Alajmo Roberto: intervista

29 ottobre 2009

Alcune considerazioni preliminari QUI.

Raggiungo telefonicamente Roberto Alajmo, gentile e disponibile, “non amo teorizzare su qualcosa che ho già scritto” inizia ”perché vuol dire che scrivendo non sono stato esaustivo. Fammi delle domande, ragioniamoci assieme”.

Dal momento che lo spunto per queste riflessioni è stato il suo pezzo on line del 17 Luglio (sopra citato) dove si nomina il romanzo di Nicola Gardini, gli chiedo curiosa: “Ti vengono in mente altri titoli, autori, che hanno subito lo stesso non trattamento divulgativo in Italia?“.

Alajmo non fa nomi. “ Ce ne sono tanti, moltissimi” mi risponde “ma rischio di dimenticarne e comunque sarebbe una lista fine a se stessa”. In effetti la domanda è provocatoria. Il romanzo di Gardini è uno dei tanti, un nome per tutti si potrebbe sintetizzare. “Non si tratta di questo o quello, altrimenti diventa sterile come approccio. E’ piuttosto la logica, ciò che scatena il fenomeno, che vale la pena di discutere. Esiste una precisa dinamica, dove l’editore conosce l’autore, entrambi (o uno dei due) conoscono il giornalista, il giornalista scrive, e la scrittura ritorna tra editore e scrittore , che è anche giornalista magari. E’ un triangolo chiuso, che il più delle volte si autoalimenta. Un triangolo delle Bermuda dove scompaiono i libri alieni. Ciò che esce sui giornali è lo specchio di questa situazione e il lettore, quello abituato alla lettura, ha fiuto ormai. Se legge, tendenzialmente non è uno stupido. Non compra solo perché su Repubblica, e cito Repubblica perché è il quotidiano che leggo abitualmente, trova la recensione di quel critico o giornalista con esperienza. In narrativa le recensioni cartacee non fanno vendere”.
Alajmo è diretto, centra nodi e li espone. La dinamica divulgativa, promozionale anche, delle recensioni su quotidiani o riviste è tutt’ora dibattuta e ambita da moltissimi esordienti e non. Eppure Alajmo insiste: “attualmente il mio libro più venduto, “Palermo è una cipolla“, è quello che non ha ricevuto recensioni cartacee, nemmeno una. In pratica sui giornali non se n’è scritto. Eppure è stato acquistato più degli altri. Le recensioni il più delle volte servono a tenere alto l’ego dello scrittore, i lettori comprano seguendo conoscenze, consigli e gusti diversificati, raramente si fanno influenzare dalla recensione di tal dei tali. Poi c’è il giornalista che si fissa su un autore o un libro e decide di lanciarlo, fa le classifiche di grandezza –Roth è il più grande, seguito da Vargas Llosa, a ruota tutti gli altri– e questo approccio agonistico riesce ad attrarre il lettore”.

Ma tutto questo vale per un certo tipo di narrativa, quando le storie sono storie, più o meno frutto della mente dell’autore, senza la precisa intenzione di raccontare realtà concrete, come nel caso di ‘I Baroni”.

“Infatti” prosegue Alajmo “ per libri del genere, cosiddetti scomodi, anche la stroncatura viene evitata, perché per stroncare se ne deve comunque scrivere, e scrivendo lo si addita al potenziale lettore. Ciò che esattamente si vuole evitare: avviare il passa parola, le riflessioni sul tema”. Annuisco, ci avviciniamo ad una centratura:
Quali sono secondo te le tematiche, le realtà attuali che non si vogliono far conoscere?
E mentre lo chiedo mi vengono in mente la malasanità, l’istruzione per l’appunto, le morti bianche e per riflesso i mandanti di questi silenzi (politica, corruzione, potere…). Resto spiazzata dalla sua risposta: “ho sempre avuto una precisa convinzione: che ancora prima della malafede c’è la stupidità. Basta leggere periodicamente le pagine culturali di un quotidiano italiano per capire di cosa parlo.”

