere il naso o lo spigolo della bocca. Ma più di tutto le piace stare con lei, sua madre, che ha qualcosa. Di diverso, insomma, che non le è mai riuscito di spiegare ad alta voce eppure c’è.

Ha male, il cielo?

Sorriso lungo, morbido.

No, non preoccuparti. Vedi quanti colori? E’contento perché siamo qui e lo osserviamo.

Ma lui come fa a saperlo, mamma? Che siamo dentro la macchina e lo stiamo guardando?

Il volto si distende, la paura evapora, diventa pulviscolo e sale, si infila nella fessura del finestrino e sparisce, rapita da una folata di vento.

Perché ci vede.

———

Oggi 1/12 due anni fa è nato mio figlio. Gli dedico questo racconto che la scrittrice Francesca Mazzucato ha generosamente pubblicato su Books and other sorrows.
Ma oggi vorrei anche ricordare i bambini scomparsi.

L’altra fame

2 agosto 2007

Ci sono tanti tipi di ‘fame’. Intesa come smania. Esigenza. Desiderio.

La prima volta che è stata usata l’espressione ‘fame di sesso’ qualcuno deve aver riso. D’altra parte è una necessità che, per alcuni, può tranquillamente paragonarsi al bisogno biologico di nutrirsi. La ‘fame di potere’ ha secoli di storia alle spalle. E molti altri che l’attendono. E si potrebbe continuare ancora. La fame. Di successo. Di ricchezza. Di bellezza.

C’è però un’altra fame che di rado viene ricordata. Molti neanche la conoscono. Per nome almeno. Perché coinvolge il cibo e viene quindi identificata con lo stimolo naturale al nutrimento. Reazioni chimiche che ci procurano quell’urgenza perentoria di mangiare. Per non morire. Per dare carburante agli organi, alle cellule, a tutti i tipi di collegamenti che ci tengono insieme.

Peccato che l’altra fame sia qualcos’altro. Il cibo ne è causa ed effetto, in questo si, sono legati stretti. Causaeffetto. Ma nasce da carenze più profonde. Radicate. Nascoste da sorrisi plastici e silenzi rumorosi.

L’altra fame è subdola. Velenosa. Logora i nervi. Annerisce il cervello. Gioca a bocce con le priorità e ne inverte l’ordine. Si diverte, lei, perché spesso vince. E’abituata a vincere. E si sente forte. Invincibile addirittura. Le sue vittime sono fragili. Anime inquiete. Dubbiose. Che cercano. E quasi mai trovano. E hanno la stessa maledetta paura di non farcela.

L’altra fame è più vicina di quanto immagini. Non la vedi. Non la senti. Arrivare. Ma quando ti avvolge sai che la battaglia è iniziata. Sarai capace di togliertela di dosso?

