Facevi la ricercatrice e ti piaceva, si vedeva da come ti muovevi fluida, sicura di te. Il camice poi ti donava. Eri una bella donna, niente da dire. Slanciata, curata e dal sorriso facile.
Lavoravi in un laboratorio sperimentale, praticamente ci vivevi.
Cercavi una certa proteina negli insetti ma anche tra i vermi, usavi spesso paroloni come ‘platelminti’ e ‘ nematodi’ ma, comunque te la rigiravi, erano stramaledetti vermi viscidi, umidicci e poco inclini alla compagnia. Eri circondata da cubi di vetro straripanti di varietà tenute in vita finché il bisturi e la chimica li reclamavano.
Ti piaceva quello che facevi, avevi le ‘manine d’oro’ come sussurravano i colleghi, prima di ridacchiare tra loro.
Ma il grande capo no, a lui non piacevi.
Ti riceveva nel suo ufficio quasi ogni giorno e accendeva un disco, sempre lo stesso, ripetitivo e stagnante. Eri la sua bambina cattiva, non c’era modo di evitarlo, eri l’elemento disturbante da schiacciare, il tuo ronzare lo infastidiva. Allora ti metteva in un angolo per riempirti di parole inconsistenti, cave ma che aprivano nuove ferite, scavavano tra carne e sangue fluido.
Un giorno, uscendo, hai deciso.
Pochi istanti e avevi la soluzione in mano, tra la pelle.
Se non eri abbastanza brava, all’altezza come si dice, se non ci arrivavi ragionando, studiando, sezionando. Se da sola non eri abbastanza.
Avresti ottenuto l’unico aiuto che nessun altro era disposto a chiedere.
Quello di insetti e vermi.
Ne hai liberati alcuni, piano, con cautela. Loro ti amavano già, lo sentivi da come volavano e strisciavano corteggiandoti. Ti sei spogliata lasciando che il tuo corpo si mostrasse, hai chiuso gli occhi e sei rimasta in piedi, immobile e vuota.
Le zampette erano fresche, molli, sulla tua pelle tiepida. Li hai sentiti scivolare, camminarti sopra e non pensavi a niente. Stavi stringendo un patto, non ti serviva altro.
Ti sono entrati dentro senza fretta, ognuno seguendo una strada diversa, sul tuo corpo dolente, abbandonato.
Seduta nel solito ufficio ti sentivi stranamente calma, galleggiavi insieme ai tuoi verminsetti. Il capo, il Professore, neanche ti ha guardata, impegnato a leggere mucchi di scartoffie.
E hai lasciato che parlasse come sempre. Nuvole, fumo, coas inutile, ti divertiva sentire il suono stridulo della sua voce. Finalmente era solo un uomo qualunque, che per sopravvivere usava gli altri come pavimento.
Quando ti sei alzata l’occhio destro ti sanguinava, erano loro, i verminsetti che lavoravano su di te. Per te. Il Professore era ammutolito, ti ha lasciata fare perché anche lui aveva capito chi eri. Silenzio, lo ricordi com’era tesa l’aria, elettrica?
Ti sei avvicinata alla lavagna nera, enorme roccaforte del potere, e hai iniziato ad incidere simboli, legami chimici, linee varie. Ormai i vestiti si muovevano da soli, i verminsetti correvano su di te, entravano e uscivano ipnotizzati dalla tua perfezione.
Eri soddisfatta. Ti sentivi bene, eterea.
Allora perché? Te lo sei mai chiesta dopo, in quel brevissimo attimo prima che?
Nessuno è venuto a cercarti.
Sei entrata in uno dei piccoli laboratori per studenti, dopo le cinque quelle stanze asettiche diventavano il regno delle creature non umane. E tu te ne stavi lì seduta, inebetita e piena, in preda a un’indigestione infinita.
Finché l’hai visto.
Non potevi non notarlo, ti è uscito dai pantaloni.
Lungo e liscio, almeno quanto un braccio. Un tronco sottile ma ben formato, occhietti brillanti, inespressivi.
L’hai chiamato per nome, ma non te ne sei preoccupata. Lo sapevi e basta. Lo accarezzavi e dentro di te cresceva una nuova sicurezza. Sapevi e potevi, il resto – il mondo – era un’inutile miniatura. Non avevi bisogno dell’approvazione del Professore, delle risate dei colleghi, del camice.
Ti bastavano loro, piccoli e indifesi eppure solidi, secoli di esperienze e sopravvivenze mute. I loro corpi molli, gusci sottili, erano il tuo. I loro sensi confusi, deformati, e quel modo di vedere da lontano, tutto ti apparteneva ormai.