E mi propone alcuni esempi di articoli pubblicati perché scritti da questo o quel critico, dove l’uso linguistico si flette secondo regole non convenzioni e dove non esiste correzione possibile né da parte dell’autore tanto meno del redattore del caso. “La situazione in Italia è anchilosata, c’è una reiterata impossibilità a selezionare i libri secondo criteri super partes, figuriamoci scatenare ragionamenti o dibattiti che non risultino geriatrici o già visti. C’è a monte un problema legato al percorso di chi arriva a occuparsi di cultura tra le pagine delle testate giornalistiche”.

Già. Incredibile che esistano ancora libri che insistono sulle ‘storie verie’ per non dimenticarle nel cassonetto dell’immondizia. “ In effetti, mera narrativa a parte, i libri come quello di Gardini raccontano di una certa realtà sperando di non cadere nel silenzio. Ci tengo a precisare che nel caso di “I baroni”, nessun giornale siciliano ne ha scritto fin ora, e questo l’ho trovato curioso, interessante, proprio perché il libro dibatte di alcune pratiche dell’università di Palermo. Dunque si è creato un fenomeno di appiattimento generale. La stampa locale che appoggia l’università locale e viceversa. Perché a livello nazione c’è stato chi ne ha scritto, ma non è la stessa cosa. Manca il riscontro in loco, proprio dove potrebbe avere un senso preciso appunto parlarne.”
E mentre lo ringrazio, chiudo la conversazione indecisa se davvero sono pronta a scriverne. Penso che i libri (pre)destinati al silenzio sono ovunque, racchiusi forzosamente da incastri, eccessi, dinamiche neanche poi tanto moderne o recenti. Eppure qualcosa continua a muoversi, (r)esiste.

L’apatia, il senso di rassegnazione da omologazione, quel ventriloquare il detto da altri per non dover pensare; tutto questo c’è, pulsante e pesante, nella società italiana ma non è ancora il tutto. Allora i silenzi, le storie che non sono solo favolette ma anche gli intrattenimenti che ricaricano, loro, nascono e si espongono per stuzzicarci. Ci sfidano. Quanto ne siamo effettivamente consapevoli, non saprei.

Link alla pubblicazione originale su AgoraVox.

Avrei bisogno di capire se quello che sto facendo è giusto, se gli animali hanno bisogno di questo mentre la strage continua senza sosta. Strage che non verrà fermata da questo gesto perché la gente la bistecca la vuole al sangue. Vuole che gli coli in gola e sul tovagliolo, basta entrare in un ristorante per capire che i vampiri esistono e sono gli umani tutti.
(pag.102 – Aiutami di Paolo Grugni, Barbera Editore, 2008)

Come già spiegato nella prima parte, qui, ’Aiutami’ di Paolo Grugni racconta la storia di cinque amici, animali, decisi ad agire per smuovere le coscienze, pronti a un atto estremo, forte e rischioso pur di ’lasciare un messaggio’, di incrinare almeno un pò il muro di silenzio, indifferenza e menefreghismo che sentono attorno a loro. Gli animali, dunque, sono il motivo scatenante. O meglio. La considerazione e i trattamenti a loro destinati per mano umana, lo sono Nel romanzo di Grugni, dunque, emergono due principali macro tematiche, capaci di scatenare dibattiti quanto alzate di spalle e risate ironiche. L’alimentazione e la speranza.

