Io si di Barbara Gozzi

29 aprile 2009

Strofino con cura, ho le mani fredde ma non ci bado.
Lascio che l’acqua insaponata scivoli senza fretta. Si formano bolle che si fagocitano, il sapone liquido si trasforma in cerchi minuscoli che riempiono il lavandino, sembrano ragnetti che avvolgono lo scarico.
Fisso le bollicine, le conto ma mi perdo quasi subito.
Un rumore.
Oltre la parete, dietro lo specchio dove vedo la mia faccia che è pelle e forme familiari, un rumore mi richiama.
E già rivedo l’ingresso del 1b.
Ma anche il salotto del 3b, che sta dall’altra parte della casa a ridosso della camera da letto, sta lontano, se ne frega delle bolle e dell’acqua fredda.
Io no. Non riesco a staccarmi da loro. Non riesco a strapparmi dagli occhi le scene. Non riesco a impedirmi di ricordarle proprio a loro che c’erano, sanno, eppure – forse – non hanno registrato i dettagli. Io si.


Gli occhi brillano, il buio attorno li avvolge.
Si intravedono le guance, la forma del piccolo naso, le labbra sottili.
Ma gli occhi non li puoi evitare, ti incatenano in un’oscurità che è caduta e calore.
Mamma, mormora. E tu non ti muovi, resti dove sei, aspetti.
Mamma, insiste, ho tanto sonno.
Trattieni il fiato, contrai i muscoli delle spalle, irrigidisci il collo.
Mamma, è un lamento. Stringe gli occhi, i capelli corti sono fili chiari, trasparenti.
Gli accarezzi una guancia. Alle tue spalle il caffè gorgheggia, sembra il fischio di un treno. Ti viene in mente una stazione, una qualunque, con le panchine ghiacciate, i cartelloni intermittenti e i binari.
Aiutami mamma, per favore. Aiutami.
Il fischio è sparito. Il treno è fermo, davanti a te. Una porta si apre, qualcosa dentro si muove. Il buio è nebbia, ti guardi in giro ma sai già che non vedrai nulla. Hai freddo, l’umidità è insistente. Ti fissi sulla piccola porta, buco tra lamiere. Vuoi entrare, sederti da qualche parte, aspettare che il movimento del treno ti tranquillizzi poi addormentarti.
Quei fari abbaglianti, gli occhi di tuo figlio che sa, che ti chiede ben più di quello che puoi fare sono pugni che ti fanno sanguinare.
Ti allunghi sul tappeto, strisci piano e aspetti.
Ma non c’è inganno, sai, che è l’ennesima illusione.
Puzzle, macchinine, costruzioni, pupazzi, libri colorati e tu continui a non sapere, non capire. Cosa e come.
C’è una parte di te che stai perdendo, dentro due puntini accecanti che ancora aspettano, tra le pieghe di un corpo di vetro che si allunga ogni giorno di più, che si tende verso l’alto dove tu non arriverai.
Premi un tasto sul videoregistratore, le immagini scorrono, il volume è alto ma ti sembra giusto così. Lui smette di guardarti, allunga la schiena e sistema meglio il collo sul cuscino del divano.
Una sigla riempie la stanza. Colori vivaci, voci allegre e disegni animati trasformano la richiesta, tentano di cancellarla.
Adesso si, puoi oscurarti mentre dietro di te, il vetro sottile ha il respiro lento e regolare, è fuggito su un altro treno dove si canta e c’è tanto sole. Un treno che tu hai smesso di riconoscere.