L’una e ventitre minuti. I rumori in strada sono impercettibili, assorbiti dall’oscurità. L’aria umida entra da una finestra. Timida. Le ante sono accostate. La casa è immersa nel silenzio, fatta eccezione per il ronzio del televisore a volume quattro. Trasmette l’ennesima replica di un telefilm americano.
La porta che si affaccia al corridoio è chiusa, nessuno dalle camere da letto deve interrompere il sonno. La notte è fatta per dormire.
Il rumore inconfondibile del frigorifero sembra amplificarsi tra le mura della cucina. Si apre. E chiude. Una, due, tre volte. Gli sportelli della credenza cigolano a ogni movimento. Fruscio di scatolette e sacchetti che cedono sotto la pressione di dita svelte. Piatti e posate che tintinnano allegramente.
Concerto notturno per pochi intimi. Lei sola.
Finalmente assaporare. Masticare. Riempire.
Si abbandona al divano con le mani piene, appoggia il bottino su un cuscino, facendo attenzione a non sporcare niente, e si immerge nel telefilm. Continuando a fagocitare. Gli occhi sono dentro lo schermo, il cervello vede e rielabora, la mente si immedesima e immagina. In tutto questo lavorio l’unico riflesso incondizionato, a cui non deve pensare affatto, è il trasferimento del bottino dal cuscino allo stomaco. Attraverso le fauci che si spalancano ritmicamente e la mascella che mastica. Vorace. Impaziente.
Sono le due e cinque minuti quando sciacqua in tutta fretta forchetta, coltello e piatto piccolo. Il sacco dell’immondizia è ben livellato, con una manata ha appiattito tutti i residui. Lava la mano con il Nelsen per i piatti, contro i microbi è imbattibile. Si spera. In salotto controlla di non aver sbriciolato o unto qualcosa, poi si rituffa davanti alla scatola ipnotizzatrice. L’avvocato occhio-di-ghiaccio sta per vincere l’ennesima causa di stupro anche se c’è una tipa del suo studio che ha commesso un’infrazione e rischia di essere radiata. Peggio per lei, quelle gambe secche sotto le minigonne, con cui si presenta in tribunale sono un reato bello e buono. Disturbo della quieta pubblica delle donne over size. Vilipendio agli affamati.
Sbadiglia e si massaggia lo stomaco.
E’ il momento del pentimento. Dell’odio. Dello schifo.
Con la pancia piena si ragiona meglio, lo dicono in molti, solo che lei li detesta. I ragionamenti che le piombano addosso dopo l’ennesima abbuffata. Le si incurva la schiena per il peso.
Si osserva le cosce. Flosce. Grosse. Il primo segnale che il suo corpo fa pena. La pancia e i fianchi può anche non vederli, basta indirizzare lo sguardo altrove. Ma le gambe no. Le nota anche se non vuole, sono troppo ingombranti e quando sta seduta, come in quel momento, se ne stanno in bella mostra a poca distanza dal viso. Maledette. 
Un’ora fa non gliene fregava niente. Contava solo quell’urgenza. Aveva una fame che avrebbe mangiato un pollo intero. Se ci fosse stato. Invece si è accontentata di pietanze già pronte, trovate qua e là. Prosciutto e maionese. Biscotti al cioccolato immersi nel latte caldo. Patatine fritte in busta e ketchup. La ciambella con la marmellata della zia Edda. In ultimo, giusto perché aveva l’impressione di non essere sazia del tutto, ha trangugiato mezza confezione di sottaceti all’olio d’oliva dentro il gnocco ingrassato, quello che avrebbe dovuto farcire di lì a poche ore per Federico. Devo ricordarmi di preparargli un’altra merenda prima di colazione.
A quell’ora le tentazioni sono troppo forti. Amanti irresistibili. Passionali. Che sanno come accecarla lasciandola scossa da brividi di piacere. Hanno quell’odore inconfondibile, un richiamo carico di promesse. E lei ne ha bisogno. Delle promesse. Per smettere di stare male. Ogni leccornia brilla a modo suo, luccica al punto da accecare tutto il resto. Ansie. Paure. Insoddisfazioni.

Azzeramento dei debiti. Temporaneo ma efficace.

Se solo non ci fossero, le leccornie, se non le avesse sotto gli occhi tutte le sere. Forse. Il prima diventerebbe dopo. Ma c’è un problema: in una famiglia numerosa come la sua, non si può lasciare la cucina vuota. Federico ha dieci anni e Francesca sei. Poi c’è suo marito che da solo saprebbe ripulire metà dispensa. La zia Edda che si presenta all’ora dei pasti per una ‘visita a sorpresa’. Gli amichetti di Federico che a giorni alterni si fermano a merenda. E la lista potrebbe continuare. C’è sempre qualcuno da sfamare. In ultimo arriva lei, che si nutre di notte.

Si nutre.