Essere o diventare vegetariano o vegano. L’argomento prende forma lentamente – forse – perché non è lì che Grugni vuole focalizzare tutta l’attenzione. Eppure si sono scatenate diverse reazioni, dopo l’uscita del libro, essendo un dibattito ancora aperto, controverso nei contenuti quanti nelle sfumature. Prima di tutto vegano (sito utile: vegfacile.info ) non è sinonimo di vegetariano ( sito utile: vegetariani.it ), in quanto il primo non elimina dalla dieta solo carne e pesce bensì tutti i possibili derivati (latte ad esempio) nonché ogni prodotto che per essere ottenuto ha implicato abusi di qualsiasi tipo verso gli animali. Sottili differenze, sostiene qualcuno, che sono però sostanziali differenze nella vita pratica da cui i pareri tutt’ora contrastanti di nutrizionisti e medici. Ma, come accennavo sopra, il romanzo non è un inno verso specifici regimi alimentari fini a se stessi, una mera presa di posizione motivata, piuttosto la denuncia di un elenco – lungo, molto lungo – di comportamenti, modi di vivere, acquistare e consumare senza alcun rispetto tanto meno consapevolezza di quanto gli animali gridano ogni giorno ‘aiutami’, diventano trascurabili parti del ciclo (alimentare quanto ludico o commerciale). Strumentalizzare un romanzo come questo è fin troppo facile, io credo.

Jeffrey Moussaieff Masson, è stato psicoanalista e direttore degli Archivi Sigmund Freud, autore di numerosi saggi tra i quali il recentissimo ’Cosa c’è nel tuo piatto?’ edito in Italia dal Cairo Editore. Proprio in questo saggio, Masson analizza approfonditamente le attuali dinamiche che portano i cibi dentro i nostri piatti. La realtà descritta con una franchezza disarmante, è naturalmente quella americana ma non credo che il lettore europeo possa coscientemente dissociarsi ritenendo quanto letto ’appartenente a un altro pianeta’. Ne esce un testo duro, grave, dove le logiche del mercato alimentare spadroneggiano sulla vita (poco importa che sia animale in realtà, ’vita’ è già sufficiente come termine, dovrebbe almeno), dove i processi di produzione hanno modificato la qualità del vivere stesso degli animali, anzi, li hanno resi semplici oggetti per il nutrimento umano, spesso senza alcuna logica o reale necessità. Un libro che denuncia insomma, senza girare intorno alle questioni, senza ’mandarla a dire’. Masson ha visitato personalmente (tutt’ora pare lo faccia) allevamenti, fattorie, catene alimentari, battute di pesca. Personalmente nel significato letterale. Masson ha visto. Ha sentito le grida degli animali, ha memoria dei trattamenti, delle piccole ma importanti torture inflitte loro per far si che il tal prodotto sia quello cercato dal compratore ovvero sia come noi lo vogliamo. E vedere tutto questo lo ha profondamente segnato. Jeffrey Moussaieff Masson è diventato vegano e nel corso dei capitoli ne spiega anche le motivazioni, dettaglia tappe e ragionamenti che nel tempo, passando attraverso anni di osservazioni e scelte, lo hanno portato oggi a non sentirsi più ’complice’ di tutto quello che ora sa viene inflitto agli animali per dare da mangiare all’uomo, una forma di complicità tra l’altro tacitamente ammessa, implicita nell’atto stesso del mangiare. Occhio non vede, cuore non duole, dicono i saggi. Questo è uno degli aspetti che più il libro cerca di demolire. Sapere per capire, per conoscere come si arriva al patè che abbiamo sotto al naso, ma anche il tonno in scatola, i petti di pollo e tutto il resto passando per piatti prelibati quanto inutili dal punto di vista nutrizionale. Ha scritto Masson: “Non credo che sarei diventato vegano senza una conoscenza diretta di questo tipo.”

Ma c’è di più.

Il saggio svela i c.d.’segreti’ dell’incremento produttivo (che in realtà ormai non lo sono più tanto, segreti, per chi ha voglia di sapere on line certe informazioni, armandosi di santa pazienza o buoni motori di ricerca, si trovano) ovvero come l’uomo è riuscito ad aumentare i quantitativi attraverso processi subiti dagli animali che vengono dunque, ingozzati, ingrassati, imbottiti di farmaci (che restano poi nei ’prodotti consumati’ finendo ingeriti dall’uomo stesso), reclusi, legati, vengono loro accelerati i ritmi, impediti i movimenti, danneggiati organi o ’parti non utili’.
La realtà narrata da Masson non lascia scampo a interpretazioni.
Per nutrirsi l’essere umano non solo ha letteralmente piegato altre specie viventi, destinate a nascere per morire nel dolore, ma – se questo non bastasse – si sottopone a ingerimenti continui di sostanze dannose utilizzate in fase di allevamento ma anche dopo, durante i diversi cicli di trasformazione finchè il cibo non assume l’ ’aspetto’ desiderato.
Masson argomenta il più possibile, il suo essere vegano, le sue motivazioni personali nate però da anni di osservazioni, riscontri ’reali’ e non teorici quanto possono apparire le pagine di questo libro; Masson dunque non teme confronti. Propone obbiezioni e le confuta.