Poco fa, un minuto o un’ora prima di adesso, dovevi fare qualcosa.
Vedi un bagliore, una piccola punta luminosa ti chiama. Ti alzi e il divano scricchiola. Ti avvicini, segui la luce minuscola ma ti sembra difficile, adesso lo senti sulla pelle, che è difficile raggiungerla.
Mamma, vorresti dire ma qualcosa ti blocca, forse lei non c’è, stai pensando, è fuori, al lavoro o in piazza. Forse.
E’ troppo buio, il puntino brilla ma non sembra vicino ora. Continui a camminare, ti muovi lenta, e una strana pressione ti sale dallo stomaco. Perché è così buio? Non te lo ricordi, non trovi la risposta.
Sono stanca mamma, ma di nuovo le labbra si muovono senza fare rumore.
Un suono ti fa sobbalzare. Dietro di te c’è qualcuno ma non vedi niente, e continui a non capire dove e perché. Dove sei. Perché lei non ti risponde.
Allunghi il braccio destra, vedi una mano curva che si sporge, la fissi mentre tenta di afferrare quel puntino che si, stavolta è lì, vicinissimo. Lo sfiori ed è freddo, liscio e scivoloso. Sfreghi la punta delle dita attorno alla luce. Su e giù. Giù e su. Più veloce, ancora e ancora. Ma lui, il piccolo raggio non si muove, ti guarda dal basso, ti sta sfidando.
Allora ti allontani, un passo indietro.
Aiutami mamma, è un lamento infantile, aiutami per favore, ma la voce è lontana, è la tua eppure si perde chissà dove. Posi il palmo sulla luce, le gambe tremano ma il bagliore è rassicurante. All’improvviso uno scatto, un rumore delicato, e uno scalino che si muove sotto le tue dita ruvide.
Luce.
Un pugno dentro gli occhi e tutto diventa chiaro, accecante.
Li socchiudi. Lei non c’è, adesso te lo ricordi.
E senti che dalle braccia ti sta cadendo qualcosa. Stai perdendo una cosa senza nome che ti appartiene. Il buio poi la luce ti confondono. E quel rumore che torna, insiste, colpisce le finestre e la fa tremare, quel rumore ti fa paura.
Non verrà nessuno ad aiutarti, sei a casa, la luce in soggiorno è accesa (l’hai accesa tu per sbaglio), gli scuri sono chiusi per non farti sentire i rumori della strada ma i clacson e le frenate ti arrivano ugualmente. Non sai che ore sono, cosa devi fare ma sai che sei sola.
E quella cosa senza nome che stai perdendo esiste, era dentro di te prima di scivolarti dai polpastrelli, rotolare sul pavimento e lasciarsi risucchiare dalle piastrelle ruvide. La cosa senza nome presto smetterà di essere ‘cosa’, si oscurerà e basta.

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Questo è un impasto narrativo, non c’è ancora passato neanche il mattarello.
Ci sono due questioni che ultimamente mi opprimono, due questioni ‘reali’ che sfioro e tocco.
Se esistesse un ‘bonus tempo’ lo userei ora per scrivere tutto quello che in testa mi ha riempito ‘i corridoi’, per trasformare in parole le immagini, per lasciare tracce che so, finirò per perdere o sbiadire.
Ma il bonus non ce l’ho, dunque questo è tutto quello che posso impastare ora, oggi.
Lettura provvidenziale, libro arrivato due giorni fa e segnalatomi da un amico sensibile e attento, dove altre parole placano in parte le mie: ‘Tutti i bambini tranne uno’ di Philippe Forest (Bur 24/7, ottobre 2008 – precedenti stampe: 1997 éditions gallimard, Paris – 2007 Alet edizioni). Grazie.

Libri sulla morte ne escono a decine ogni mese. Niente di più comune. Il lutto obbliga a dire. Autori o lettori, si va in cerca di parole, unico obolo pensabile per il defunto. Qualunque critico ve lo può dire: lo scrittore di qualità si riconosce dal fatto che, affrontando un argomento così grave, eviterà anzitutto lo scoglio del phatos. Sordina abbassata, pianti trattenuti… I grandi dolori sono silenziosi… Così l’intensità di un’emozione si misurerà dallo spessore del bavaglio sulle labbra… Il racconto è ridotto a qualche immagine di addio su fondale bianco. […] Ai morti bisogna augurare il riposo, smetterla di tormentarli con i pianti. Ogni pagina scritta è un sudario nuovo e immacolato.

Oppure: inquadratura frontale sul cadavere, primo piano di sgomento. La carne cruda del vivente dissanguata sul bianco del macellaio. Con mano scrupolosa, il narratore vuota la vescica biliare d’una madre resecata, compone il corpo inerte di un padre abbrutito dai farmaci. Il romanzo come lezione di anatomia. Ma di nuovo l’emozione è assente dall’orrore raccontato. Il dito segue, nella carne amata, il nuovo profilo tracciato dal bisturi. Indica la piaga. […]

Parola d’ordine: niente phatos! Ma allora che fine fanno la verità e il suo insopportabile nodo vissuto di angoscia e dolore? Troppo volgari, vero?