Quanto tutto tace.
Quando nessuno la disturbare.
Quando è impossibile capire. Vedere.
Apre e si serve con quello che trova. Senza l’impiccio di dover cucinare. Raramente scalda precotti al microonde. Ha paura che i rumori sveglino qualcuno. Sarebbe troppo umiliante lasciarsi guardare con la bocca piena e le mani sporche. Nessuno deve sapere. Immaginare. Sospettare.
Che lei mangia come un maiale.
Che lei ha così fame che mescola i sapori, ignora le scadenze, si riempie di cibo al limite della nausea.
Lo stesso cibo che di giorno rifiuta.
Alla luce del sole si traveste da salutista. E’una vera professionista. A pranzo un’insalatina con poco pane. Molti liquidi durante il giorno. Frutta e verdura. Storce il naso davanti agli snack. Fa la linguaccia ai dolci e rimprovera i grassi saturi e non.
Tutte le colleghe la invidiano.
Solo che non si spiegano come possa avere qualche chilo di troppo. Giusto un paio, sei al massimo, non di più. Ma rispetto a quello che non mangia è incredibile lo stesso.
Sarà la tiroide. Buttano lì.
Una disfunzione del metabolismo. Meditano.
La cucina viene avvolta dall’oscurità. La televisione smette di brontolare.
Adesso si che può concedersi qualche ora di sonno.
Farà ginnastica domani, prima di cena. Smaltirà l’abbuffata a suon di flessioni delle gambe. Non ci vuole poi gran ché. Bastano due o tre cicli da cinquanta.
Si, bastano.
Poi a letto presto, insieme ai bambini. Domani a quest’ora dormirà profondamente e non ci penserà. Agli odori che aleggiano in cucina.
Promesse. Le stesse che infrange ogni giorno.
Eppure non le può evitare, ne ha bisogno per continuare la sua esibizione, in equilibrio sul filo della sopportazione. Quell’equilibrio che la porta in giro ogni giorno con un corpo che rifiuta. Che fatica a guardare. Che la mette a disagio. La fa sentire goffa. Inadatta.

Eppure è una fame che la divora da dentro. Prepotente. Impietosa. Una voragine sempre aperta, che non conosce riposo ne bonus.
Ritorna.
Sempre.
Implacabile.
E allora crolla tutto. Programmi. Auto-imposizioni. Buoni propositi.

E’sempre più forte lei. L’altra fame.

Il videoregistratore lampeggia. La musica urla attraverso le casse. Non come vorrebbe lei, ma si deve adattare. I vicini hanno padiglioni auricolari satellitari, captano anche gli starnuti.
Si è seduta davanti al tavolo, con i fiori di plastica sopra il centrino che cercano di sorridere. Li fissa. Peccato che la plastica non sia particolarmente divertente.

Fuma.
Non le interessa se poi ci sarà puzza. Tanto fra poco deve cucinare. L’odore del cibo ha il potere di assorbire ogni altra esalazione, fagocita tutto. Sempre.

Simone tornerà verso le venti affamato e pieno di aspettative. Filetto al pepe, contorno di zucchine alla piastra con pane alle olive e torta margherita con uno strato di frutta fresca di stagione.
Sbircia l’ora sul videoregistratore. C’è ancora tempo.
Giusto quei minuti necessari.
No.
Inspira e si volta. Non vuole vedere il frigorifero. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Dall’altra parte c’è la dispensa. Andiamo bene.

L’idea di un’unica stanza come cucina e salotto sembrava molto fica quando hanno comprato quell’appartamento. Roba all’americana. Cazzate. Nient’altro che cazzate nude e crude. E’una vera rottura, non c’è posto per fare niente. Se guarda la televisione o ascolta la musica è costretta a sentire la vocina del frigo. Se sta cucinando sente i rumori del salotto e si distrae.
No.
Si alza, butta la cicca dentro la pattumiera e cambia stanza. Resiste appena cinque minuti. La doccia l’ha già fatta. Non ha sonno. Non ha voglia di leggere. E allora?
Rientra con passo incerto, svogliato. Ennesima sbirciata all’orologio. C’è ancora tempo. Minuti preziosi per.
No.
Si affaccia dall’ampia finestra accanto ai fornelli. Macchine. Clacson. Traffico. Tipe in tutine aderenti che portano in giro cani enormi, espressione della totale mancanza di buon gusto della gente in soprappeso. Carrozzine.
Boring.  
Si volta e lo rivede. Il frigo. Amico di tante battaglie perse, nemico subdolo che le sbatte in faccia la sua superiorità. Lui vince sempre, è questo il dramma.
Si avvicina. Ipnotizzata.

Forse non c’è più tempo, dovrebbe iniziare a preparare la cena. Si, dovrebbe proprio. Solo che adesso è lì, lì. Per avviare un contatto. Il contatto. Tra il cibo che aspetta al fresco e il suo stomaco che brontola. Impietoso. Doloroso. Ma brontola davvero? O è la mente che vuole farglielo credere? Che tenta di convincerla con segnali distorti?