La stessa definizione di animale, che tanto arrovella il mondo scientifico, medico, la morale e l’etica, viene passata attraverso uno scanner accurato.

Senza dubbio ci sono davvero persone convinte che, se gli animali non hanno coscienza della sofferenza che sono costretti a sopportare, allora non dovremmo provare rimorso nell’infliggerla né sentirci costretti a porvi fine. […] … è molto calzante la celebre osservazioni di Jeremy Bentham: « Non dobbiamo chiederci se sono in grado di ragionare o se sono in grado di parlare. Piuttosto, dobbiamo chiederci se sono in grado di soffrire» (pag.24)

Molti studiosi del comportamento animale e altri biologi considerano insensata la questione della felicità animale. Non possiamo sapere, sostengono, cosa renda felice un animale.
(pag.59 – Chi c’è nel tuo piatto?)

Se dunque taluni considerano possibile che gli animali siano incapaci di provare sentimenti, la loro percezione del dolore dovrebbe essere relativa, poco significativa. Per quanto mi è impossibile anche solo consideare una teoria del genere, di fatto è la stessa dinamica tutt’ora riscontrabile in molti operatori dell’industria alimentare. Le scritte ’qui alleviamo con amore’ oppure ’ qui si rispettano gli animali’ che pare siano ancora appese in alcune floride fattorie americane, sono la diretta espressione di una precisa filosofia che ’non vede’ ciò che ha davanti. Che non vuole riconoscere, non deve, le atrocità commesse per un piatto qualsiasi. Che non può neanche permettersi di guardare in faccia una mucca che penzola a testa in giù o una gallina con il becco tagliato per non parlare dei corpi che galleggiano a pelo d’acqua dei pesci finiti nelle reti ma non ‘utili’, quelli che semplicemente si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato e vengono rigettati in mare morti o moribondi.

A quasi tutte le galline destinate alla produzione di uova viene scorciato il becco quando sono ancora pulcini. Il più delle volte l’operazione viene eseguita con un macchinario elettrico la cui lama rovente taglia metà del becco superiore e un terzo di quello inferiore (al momento non è noto quanti pulcini muoiano per il trauma dovuto all’operazione). La ragione di questo intervento è che altrimenti, dato il sovraffollamento esistente nelle gabbie in cui vengono rinchiuse, le galline finirebbero con il beccarsi e ferirsi a vicenda.
Ho chiesto spiegazioni su questa procedura agli uomini che la eseguivano e mi hanno risposto che è come tagliare le unghie a un essere umano. Ma ciò è palesemente falso. Non ci sono terminazioni nervose nelle unghie, mentre ce ne sono molte nel becco delle galline. Sarebbe esatto dire che la procedura equivale a tagliare l’ultima falange delle dita a un essere umano. […] Le terminazioni nervose ricrescono, ma il trauma cambia l’immediata formazione di un neuroma, un groviglio di fibre nervose e tessuto cicatriziale che spesso trasuda escrezioni. […]… il risultato di quell’operazione non può che essere l’insorgere di dolori cronici e acuti.
(pag.65 – Chi c’è nel tuo piatto?)