Ho paura di deludere. Questione di debito contratto verso colei che, fuori dalla pagina, ha conosciuto davvero la sofferenza con cui altri fanno libri. Lo scoglio del pathos? Io vado dove mi porta il vento della vita. Avanti tutta verso le scogliere.

(pag.167-168 )

Nella vita reale i bambini muoiono raramente. Nei libri il fatto è ancor più improbabile. Gli scrittori si ritraggono di fronte a ciò che parrebbe richiedere solo silenzio, mai che si sentano all’altezza di forzare i confini di quell’indicibile. E’ uno scandalo che fa tacere ogni metafisica. Al confronto qualsiasi dramma assume movenze da abile minuetto. Fuffa, robetta, paccottiglia: lo spleen, l’angoscia fenomenologica, l’esperienza interiore, la pena d’amore, l’ambizione frustata… Anche la donna più colta e sensibile farete fatica a commuovere, se è una madre colpita nella persona di suo figlio. Tutta la commedia umana appare come una messa in scena leziosa. E il serraglio romantico viene subissato di fischi. La posta aumenta. Ci vorrà una bella alzata d’ingegno […]

(pag.169 )

La letteratura è una strana operazione di contrabbando a dispetto di tutto. Qualcosa in lei svia ogni velleità di controllo sul linguaggio. Alcuni libri passano le frontiere, attraversano le lingue. Alla dogana viene ispezionata solo la trama superficiale. A nessuno viene in mente di perquisire la valigia a doppio fondo delle parole, di ispezionare il riposto di sensazioni nelle frasi. Niente da dichiarare? Se sapeste… La letteratura vera trasmette ormai a onde corte. Che confusione di voci, che babele di accenti! La censura non ha nemmeno più bisogno di agire, basta lasciar fare al caos delle frequenze. I programmi si accavallano, interferiscono a vicenda. […] Insomma qualcuno che parla. Molto lontano, molto vicino, non si sa, qualcuno dunque tende l’orecchio, e in fretta e furia prende nota di ciò che afferra tra le parole che gli vengono rivolte, nello stridore di sega e nel tap-tap di martello della sua radio. Autore, lettore, la verità a volte passa così, disturbata, nella notte. Non bisogna tacerla.

(pag.133-134)

… … …

24 aprile 2009

Questo dolore lo vedi, lo culli piano, vorresti afferrarlo.
E mentre resti così, nudo e vuoto, le senti. Le loro voci. Che sanno, ridono, storcono, di-storcono e ti confondo.
Mentre aspetti di non ( tremare, avere paura) e perdi pezzi di te – tuoi – ovunque, continui a pensare. Che magari è così che deve essere, che non c’è niente da dire o fare per smettere. Che puoi ancora aspettare, tacere e immaginare mondi diversi, parole diverse, persone che.
Ma questo dolore è feroce, ha molta fame di te, di tutto quello che continui a spingere lontano finché l’altalena completa il suo ciclo e ritorna, più violenta e dura, più abile nell’insinuarsi tra le dita, attraverso narici e labbra.
Basta poco, anche questo ti sorprende ma sai che è l’onda, che la finissima porcellana scricchiola troppo ora, per poterti davvero fidare di te.
La vita è questa, una, ti hanno detto. Ma niente si è mosso, mentre lo dicevano. Tu annuivi e già guardavi fuori dalla vetrata, oltre la notte e la gente che stranamente non la smetteva di camminare, parlare, fare.
Le cose non succedono, ti è rimasto impresso dopo, perché era una puntura conosciuta, bruciore intenso, avvolgente. Le devi far succedere. E lì avevi in testa mille cose che poi non hai detto – non potevi – il solo pensarle ti ha fatto tornare piccolo e stupido, inutile come quando fantasticavi su chi saresti stato dopo gli studi e fingevi di non ricordare che eri già qualcosa. Lì sei rimasto.
Da quello stesso punto questo dolore oggi ti attraversa, affonda nel respiro e per scacciarlo devi concentrarti, smettere di ascoltare le voci, gli altri, e recuperare energie perse, dimenticate.
Questo dolore è freddo, cavo, non conosce il perdono, se ne frega e basta perché è inodore e insapore, non si vede eppure strizza e schiaccia a piacimento budella e corridoi.
I debiti si saldano, canticchia.
E tu non sei che una delle tante statue.
Ma non è il freddo che ti spaventa, piuttosto l’immobilità che ha l’odore familiare della pioggia sul cemento, ma anche l’erba fresca mentre il sole ancora sbadiglia.
Questo dolore sai.
Accetti.
Non se ne andrà.
E non la smetterà di levigarti e sbucciarti mentre la fine porcellana si assottiglia.
Mentre respiri piano, e ancora – di nuovo – aspetti.
Mentre il cielo si illumina ma non promette.