Continua a fissarlo.
No.
Lo apre. Finge noncuranza. In ogni caso deve tirare fuori la carne. Giusto una sbirciata.
Quella bastarda della contabilità ha una faccia da schiaffi da manuale. Gliele passano tutte, errori compresi. Sarà per quelle tette che sfidano le leggi della gravità? E io sgobbo come un mulo per un pugno di euro…

No.

Allunga un braccio verso il secondo ripiano.
Simone vorrà fare l’amore dopo cena. L’altra volta stavo male. Per davvero. Ma oggi? Cosa mi metto con questo corpo da pera cotta? Se avessi qualche giorno davanti potrei provare a mangiare meno, qualche chilo lo riesco a perdere con un pò di tempo…
No.
Afferra un formaggio fresco. Biancastro. Molle. Profumato.
Questo fine mese iniziano le rate della macchina. La bellezza di euro 180 a botta sul groppone. Centottanta euro in più che volano via senza chiedermi il permesso. Almeno la carta di credito pretende la firma, ogni volta che la uso. Il bancomat vuole il codice. Ma le rate no. Ce la farò? In teoria si… forse dovevo rinunciare alla pizza della settimana scorsa e al cinema. Ma se il mio conto va in rosso cosa mi fanno?
Lo annusa.

Aumenta la salivazione. Le narici si ingrandiscono. Le mani iniziano a tremare. Lo stringe come un avvoltoio con la sua preda.
Una volta in più non cambia niente…

Addenta il formaggio con un balzo felino. In piedi davanti al frigorifero aperto. Con gli occhi sulla confezione aperta di salumi, lasciata in bella mostra sull’ultimo ripiano. L’odore della mortadella le solletica il naso. La scelta è fatta, in un istante.
Il solito istante.
Quello che calma l’anima.
E aumenta i cuscinetti di grasso. I suoi cuscinetti che la fissano sotto la doccia facendole pernacchie e smorfie patetiche.
Ma non adesso.
Il sapore sulla lingua è favoloso, insostituibile. Tutto il resto viene assorbito dai morsi. Durante la discesa verso lo stomaco che attende con trepidazione di sentire.

Riempire.

Almeno per ora.

I vuoti.

Alle venti e tredici minuti serve la cena. La torta margherita sta terminando la cottura in forno. Diventa croccante giusto in tempo per concludere il pasto, la guarnisce in fretta con la crema già pronta e la frutta tagliata mentre Simone finiva la doccia. Voilà!
Tutto perfetto.
Come sempre.

Ha spiluccato il filetto e si è tuffata sul pane alle olive come un drogato in crisi d’astinenza. In effetti si sentiva già sazia dopo lo ‘spuntino’ pre-cena, ma cucinare ha risvegliato il bisogno.

Sazietà. Tepore. Stordimento. La voglia di prolungarli è irrefrenabili. Anche la torta non è male. Tiepidobollente ma buona. Tre porzioni generose spariscono in pochi minuti. Simone è intento a seguire una trasmissione sportiva, non guarda neanche il piatto che ha davanti. Figuriamoci se fa caso a quello che succede dall’altra parte del tavolo.

Adesso si sente bene. E’ come un palloncino pieno d’aria teso, fino al limite, poco prima di scoppiare.

Gonfia e in pace. Intorpidita.

Non c’è posto per nient’altro.

Pensare è troppo faticoso. Ed è meraviglioso, finché dura.

Appuntamento a domani pomeriggio, quando  l’altra fame tornerà.

Din.

Round numero…

Go!

 