La puzza all’improvviso ti ha svegliata. Sangue marcio, fluido lungo la gola, sul petto.
Il verminsetto enorme ti si era attaccato alla gola e stringeva.
Hai urlato, sentivi le ossa stridere, cartilagini pronte a cedere.
Avevi paura.
Per la prima volta ti sei vista esattamente – tristemente – per quella che eri.
Avevi trasformato il tuo sapere, ti eri plasmata nel corpo, accettando le intrusioni, abbandonandoti a una condizione da ospite. Tutto senza chiedere, lasciandoli fare, accogliendoli come vecchi amanti mai dimenticati.
E a loro interessavi tu, certo, ti volevano fino alla fine.
Ma in quella fine, in quel morso che ti stringeva la gola mentre sentivi i piccoli denti appuntiti, in quella stretta c’era il sapore amarognolo, legnoso, della sconfitta.
——–
Racconto apparso su Fogli bianchi.
Libri sulla morte ne escono a decine ogni mese. Niente di più comune. Il lutto obbliga a dire. Autori o lettori, si va in cerca di parole, unico obolo pensabile per il defunto. Qualunque critico ve lo può dire: lo scrittore di qualità si riconosce dal fatto che, affrontando un argomento così grave, eviterà anzitutto lo scoglio del phatos. Sordina abbassata, pianti trattenuti… I grandi dolori sono silenziosi… Così l’intensità di un’emozione si misurerà dallo spessore del bavaglio sulle labbra… Il racconto è ridotto a qualche immagine di addio su fondale bianco. […] Ai morti bisogna augurare il riposo, smetterla di tormentarli con i pianti. Ogni pagina scritta è un sudario nuovo e immacolato.
Oppure: inquadratura frontale sul cadavere, primo piano di sgomento. La carne cruda del vivente dissanguata sul bianco del macellaio. Con mano scrupolosa, il narratore vuota la vescica biliare d’una madre resecata, compone il corpo inerte di un padre abbrutito dai farmaci. Il romanzo come lezione di anatomia. Ma di nuovo l’emozione è assente dall’orrore raccontato. Il dito segue, nella carne amata, il nuovo profilo tracciato dal bisturi. Indica la piaga. […]
Parola d’ordine: niente phatos! Ma allora che fine fanno la verità e il suo insopportabile nodo vissuto di angoscia e dolore? Troppo volgari, vero?
Ho paura di deludere. Questione di debito contratto verso colei che, fuori dalla pagina, ha conosciuto davvero la sofferenza con cui altri fanno libri. Lo scoglio del pathos? Io vado dove mi porta il vento della vita. Avanti tutta verso le scogliere.
(pag.167-168 )
Nella vita reale i bambini muoiono raramente. Nei libri il fatto è ancor più improbabile. Gli scrittori si ritraggono di fronte a ciò che parrebbe richiedere solo silenzio, mai che si sentano all’altezza di forzare i confini di quell’indicibile. E’ uno scandalo che fa tacere ogni metafisica. Al confronto qualsiasi dramma assume movenze da abile minuetto. Fuffa, robetta, paccottiglia: lo spleen, l’angoscia fenomenologica, l’esperienza interiore, la pena d’amore, l’ambizione frustata… Anche la donna più colta e sensibile farete fatica a commuovere, se è una madre colpita nella persona di suo figlio. Tutta la commedia umana appare come una messa in scena leziosa. E il serraglio romantico viene subissato di fischi. La posta aumenta. Ci vorrà una bella alzata d’ingegno […]
(pag.169 )
La letteratura è una strana operazione di contrabbando a dispetto di tutto. Qualcosa in lei svia ogni velleità di controllo sul linguaggio. Alcuni libri passano le frontiere, attraversano le lingue. Alla dogana viene ispezionata solo la trama superficiale. A nessuno viene in mente di perquisire la valigia a doppio fondo delle parole, di ispezionare il riposto di sensazioni nelle frasi. Niente da dichiarare? Se sapeste… La letteratura vera trasmette ormai a onde corte. Che confusione di voci, che babele di accenti! La censura non ha nemmeno più bisogno di agire, basta lasciar fare al caos delle frequenze. I programmi si accavallano, interferiscono a vicenda. […] Insomma qualcuno che parla. Molto lontano, molto vicino, non si sa, qualcuno dunque tende l’orecchio, e in fretta e furia prende nota di ciò che afferra tra le parole che gli vengono rivolte, nello stridore di sega e nel tap-tap di martello della sua radio. Autore, lettore, la verità a volte passa così, disturbata, nella notte. Non bisogna tacerla.
(pag.133-134)