Lo stralcio che ho riportato sopra è uno dei tanti esempi di ‘dinamiche industriali nel moderno mercato alimentare’. Ed è agghiacciante non soltanto per l’operazione in sé quanto per le cause scatenanti e lo schema innescato. Innanzitutto non si deve dimenticare che, nell’esempio di cui sopra, l’obbiettivo da raggiungere era intensificare al massimo la produzione di uova. Per farlo, le galline vengono tenute in spazi ristretti ma in quantità crescenti (minimizzare i costi, massimizzare i profitti, le classiche regole della produttività). Dunque sovraffollamento, e conseguentemente il beccarsi tra loro, che le galline non possono evitare non avendo spazio alcuni entro cui muoversi. E, infine, la soluzione scelta, la pratica di ‘scorciatura dei becchi’ già nei pulcini. Da questa semplice analisi che propongo è facile intuire quanto, le dinamiche industriali che mirano a incrementare i quantitativi minimizzando i costi, hanno trasformato anche le produzioni più semplici in mostruose catene che fagocitano gli animali i cui destini dipendono da quanto possono ‘essere utili all’alimentazione umana’ e da quanto lo possono fare sempre più in fretta e con risultati numericamente in crescita. Logiche che lasciano senza fiato. L’immagine della contadina che prende alcune uova dal giaciglio e tranquillamente se le porta in casa mentre la gallina scorazza nel cortile; quest’immagine è bruciata per sempre.

Dopo la lettura di questo saggio credo sia più semplice capire la rabbia che trapela da alcuni personaggi di ’Aiutami’, quella ferocia che Grugni ha rivesato sulla storia, dentro le voci, Masson la trasforma in logica, in fatti se non proprio oggettivi quanto meno ’registrati’, concreti quanto basta per rifletterci senza la facile copertura da ’tanto è un romanzo, è tutto finto, esagerato per copione’.

Al diventare vegetariano o vegano, poi, Masson dedica l’ultimo capitolo. Una sorta di diario, resoconto delle sue esperienze, scelte motivate e suggerimenti nutrizionali mai gratuiti, piuttosto supportati dalle considerazioni scientifiche di istituzioni, enti e organizzazioni americane ma soprattutto dal buonsenso. Non meno intenso e coinvolgente è il penultimo capitolo che affronta, smonta e spoglia le ‘negazioni’ in ogni forma, approccio e logica. E’ possibile non essere d’accordo con le argomentazioni, ma evitare di rifletterci, davvero difficile.

Quando questa negazione viene sottoposta alla nostra attenzione, chiamiamo in causa una serie di cliché per giustificare l’uccisione di altre creature. In effetti questo ricorso ai cliché è già di per sé una prima difesa, un modo per non riflettere davvero sull’argomento. Eccone un parziale elenco: 1) Gli uomini sono onnivori, lo sono sempre stati e sempre lo saranno, 2) Ha un buon sapore, 3) Abbiamo bisogno della carne per vivere in salute, 4) Gli animali si mangiano l’un l’altro, perché non dobbiamo fare lo stesso? …
(pag.161- Chi c’è nel tuo piatto?)


Altra ‘controversa questione’ scatenata da ’Aiutami’ è la speranza. L’happy end che non c’è (considerato invece politically correct in narrativa e in generale nelle storie ‘raccontate’) ma non solo. Il senso di crollo, di annegamento lento ma costante, inevitabile quanto faticosa ammissione che l’essere umano ‘si’ sta affogando, aggrappato alla cieca-sorda-muta convinzione di essere ‘superiore’ all’animale. Un messaggio forte, estremo forse anche. Dunque fraintendibile. Che porta con sé un’altra etichetta pericolosa, secondo me: quella di ‘libro eccessivo, non costruttivo’. Come se il punto fosse lo stupire per forza.

Noi non abbiamo più voluto passare per animali, esseri così carnali, ma solo uomini evitando altri eteronomi. E nella mutazione semantica non c’è stata metempiscosi ma solo cirrosi. Ma l’anima è rimasta a loro, a noi, è scritto nella fenomenologia della nostra etimologia, l’humus, la terra, la materia, lo spirito perso già al primo capoverso.
(pag.21, corrispondenza con il Maestro, Aiutami)

