Sparecchiare

25 giugno 2007

Michele si siede. Circospetto.
Sua madre sta sparecchiando. Spinta da un’inerzia palpabile. Invisibile eppure così presente che le si potrebbe trovare un corpo, all’inerzia.
– Volevo chiederti dov’è la cartella clinica di papà.
Il respiro diventa rumoroso. L’aria si carica di elettricità. La donna ruota la testa, lo fissa e sbatte le ciglia.
– Non mi ricordo, così su due piedi. Tu capisci che con un marito da seppellire e un funerale da organizzare non ho avuto molto tempo per certe cose.

Non si scompone, il figlio.

– Ma certo. Però la devi cercare.
Asciutto. Fermo. Nasconde un mondo di frasi rimaste tra i polmoni e le corde vocali. Che si dimenano disperatamente verso la luce, oltre la gola.
– C’è qualcosa che ti serve tra quelle scartoffie, tesoro?
[ E’ stupefacente come, a volte, i figli si dimostrino più intelligenti e acuti di chi li hai generati.]
Il tono dolce lascia una bava acida addosso a Michele che se la scrolla con movimenti bruschi. Schifato.
– Vorrei dargli un’occhiata, non posso?
– Come no. Se la trovo ti avviso.
Gli sorride e lui contraccambia.
[ Certi nodi arrivano al pettine prima del previsto. Così, di punto in bianco, un bel giorno senti lo strattone e te li ritrovi in mano. Non li puoi più nascondere. ]
Si alza.
– D’accordo. Intanto contatterò il professor Righi e il dottor Sarpi. Hanno provato a chiamarmi a Londra ma le linee avevano dei problemi. Poi non c’è stato più tempo.
Sembra agitata adesso. Rossa in viso. Michele finge di non notare l’umore nuovo, si muove per la stanza con casualità felina.
[ La strategia migliore è l’attesa. Solo così puoi capire quando è arrivato il momento perfetto per colpire duro. ]
– Ti ho detto che te la cerco quella maledetta roba. Non capisco che motivo hai di disturbare gente impegnata.
Con un brusco movimento del bacino gli piazza la faccia rugosa davanti agli occhi.
– O cerchi qualcosa in particolare, Michi? Tuo padre aveva un tumore. E davvero mi sembra pazzesco discutere di carte proprio adesso che se n’è andato. Ti ho già spiegato che è stato un crollo improvviso, non potevo saperlo cristosanto! Altrimenti ti avrei avvisato in tempo. Oltretutto era lui che mi impediva di farti tornare.
[ Gli impegni vanno sempre onorati, di qualsiasi natura e genere. Ma gli affetti vengono prima perché senza di loro non ti resta niente.]
– Diceva sempre che dovevi restare per onorare l’impegno preso, finire il corso professionale. Sai quanto ci teneva alla tua istruzione e che ti facessi strada come si deve.
L’ha seguita nei meandri delle parole. Le ha dato spazio. Silenzio. Palco e microfono. Ora che il sipario è calato è arrivato il suo turno. Di rimuovere lo sporco più resistente con una spugna nuova. Efficace. Spietata.

– Il professor Righi l’ho visto ieri, mamma.
Pelle chiara. Trasparente. Pori aperti. Ghiacciati. Muscoli immobili. In attesa.
– E il dottor Sarpi mi ha telefonato il giorno stesso del funerale, l’altro ieri.
Le labbra tremano. Come se corresse sulla neve fresca a piedi nudi.
– So cos’è successo.

Pausa. Immobilità pesante. Assordante.

– So cosa non hai fatto, mamma.
[ I finali non mi piacciono. Sono spesso scontati o drammatici. Le scene migliori sono quelle che precedono le ultime sequenze, quando ancora stai assaporando la conclusione ma non la vedi distintamente. ]

[La negligenza coniugale è nata tra le braccia del buon senso e dell’amore. Poi è stata sbattuta fuori e adesso bussa alla porta della legge in attesa di un nuovo angolino caldo dove riposare.]

Non è più tornato a casa, Michele. Da sua madre. Lei non gli telefona, rintracciarlo a Londra è complicato e poi le tariffe sono assurde.
Michele respira con un peso proprio accanto al cuore. Sopra i polmoni, o almeno è così che gli sembra quando gli manca il fiato.

