In seguito a recenti sviluppi ( riassunti QUI ma rintracciabili facilmente on line ovunque) che toccano da molto vicino il tema del ‘mercato nero degli organi’ e parallelamente ‘i c.d. bambini invisibili’, pubblico l’introduzione di una storia che l’anno scorso mi ha totalmente assorbito. Riflettiamo sull’argomento, su quanto succede ‘davvero’ in materia di organi e traffici illegali, su quanto sia complicato e allo stesso tempo ambivalente la tematica e sui ‘perchè’ di tanto silenzio. Tanto, prolungato, forzato, voluto, imposto, tessuto, silenzio.
Segnalo anche un altro piccolo sassolino che lanciai sempre l’anno scorso, QUI, dove suggerisco una lettura, ovvero il libro di Caterina Boschetti del quale scrissi alcuni note qui su Frammentando.

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di Barbara Gozzi

E’ buio.
Vedi le sagome sfuggenti di alcuni mobili. L’angolo di un tavolo in legno. Il retro di un divano in tessuto. Un bracciolo gonfio. Le pieghe di un tappeto.
C’è un televisore davanti al divano, le frange del tappeto raggiungono il mobile dov’è incassato.
Il televisore è acceso, sembra vecchio ed enorme, non lo vedi ma sai che c’è un invadente tubo catodico che tocca l’interno del mobile.
Ti siedi sul divano, con le mani sfiori il tessuto del rivestimento, è un banalissimo plaid colorato, nella semi oscurità intravedi dei motivi floreali. C’è un vago odore di umido e muffa.
Lo schermo irradia luce intermittente, lo fissi.
Ci siamo quasi, sta dicendo qualcuno a pochi passi da te, dentro la scatola magica. Tenetevi pronti signori, aspirare!
Vengono inquadrati dei chirurghi intenti a operare, lo capisci dai camici, l’ambiente sterile, le mani guantate che rovistano dentro una sagoma informe che spruzza sangue. Si vede un cuore che pulsa, viscido e lucido.
Ci siamo, prosegue la voce, forte e concentrata. Le mani si muovono decise, stringono bisturi e si agitano dentro il corpo che è un ammasso di materiali viscidi e gommosi.
Pronti, esclama ed è un ordine, ti arriva dritto allo stomaco.
Altre mani allungano un contenitore bianco con un’enorme croce rossa stampata sul lato visibile.
Fatto. C’è una nota stonata nella voce, adesso. Qualcosa che assomiglia alla liberazione ma anche al senso di vittoria.
L’organo si muove rapido, schizza dal corpo al contenitore come animato da una scarica elettrica, le mani che lo hanno accompagnato non si distinguono nel turbinio di azioni. Il contenitore viene chiuso con movimenti fluidi poi sparisce, due scarpe marroni si allontanano.
Restano le schiene infagottate nei camici, vagamente curve.
Si sente il rumore degli sfregamenti, lentamente la sala si allunga, adesso puoi vedere le piastrelle dei muri, il bianco del soffitto. I chirurghi circondano il lettino, lo proteggono da occhi indiscreti.
Signori, annuncia la solita voce, ottimo lavoro. Alcune teste annuiscono, riesci a cogliere degli occhi sparsi qua e là tra mascherine e capelli raccolti, nasi e colli che si muovono come frammenti sparsi, confusi.
Parte una musica bassa, il volume sale e la sala scompare.
Tornano le scarpe marroni, camminano su un pavimento fatto di piastrelle verdastri uniformi, quadrati perfetti che rifletto una luce gialla. Poco sopra, il fondo del contenitore si muove ritmicamente, ondeggia appena.
I passi vengono assorbiti dalla musica, un pianoforte e un violino che si rincorrono.
Finché una luce improvvisa assorbe i contorni, l’inquadratura si allontana e riesci a vedere il corridoio attorno, ora le scarpe sono parte di una sagoma appena distinguibile. La luce è ovunque, irradia da un punto imprecisato davanti alla sagoma. Forse c’è una porta, un’uscita.
Tutto sparisce nel bianco.