«Dimmi perché mi hai chiamato»
«Per dirti che ti amo e che se ti diranno che ero fuori di me avranno ragione ma non avranno capito niente. In questa società chi è in sé è chiuso dentro se stesso, è in un circolo chiuso dal quale non può sfuggire. Per vivere, bisogna essere fuori di sé, fuori da se stessi, solo in questo modo ci si può vedere, ci si può comprendere. […]»
(pag.119 – Aiutami)

Non c’è l’happy end, dicevo, ci sono puntuali e precisi abbozzi di denunce, i personaggi ‘credono’ e decidono di agire. Decidono di trasferire sulla carne le grida degli animali, quel ‘salvami’ che è un loop straziante, ma ancora non abbastanza assordante, pare. Allora chiudendo il libro mi sono domandata: tutto questo è un’onda che si infrange e non lascia tracce? Non serve insomma, sapere e lottare? E’ questo il messaggio di Riccardo (del romanzo)? Perché c’è una frase che mi è rimasta impressa, una frase che qui ripropongo decontestualizzata per non svelare nulla della trama:

Credi che ci sia ancora qualche racconto sopra le nuvole?
(pag.115, voce di Richy – Aiutami)

In ’Cosa c’è nel tuo piatto?’ non mi sento di affermare che si propone una versione della vita senza speranza. Jeffrey Moussaieff Masson ripete più volte nel saggio che le scelte sono appunto scelte. Ma in quanto mutevoli, modificabili, possono contribuire a interrompere o almeno rallentare i potenti processi industriali che stanno distruggendo il pianeta.

Ogni pasto è come l’espressione di un voto. Possiamo fare la differenza con ogni boccone. Non possiamo scegliere di ignorare l’argomento, di pensare che non ci riguardi. Perché ci riguarda eccome.§
Come individui, siamo programmati per non fare troppe domande su ciò che la società reputa indispensabile per la propria sopravvivenza. […] Riconoscere l’impatto sull’ambiente significa uscire dalla gabbia delle consuetudini quotidiane. Abbiamo bisogno di studiare per prendere atto di qualcosa che finora siamo stati incoraggiati e abituati a ignorare.
(pag.56-57 – Chi c’è nel tuo piatto?)

Di certo non ne esce un’immagine facile, di questo nostro vivere oggi dove l’abitudine è non sapere. Fermarsi al supermato, nei negozi, riempire carrelli di prodotti di ogni tipo (freschi ma anche scatolette, sacchetti, surgelati, ingredienti elaborati) e dopo la cassa correre a casa a ingrassare dispense e frigoriferi fino al prossimo pasto. Ma del ’come’ quei prodotti sono diventati tali, chi li ha realizzati e soprattutto in che modo. No, di tutto questo non si parla. Meglio non pensare al naso del maiale, agli occhi del cavallo, alle pinne lucide del pesce, e così via. Meglio continuare a fingere che sono rari i casi in cui si inniettano cortisonici o altri intrugli chimici che poi restano nell’animale e finiscono nei nostri stomaci o in quelli dei nostri figli. Meglio si, ma per chi davvero?

Nessun animale addomesticato, tranne forse il gatto, conduce il tipo di vita cui lo ha destinato la natura. Tutti i cambiamenti che gli uomini sono riusciti a effettuare, soprattutto tramite gli allevamenti selettivi, non mirano al beneficio dell’animale: siamo noi a trarne beneficio, mentre l’animale ne subisce le conseguenze. Questo significa che se ci preoccupiamo per la sofferenza degli animali e per la qualità della loro vita dobbiamo smettere di mangiare tutti i prodotti di derivazione animale? Temo di si: personalmente, non vedo altre conclusioni possibili. Dico ‘temo’ perché mi rendo conto di quanto una scelta del genere sia lontana dalle convinzioni e dalle abitudini di tante persone.
(pag.103 – Chi c’è nel tuo piatto?)

Masson però, seppure nelle descrizioni puntuali, tra analisi spiazzanti e logiche serrate, non cerca allarmismi insensati, secondo me. Non è tanto l’esagerazione, l’intento primario, quanto colpire duro per scatenare una reazione qualsiasi, purchè sia una reazione, qualcosa di diverso dall’attuale ignoranza che è tacita approvazione.