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Foto e parole di Bg.

Verminsetti

20 aprile 2009

Facevi la ricercatrice e ti piaceva, si vedeva da come ti muovevi fluida, sicura di te. Il camice poi ti donava. Eri una bella donna, niente da dire. Slanciata, curata e dal sorriso facile.
Lavoravi in un laboratorio sperimentale, praticamente ci vivevi.
Cercavi una certa proteina negli insetti ma anche tra i vermi, usavi spesso paroloni come ‘platelminti’ e ‘ nematodi’ ma, comunque te la rigiravi, erano stramaledetti vermi viscidi, umidicci e poco inclini alla compagnia. Eri circondata da cubi di vetro straripanti di varietà tenute in vita finché il bisturi e la chimica li reclamavano.
Ti piaceva quello che facevi, avevi le ‘manine d’oro’ come sussurravano i colleghi, prima di ridacchiare tra loro.
Ma il grande capo no, a lui non piacevi.
Ti riceveva nel suo ufficio quasi ogni giorno e accendeva un disco, sempre lo stesso, ripetitivo e stagnante. Eri la sua bambina cattiva, non c’era modo di evitarlo, eri l’elemento disturbante da schiacciare, il tuo ronzare lo infastidiva. Allora ti metteva in un angolo per riempirti di parole inconsistenti, cave ma che aprivano nuove ferite, scavavano tra carne e sangue fluido.

Un giorno, uscendo, hai deciso.
Pochi istanti e avevi la soluzione in mano, tra la pelle.
Se non eri abbastanza brava, all’altezza come si dice, se non ci arrivavi ragionando, studiando, sezionando. Se da sola non eri abbastanza.
Avresti ottenuto l’unico aiuto che nessun altro era disposto a chiedere.
Quello di insetti e vermi.
Ne hai liberati alcuni, piano, con cautela. Loro ti amavano già, lo sentivi da come volavano e strisciavano corteggiandoti. Ti sei spogliata lasciando che il tuo corpo si mostrasse, hai chiuso gli occhi e sei rimasta in piedi, immobile e vuota.
Le zampette erano fresche, molli, sulla tua pelle tiepida. Li hai sentiti scivolare, camminarti sopra e non pensavi a niente. Stavi stringendo un patto, non ti serviva altro.
Ti sono entrati dentro senza fretta, ognuno seguendo una strada diversa, sul tuo corpo dolente, abbandonato.

Seduta nel solito ufficio ti sentivi stranamente calma, galleggiavi insieme ai tuoi verminsetti. Il capo, il Professore, neanche ti ha guardata, impegnato a leggere mucchi di scartoffie.
E hai lasciato che parlasse come sempre. Nuvole, fumo, coas inutile, ti divertiva sentire il suono stridulo della sua voce. Finalmente era solo un uomo qualunque, che per sopravvivere usava gli altri come pavimento.
Quando ti sei alzata l’occhio destro ti sanguinava, erano loro, i verminsetti che lavoravano su di te. Per te. Il Professore era ammutolito, ti ha lasciata fare perché anche lui aveva capito chi eri. Silenzio, lo ricordi com’era tesa l’aria, elettrica?
Ti sei avvicinata alla lavagna nera, enorme roccaforte del potere, e hai iniziato ad incidere simboli, legami chimici, linee varie. Ormai i vestiti si muovevano da soli, i verminsetti correvano su di te, entravano e uscivano ipnotizzati dalla tua perfezione.
Eri soddisfatta. Ti sentivi bene, eterea.
Allora perché? Te lo sei mai chiesta dopo, in quel brevissimo attimo prima che?