La prima volta lo ha nominato Sandra, in una delle solite sedute semestrali ‘taglio, massaggio e piega’.
E lì per lì non ci ho fatto molto caso, mi ronzava la testa, avevo le palpebre pesanti e il cicaleccio delle galline-asciugamano-in-testa mi innervosiva. Non vedevo l’ora di pagare e uscire, poi mi sarei rilavata i capelli da sola, a casa (lo faccio sempre).
Ha detto: perché non chiedi al vecchio Ruffo?
Ma, come dicevo, non c’ero con la testa, non ho associato il nome a un volto preciso, non sono riuscita a collegare l’informazione con il suggerimento. Non quella volta almeno.
Poi mi è successo di nuovo, al bar. Me ne stavo seduta in un angolo (davo perfino le spalle alla galleria) e bevevo il primo cappuccino della giornata. Ricordo che avevo due occhiaie enormi, quella mattina, e lo stomaco sembrava passato dentro un tritacarne. E’ stato proprio mentre valutavo l’opzione di chiudermi in uno dei bagni del corso e vomitare, in quel momento è arrivato Max, il cugino che non si capisce mai se lavora o fa finta. Lui, comunque, si è seduto accanto (addosso è più esatto) a me e ha iniziato a parlare. Blablabla e io ad annuire, altro non avrei potuto fare. La prima parte del monologo neanche la ricordo.
Finché: parola magica. Nel bel mezzo di un ‘ho sentito dire che’ e un altro ‘se vi serve qualcosa’ mi ha sputato addosso: il Ruffo ci è passato, ormai più di dieci anni fa credo, è quasi centenario in effetti ma ne sa una più del diavolo.
Ancora non saprei spiegare perché mi è rimasto impresso il nome, il registratore della mia mente erano guasto da mesi. Eppure quel particolare si è fissato da qualche parte, addosso credo, cucito tra la pelle della fronte per l’esattezza.
Piero Ruffo.
Che poi, era vero quello che mi ripetevano tutti: non avevo niente da perdere. Eppure l’intera faccenda la vivevo come una cosa mia, intima e incomprensibile, e l’idea di parlarne, o addirittura di chiedere consiglio a un vecchio decrepito che ignorava la mia esistenza; insomma. Non mi andava granché. Di dovergli spiegare il ‘perchè e per come’, di Simone soprattutto. Mi veniva la pelle d’oca al solo pensiero.
Ma dovevo.
Prima o poi avrei dovuto, era evidente.
Chiedere aiuto.
Ascoltare qualcuno che indossasse qualcosa di diverso dalla solita roba bianca e quel puzzo inconfondibile di Lysoform.
Comunque sia, è stato così che è iniziata la virata.
Quando ho deciso che genere di madre non volevo essere ovvero una che accetta passivamente, che prega in ginocchio per ingannare l’attesa, piange ovunque, e annuisce mordendosi le labbra.
Una che se lo immagina già morto.
Mai. Quella precisa razza mi era aliena.

In ogni caso non è stato neanche troppo difficile. Decidere.
Non è stata una domanda consapevole, lo devo ammettere eppure dentro di me ne ho sentito il rimbombo.

Cosa sei disposta a fare per salvarlo?
Fin dove ti spingeresti per?

Forse qualcuno me lo ha chiesto davvero, in una delle infinite chiacchierate vuote dove mi obbligavano a fare la comparsa da quando. E’ come se tutti all’improvviso si fossero messi d’accordo per chiedere, preoccuparsi, suggerire, proporsi. La commessa della macelleria dove andavamo due, massimo tre volte, al mese. Il figlio del benzinaio che anche quando mi fermavo al self service si lanciava verso la pompa. I Bonfiglioli tutti, nonna, due figlie con annesse famiglie che abitavano nella bifamigliare in fondo alla nostra strada. Conoscenti vari incrociati per strada o al telefono. Teresa che se ne stava rintanata nel suo negozio di tessuti ma appena mi vedeva passare in paese sbucava all’improvviso e mi puntava. Tutti insomma. Ammetto che i piccoli paesi di campagna si annoiano trecentosessanta giorni l’anno. Per cui Simone era diventato i ‘cinque giorni di eccitazione’. Mi sono incazzata un paio di volte, per questo. Poi ho lasciato perdere. C’erano cose più importanti da affrontare.
Sta di fatto che, in mezzo al circo di periferia, Piero Ruffo era diventato un nome capace di rimbalzare e rincorrermi.
Una notte l’ho anche sognato.
Il giorno dopo ho suonato il suo campanello.

[Bozza introduzione di ‘Corpo cavo’ – 26/08/2008]