C’è questo sogno ricorrente che mi strozza ogni notte.
Mi sveglio di soprassalto. In camera c’è ancora buio e lui russa pacifico. Mi volto e vedo il lettino di legno. Mi alzo in fretta a piedi nudi. Il cuore è un martello pneumatico. A ogni passo il freddo è sempre più intenso. Quando raggiungo le sponde fatico a sentire gambe e braccia. Lo vedo. Piccolo corpo aperto al mondo. Allungo una mano e gli sfioro la testa. E’congelata. Mio figlio è un blocco di ghiaccio, come se lo avessi chiuso nel freezer. Rimango impietrita. Una statua di marmo. Le parole non vengono, muovo le labbra ma non succede niente. Lui, il padre, continua a russare, lo sento alle mie spalle. Ho paura. Di quel genere che ti prende il petto e tenta di soffocarti.
Quando riesco a uscire dall’incubo, il sudore mi si è spalmato addosso. Il cuore sta ancora correndo, mi devo concentrare per farlo smettere.
Poi mi sento ridicola.
Non lo capisco, questo sogno-incubo. Perché deve assillare proprio me? Senza un compagno. Senza figli.
Ho fatto una scelta e Dario se n’è andato. Ho festeggiato già tre compleanni da sola. Perché dovrei ripensarci proprio adesso?
A trentasette anni posso ancora provare a rimanere incinta. E allora? Potere non è volere. Di solito si dice il contrario, non stavolta.
Quelle come me non saranno mai buone madri. Inutile anche solo riprendere il discorso. Che poi, sul termine ‘buona’ si potrebbero aprire decine di discussioni. Per me è sinonimo di capace. Di accudirlo. Di proteggerlo. Di insegnargli cos’è giusto e cosa no. Figuriamoci!
Io.
Un ex puttana. Troia. Zoccola. Battona. I sostantivi sono tanti. Il significato è lo stesso. Questa sono io. Appartengo a quella categoria di donne a cui non è permesso pensare a dei figli. Procreare è compreso nel pacchetto standard ma alcune disattivano l’opzione. E lo trovo anche giusto, tutto sommato. Nella vita seguiamo un percorso che spesso tracciamo noi stessi. Libero arbitrio. Infatti io ho scelto. Ho aperto alcune porte e ne ho chiuse altre. Forse troppo sbrigativamente, ma ormai è fatta. Di tornare indietro non se ne parla. Certi marchi li porti sulla pelle finché non si decompone.
Ma non mi posso lamentare, sarebbe ridicolo. Alcune sono obbligate. A fare e lasciarsi fare. E quando entrano nel giro non ne possono più fare a meno. Corpi acerbi spinti a una maturazione violenta. Innaturale. Anime rapite in cambio di banconote sporche o assegni che urlano.
Non io però.
E allora perché questo sogno mi tormenta? Dario mi ha lasciata, forse ha un ‘altra, magari sta per sposarsi. O è diventato gay. Non so più niente di lui. Da quando gli ho detto che non potevo sposarlo. Da quando ha capito che non farò mai parte di una famiglia. Eppure lo sento russare accanto a me tutte le notti. Poi arriva il lettino di legno, non ne ho neanche mai visto uno. Non dal vivo almeno. Nei film si. E da lì la mia fantasia attinge per dipingerne i contorni. Per farmi vedere una realtà che non esiste se non in un angolo impolverato della mia mente. Quell’angolo che ancora non sa di trovarsi dentro un corpo offerto a molte mani. Molte bocche. Bavose. Viscide. Unte da un piacere unilaterale.
Ogni tanto provo a rimanere sveglia. Lascio accesa la lampada sul comodino e mi armo di libri e telecomando. Quando mi stanco di uno, passo all’altro. Una rivisitazione del ping pong. Ma finisco lo stesso per crollare sui cuscini. Il mio ritmo biologico si è spostato. Anni fa non avrei avuto problemi: di notte lavoravo.
Anni fa.
Ma adesso è tutto diverso. Per andare al lavoro mi sveglio alle cinque. Pulisco. Impugno il carrello stracolmo di detersivi, spugne, pezze e mi aggiro per i corridoi deserti degli uffici. E pulisco. Tutto tranne me stessa. Il sangue marcio non si toglie neanche con lo sgrassatore.
Eppure mi capita di sentirlo. Quell’odore. Inconfondibile. Di buono. Di morbido. Una sorta di focaccina al latte. La pelle dei bambini.
Sarei cosa poi? Un ex-prostituta-mamma. Una Mamma-ex-prostituta. Ho i brividi. Il solo pensiero mi disgusta. E’come comprare una macchina nuova e vomitare sui sedili che odorano di pelle sintetica.
C’è puzza di marcio. Una palude putrida. Ristagna.