Studia. Sorride. Ascolta. Fa l’amore. Litiga. Sta in fila. Mangia. Si pettina.
Con questo peso.
Che certi giorni preme di più. Altri sembra sonnecchiare.
Ha sparecchiato.

Questo si.

Ma non è abbastanza. Per pulire tutto per bene ci vuole tempo. E volontà.

Fisso il letto vuoto.

20 giugno 2007

Fisso il letto vuoto.

Mi sono alzato poco fa e ho pensato di allungarmi per darti un bacio. Il solito bacio. Ma tu non ci sei. Allora resto qui. A fissarlo.

Stropicciato. Storto. Emana ancora il tuo odore.

Quando te ne sei andata ho pensato che era ora di virare. Andare oltre. Cambiare strada a testa alta.

Ma poi.

Ma poi alzarmi tutte le mattine è diventato un rito inutile.

Senza di te non vorrei svegliarmi. Ci ho anche provato. Ma non mi riesce. Restare tra la vita e la morte non è accettabile, lo dicono in tanti. O di qua o di là. Bella fregatura, non ti sembra?

Fisso il letto vuoto.

E mi sento così stanco che vorrei buttarmici sopra. Lasciarmi andare. Sparire tra le coperte spiegazzate e le molle cigolanti.

Vorrei.

Litigare. Urlare. Piangere. Saltare. Farmi venire la faccia rossa dallo sforzo.

Ma non posso.

Perché tu sei morta.

E mi hai lasciato qui.

A fare a botte con il sonno.

Ad alzarmi tutte le mattine con i piedi ghiacciati e il cuore pesante.

Vado in bagno. Acqua fredda in faccia. Asciugamano ruvido sulla pelle. Poi torno. Non ce la faccio.

Fisso il letto vuoto.

La finestra è aperta, l’aria umida passa attraverso i tessuti. Dentro i pori. Me la sento serpeggiare lungo le gambe. Nude. Secche. Fino al collo. Che tu baciavi come fosse gelato. Sapevi trasformarmi. Sciogliermi. Farmi dimenticare gli schemi e le regole.

Il tuo cuscino è ancora accanto al mio. Non oso toccarlo. Ogni tanto, di notte, lo annuso. Ci sei ancora tu, lì sopra. Ti ho sognato, sai? Quando riesco a ricordare, prima di scendere dal letto, ti rivedo in mezzo alle tante schegge che mi feriscono gli occhi semichiusi. Allora aspetto. Non li strofino. Per la paura.
Di non poterti rivedere accanto a me.
Sorridente. Tentatrice. Testarda.


Fisso il letto vuoto e so che devo andare. Smettere questo gioco morboso. Ricordarmi anche delle volte che ti ho detto ‘Me ne vado’. Di quando mi hai guardato con quegli occhi lampeggianti che credevo mi avrebbero fulminato. All’istante.

Dovevi proprio morire?

Resti

17 giugno 2007

Corpi ammassati. Grigi. Unti. Allungano mani deformi. Ogni tanto mormorano qualcosa di incomprensibile.
Il cielo è bluastro con alcune venature bianche. La famiglia Gamberini arranca attraverso via Andrea Costa con passo svelto. Valeria, la madre, si fa largo con una sottile spranga in lega di titanio. Ogni tanto urla per farsi sentire dall’avventore di turno nella speranza di spaventarlo e liberarsene in fretta. I rumori di sottofondo sono alti. Lamenti. Voci suadenti. Proposte disperate. Puzza di fogna.
– Perché stanno qui?
– Sono dannati.
L’occhiataccia della moglie lo blocca.
– Non dire cretinate. Sono quelli senza un tetto, tesoro. Da quando il comune ha sfollato il centro e venduto gli edifici delle zone esterne usando i parametri standard, loro sono rimasti bloccati qui. Nativi bolognesi senza un futuro certo che non sanno cosa fare né dove andare.
La strada curva e si raddrizza come un serpente. La ragazza osserva. Attenta. Confusa. Sbalordita.