Nessuno è venuto a cercarti.
Sei entrata in uno dei piccoli laboratori per studenti, dopo le cinque quelle stanze asettiche diventavano il regno delle creature non umane. E tu te ne stavi lì seduta, inebetita e piena, in preda a un’indigestione infinita.
Finché l’hai visto.
Non potevi non notarlo, ti è uscito dai pantaloni.
Lungo e liscio, almeno quanto un braccio. Un tronco sottile ma ben formato, occhietti brillanti, inespressivi.
L’hai chiamato per nome, ma non te ne sei preoccupata. Lo sapevi e basta. Lo accarezzavi e dentro di te cresceva una nuova sicurezza. Sapevi e potevi, il resto – il mondo – era un’inutile miniatura. Non avevi bisogno dell’approvazione del Professore, delle risate dei colleghi, del camice.
Ti bastavano loro, piccoli e indifesi eppure solidi, secoli di esperienze e sopravvivenze mute. I loro corpi molli, gusci sottili, erano il tuo. I loro sensi confusi, deformati, e quel modo di vedere da lontano, tutto ti apparteneva ormai.

La puzza all’improvviso ti ha svegliata. Sangue marcio, fluido lungo la gola, sul petto.
Il verminsetto enorme ti si era attaccato alla gola e stringeva.
Hai urlato, sentivi le ossa stridere, cartilagini pronte a cedere.
Avevi paura.
Per la prima volta ti sei vista esattamente – tristemente – per quella che eri.
Avevi trasformato il tuo sapere, ti eri plasmata nel corpo, accettando le intrusioni, abbandonandoti a una condizione da ospite. Tutto senza chiedere, lasciandoli fare, accogliendoli come vecchi amanti mai dimenticati.
E a loro interessavi tu, certo, ti volevano fino alla fine.
Ma in quella fine, in quel morso che ti stringeva la gola mentre sentivi i piccoli denti appuntiti, in quella stretta c’era il sapore amarognolo, legnoso, della sconfitta.

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Racconto apparso su Fogli bianchi.

Soldati ancora

17 aprile 2009

I sentimenti ci convincono che siamo parte di qualcosa.
E può essere qualsiasi cosa.
Il distacco è una pressione forte, crudele, che ci riporta alla condizione neonatale. Si torna indifesi, confusi e soli. E’ una transizione che dimentichiamo, crescendo, ma che si ripete alla fine di ogni distacco, quando il disamore non è più vapore ma olio.
Un olio che non si assorbe, resta sulla pelle, la fa splendere e ricorda ogni giorno, ogni volta che si guarda un palmo, il lobo di un orecchio, il mento o l’ombelico; ricorda che ancora si può.
Essere creature neonate.
Che non hanno bisogni sentimentali consapevoli, che non cercano persone precise, per motivi precisi eccetto – forse – mamma e papà (voci che restano anche nel silenzio, in mezzo al vuoto di un mondo sfuocato e ignoto).

Il disamore è una regressione.
Si torna estranei agli altri. Si torna onesti verso se stessi perché estranei lo siamo sempre stati e sempre lo saremo. Si smette di cercare e pretendere fuori da corpo e mente.

Tutto si muove.
Le persone, gli affetti, gli amori, gli stati possono diventare eccezioni di comodo falsando la realtà. Ma è una deformazione fasulla, destinata a crollare perché Loro (affetti, amori, stati, persone, cose) vanno e vengono, arrivano poi svaniscono. Funziona così.
Ogni tanto – se siamo fortunati, molto fortunati – il tempo ci permette di ricordarli, di registrarli sui muri della mente, di superare formalità e ruoli.
Ogni tanto ci resta qualcosa, prima che la sabbia nella clessidra smetta di scivolare. C’è semrpe una clessidra da qualche parte. E l’immobilità dei suoi granelli scandisce il ritmo del risucchio. Di quella forza invisibile che afferra i corpi allontanandoli dai bisogni, da quei legami a cui si erano attaccati con le ventose del cuore.

Spesso tentiamo di combatterlo, il disamore, non ci piace perdere.
Ma Lui non si arrende.
Sa.
Che prima o poi lo capiremo, smetteremo di rimanere artigliati alle rocce che si sgretolano.
Niente è definitivo, nulla è per sempre.

Ho imparato tutto questo sul campo, combattendo.
Porto con me tanti graffiti, segni di persone che hanno deciso di rimanere dentro il mio muro interiore, che hanno deciso di essere importanti a modo loro. Molti se ne sono andati. Altri no.
Credo dipenda tutto dal vivere. Da come ci si lascia attraversare. Da quanto si ascolta, dalle scie lasciate passando. Dall’affettività vissuta come movimento, evoluzione.
Ci vuole pratica, questo si.
Bisogna imparare a non fermarsi, a combattere.
Sono un soldato anche per questo.
E ne vado fiero.