E’la mia pelle che si sta staccando?
Magari sotto non c’è il marchio.
E allora.C’è questo sogno, che torna a galla a giorni alterni. Il problema è che ne capisco fin troppo bene il significato, solo che non ne posso parlare con nessuno.
Sono a letto, mi vedo nascosta sotto le coperte. Dario russa come sempre, con la bocca aperta in fessura. A un certo punto uno dei gemelli inizia a emettere uno strano lamento. Una specie di suono strozzato. Un rantolo, forse. Non capisco se è Matteo o Marco, non importa. Dopo poco anche l’altro fa lo stesso. Io sto dormendo, continuo a vedermi respirare con calma. Però sento anche i bambini. So che li sento. Forse sono in dormiveglia, magari ho gli occhi chiusi ma non è un sonno pesante, ne sono sicura. Sta di fatto che nessuno si muove. Dario non si sveglierebbe neanche con le cannonate e io rimango rannicchiata sotto le coperte. I gemelli smettono di rumoreggiare. E io so che sono morti.
Quando mi sveglio mi tremano le mani e mi sento un’assassina. Non posso avere piena consapevolezza di cosa si prova a uccidere qualcuno e a conviverci. Con il ricordo. Il rimorso. L’orrore. Ma dopo il sogno ho una tale pressione sul petto che una di queste volte rimarrò soffocata. E me lo meriterei in pieno.
Non sono una buona madre. Una buona madre non sogna i suoi figli che muoiono senza muovere un dito. I sogni sono una rivisitazione di quello che si agita nella testa. O nel cuore. Di quei pensieri che non abbiamo il coraggio di ammettere neanche a noi stessi. Inconfessabili. Mischiati a fatti o dettagli che ci sono rimasti impressi.
So che è mostruoso ma certi giorni mi toglierei la pelle e uscirei con l’altra parte di me in mostra. Quella che non sopporta più le urla. Le poppate. Gli orari inflessibili. Il non dormire. Il non capire di cosa hanno bisogno.
Sono due. Non è uno scherzo, lo sapevo ancora prima di vedere le loro testoline incrostate piccole come una mela acerba. Ma è sufficiente? Questo mi giustifica?
Quando sono nati pensavo che il vero inferno fosse quel primo periodo di altalena tra casa e il reparto di terapia intensiva neonatale. Sono rimasti nell’incubatrice due mesi e ogni giorno mi infilavo il camice verde sperando di non ricevere la notizia. Mi massacravo le unghie mentre mi obbligavo a sorridere. A raccontare storie allegre. Li accarezzavo, fragili come farfalle. Piccoli all’inverosimile. Dov’è finita la speranza che, usciti dall’ospedale, sarebbe stato più facile?
Affogata.
Adesso tutta la famiglia è a casa. Matteo e Marco compresi.
Dormono al massimo un’ora a volta. Mangiano. Di continuo. Poi c’è il ruttino. I cambi. I bagnetti. Tutto moltiplicato per due. Alla fine il cerchio si chiude con quantità industriali di pianti e urla, la maggioranza dei quali di causa incomprensibile.
Ci provo, a stare al loro ritmo, ma non distinguo neanche più quando ci riesco davvero. Se ci riesco. Il giorno e la notte sono concetti annebbiati, sbiaditi da azioni ripetute su un calendario parallelo. Inderogabile. Orariocontinuatopemanente.
Sono due. Ma basta per giustificarmi?
Tra l’latro il maledetto sogno-incubo rovina anche quei pochi minuti in cui lascio riposare il corpo. E’ una spina conficcata nella carne, sempre più in profondità. Sempre più forte.
Dovrei smettere di pensarci, tornare indietro è impossibile. Questa è la mia vita. Quella che mi sono scelta. I bambini non li ha mica portati la cicogna! Non scherziamo per favore… io e Dario ci siamo dati da fare eccome. D’altra parte quando vedi all’orizzonte gli ‘anta’ puoi solo partire a testa bassa. O rinunciare al viaggio. Noi ci siamo imbarcati, solo che abbiamo sbagliato nave.
No. Forse sono io quella sbagliata. Li accudisco. Cerco di soddisfare ogni loro desiderio. Li bacio e li cullo.
Poi sogno di lasciarli morire. Come posso essere una buona madre?
Ecco che si sono svegliati. Quarantasette minuti filati di silenzio. Durante i quali mi sono tirata il latte.
Piangono in quel modo cadenzato e acuto che scimmiotta le sirene delle ambulanze.
Se stanno arrivando addirittura due ambulanze deve essere una cosa grave. Meglio andare a vedere.