La navetta è di acciaio sottile, un uovo allungato pieno di sfregi e incisioni. La famiglia Gamberini sale appena in tempo. Ne passa uno ogni dodici ore. Quando riparte la velocità li rovescia sul pavimento lucido.
– Adesso dove andiamo?
– Percorriamo i viali, poi si entra nell’area storica protetta. Scendiamo lì.
Il padre ha la faccia tesa, pallida. Contratta. Quest’idea della moglie non gli piace affatto. Anche lui ama Bologna, ci ha vissuto fino al 2015, ben trentotto anni della sua vita, porca puttana. Eppure. Adesso è un’altra città. Un’ossatura che si sfalda con un cuore vuoto. Secco.
La ragazza si attacca ai vetri tondi, con le gambe divaricate per non perdere di nuovo l’equilibrio. Gli edifici sono scuri, dalle forme strane. Alcuni ristrutturati, dipinti di fresco. Chiazze di luci sbucano a singhiozzo dalle finestre.
– Qui ci vive qualcuno.
– Infatti, tesoro. E’il confine. Da qui verso l’interno inizia l’area storica protetta. E’lì che è proibito sostare. Tutte le case sono state svuotate. Ma qui rimangono i vecchi residenti che hanno superato i parametri standard.
Valeria sospira. E’dura. Eppure il richiamo non le da tregua da anni. Ogni notte, chiusi gli occhi, torna in città e rivive quei ricordi impressi nella mente dell’adolescente che è stata. E’arrivato il momento per sua figlia di sapere. Chi è Bologna. Chi era.


Il silenzio li avvolge come una coperta calda. Una leggera nebbia fina sale ammorbidendo i contorni delle costruzioni. Viale Indipendenza sussurra mentre i passi echeggiano tra i muri che li circondano. I negozi sono rimasti. Vetrine dipinte che simulano le ultime attività presenti prima dello sfollamento. Dai portici arriva un odore vagamente dolciastro.
– Perché hanno chiuso tutto?
Il padre fissa la moglie, incerto.
– La giunta e il collegio straordinario hanno votato contro il piano risanatore. Si è ritenuto più funzionale allontanare tutti indiscriminatamente. In questo modo se ne sono andate anche le categorie a rischio.
– Prostitute. Terroristi. Barboni. Delinquenti. Studenti.
La voce della ragazza è bassa ma decisa. Il padre annuisce. Non c’è altro da aggiungere.
Proseguono.


Piazza Maggiore è imponente. Tetra. Valeria ruota su se stessa. Braccia aperte e occhi chiusi.
Non importa la nebbia. Il silenzio. L’assenza. La decadenza apatica.
Questa è Bologna. Anno 2040.
La sua Bologna.
Qui è nata. Cresciuta. Ha conosciuto suo marito. Ha frequentato l’Università. E’diventata.
Questi sono i resti di una città che poteva essere grande. Vitale. Produttiva. In fermento.
Ma.

Iris

15 giugno 2007

And I’d give up forever to touch you
’cause I know that you feel me somehow
You’re the closest to Heaven that I’ll ever be
And I don’t want to go home right now

Cammino.

Fa freddo, umidiccio stantio. Non importa. A me non importa. Ho deciso e non torno indietro. Per fare cosa?

So che mi senti. Attraverso microchip. Percorri chilometri infiniti di cavi, di corsa. Sfrecci. Invadi i circuiti del mio computer, senza fiato. Ansimando per la fatica. Su sempre più su. Rintracci il collegamento e risali fino al mouse. Lì incontri i polpastrelli. I miei. Sudati. Molli. Isterici.

And all I can taste is this moment
And all I can breathe is your life
And sooner or later it’s over
I just don’t want to miss you tonight

Ho assaporato ogni momento. Ti ho immaginata. Sognata. Svestita. Annusata con la faccia spiaccicata contro lo schermo freddo. Ti ho scritto. Tanto. Sempre. Di tutto. Liberamente.

Ho assaporato ogni momento perché sapevo. Che poteva essere l’ultimo.

Start. Spegni computer. Arresta sistema.

Anche il ronzio della ventola si ferma. Tu non ci sei più. Non voglio perderti, non stanotte. Ma devo.

And I don’t want the world to see me
’cause I don’t think that they’d understand
When everything’s made to be broken
I just want you to know who I am

Sono arrivato. Il ponte è scuro. Nero e profondo. Sotto si sente il chiacchiericcio della notte. Quello che accompagna ogni trattativa. Squittii. Voci profonde. Sgommate.

Lei mi sta aspettando appoggiata a un palo. Che non fa luce perché è rotto. Non funziona. Come me. Le allungo le banconote. Neanche controlla. Le infila nella borsetta e ci incamminiamo. I gradini sono stretti e sconnessi, li percorriamo a due la volta. Anche lei che con gli stivali sembra più alta di venti centimetri. Raggiunto il bordo della strada ci fermiamo. Sotto di noi il mercato dei corpi è una pentola in ebollizione. Con uno strattone mi butta per terra, l’erba è umida. Mi solletica la schiena riparata dal tessuto della camicia di cotone. E.

Tu devi sapere chi sono.

And you can’t fight the tears that ain’t coming
Or the moment of truth in your lies
When everything feels like the movies
Yeah you bleed just to know you’re alive

Volevo farlo. Ora sai. Non te ne saresti accorta, puoi arrivare solo fino ai miei polpastrelli. Eppure. Tu senti. Ascolti. Le vibrazioni che attraversano la tastiera. Cadenze. Frequenze. Sospiri metallici. Simboli neutri che trasudano significati.

Credevi.

Mi è arrivata quest’immagine sfuocata. Dolciastra. Nauseabonda. Incrociarsi on line, piacersi fino all’incontro vero. Scintille e tante colombe in volo.

In questo credevi?

La verità è una bugia al contrario. E io sono il degno riflesso di uno schermo piatto che deforma le immagini. Le allunga a piacimento.

Noi due siamo uguali. Vivi solo perché respiriamo e ci trasciniamo davanti a una macchina che sputa colori. Parole. Immagini. Suoni.

Nient’altro.

Quello che facciamo nell’altra vita, a computer spento, non esiste davvero. Bisogni e necessità primari.

Nient’altro, Iris.

Iris.

Perché devo ancora usare il tuo nickname?

[ Musica: Goo Goo Dolls, ‘Iris’ dall’album ‘Dizzy up the girl’ (1998) ]

Ho iniziato perchè non ci stavo più dentro.
Non sapevo come fare.
E non potevo tralasciare niente. Ho limato dove potevo. Disperatamente. Con l’amaro in bocca. Acido. Legnoso.
Ma non è bastato. Sono piombato in uno stato di dormivegliapermanente.
Stanco. Sempre. Di continuo.
Pensavo. Full time. Senza pause ne interruzzioni flash.
Il caffè mi faceva sbadigliare.
Le robette dell’erboristeria erano appunto robette. Acqua scura dai sapori malsani. Putridi. Puzzolenti in un modo che a volerlo descrivere non ci si riesce. Costosi che ci potevo comprare completi nei negozi ‘in’. E mi aiutavano fino a un certo punto.
Scaricavo le pile all’improvviso. Fine delle trasmissioni.
Ho iniziato perchè ventiquattrore sono una porcata. Non bastano mai. Dovevo trovare il sistema di ridurre i tempi morti. Dormire ad esempio.
Più morto di così.
Ci pensavo già da un pò, in effetti. Tutti quei minuti, preziosissimi, passati sdraiato a occhi chiuSi.
Zac. Eliminati. O meglio: riutilizzati grazie a loro.
Sostanze chiare. Silenziose. Indifferenti. Ma così perfette da lasciarmi diverso. Pervaso da una voglia di fare e agire che mai nella vita avevo provato. Quasi non ci credevo. Sarà una specie di condizionamento mentale, ho pensato. Balle. Erano loro. Le sostanze chiare.
Adesso faccio tante cose. Ma proprio tante. Che non ci si crede che sia io solo a farle. Tutte in un giorno.
Il prossimo obbiettivo è smettere di essere il simbionte di polverina chiara.
Putroppo non mi basterà tenere gli occhi aperti. E volerlo. Questa è una cosa che non si può non fare. Anzi. Se non c’è lei va tutto a puttane. Senza non sono.
Non.
Esisto.

Quando compri qualcosa, ti accorgi davvero del prezzo da pagare solo quando ormai sei già alla cassa. E non puoi tornare indietro perchè l’addetto ti afferra per un braccio e tu sai. Che potrai liberarti dalla morsa d’acciao solo pagando.
Il sangue è un prezzo alto. Molto alto, in effetti.