Gli animali patiscono le pene dell’inferno a causa della nostra ignoranza. Il minimo che possiamo fare è ridurre questa ignoranza.
(pag.104 – Chi c’è nel tuo piatto?)

Link alla pubblicazione originale su AgoraVox.

Grugni Paolo – Aiutami

22 ottobre 2009

“… una canzone che fu un’animalista sollevazione, un manifesto di cui tutti dovrebbero conoscere il testo.”
(pag. 67 – Aiutami di Paolo Grugni, Barbera 2008)

Heifer whines could be human cries
Closer comes the screaming knife
This beautiful creature must die
This beautiful creature must die
A death for no reason
And death for no reason is murder
And the flesh you so fancifully fry
Is not succulent, tasty or kind
It’s death for no reason
And death for no reason is murder
And the calf that you carve with a smile
Is murder
( Meat Is Murder – The Smiths, 1985)

Testo completo della canzone QUI.
Su YouTube.

Recita la quarta di copertina di Barbera: questa storia è la storia di cinque animalisti: Ricky, Bruno, Claudio, Sara e Giovanni. È la storia dei loro ideali, dei loro dubbi, dei loro sogni, della loro voglia di un mondo più giusto per uomini e animali. Siamo nel novembre 2008, a Milano, quando in un convulso fine settimana i cinque protagonisti mettono in atto il rapimento di Luigi Banes, cacciatore e assessore della regione Lombardia. Lo trasportano in Valtellina e lo tengono sotto sequestro, poi all’improvviso tutto cambia e i ruoli di forza all’interno del gruppo portano a una piega degli eventi diversa da quella prevista. Fino alla conclusione che inchioda ognuno alle sue responsabilità, lettore compreso.

Paolo Grugni, giornalista, autore televisivo e scrittore, ma anche vegetariano e animalista con ‘Aiutami’ (Barbera Editore, 2008, qui il booktrailer) ha voluto colpire proprio lì, tra le piaghe di una società che vive ‘contro’ gli animali. Un libro che denuncia ma non trascura l’impatto narrativo, dove le parole hanno un peso specifico preciso, le scelte non sono né casuali tanto meno ‘comode’.

Pubblicato nella collana ’Armi da taglio’ sottotitolo: libri che affondano il colpo, collana diretta da Gabriele Dadati, ’Aiutami’ è un romanzo molto ambizioso. Cinque animalisti e un rapimento. C’è un vago senso di familiarità tra le parole e la cronaca, con qualche scritta in piccolo che scorre sugli schermi mentre un mezzo busto parla. Familiarità scrivo, perché la ’causa animalista’ ogni anno ritorna, accade qualcosa o qualcuno fa accadere qualcosa che riporta alla ribalta certe frasi per alcune ore, magari un paio di giorni a essere molto fortunati. Ci fu quella volta che una modella famossima, pantera nera feroce, venne cacciata da una certa campagna contro le pellecce, o qualcosa del genere. Fatti così, che poi ’fatti’ possono anche non esserlo, basta un accadimento extra normale, uno scintillio improvviso che nomina gli animali e allora tutti lì a scuotere la testa (no, no, così non si fa, gli animali sono creature, esseri viventi indifesi). Solo che la ’faccenda’ è un tantino più complicata di così. E Grugni parte proprio da qui, dal bisogno di sbriciolare falsi interessi, frasi fatte per non essere ascoltate, dalla necessità di scavare, svelare, affondare nelle numerose implicazioni legate al movimento animalista, dunque cinque giovani animalisti diventano i protagonisti di questa storia. Poi un rapimento reso necessario, imposto quasi, dall’andamento immutabile di questo nostro vivere oggi. Dall’assenza di coscienza, pare anche. Dal menefreismo che è poi anche egoismo individuale di volere questo o quello, comprare, comprare, avere poi gettare.

Ma chi sono, innanzi tutto, Riccardo, Bruno, Claudio, Giovanni e Sara? Cosa vogliono davvero? Cosa sperano di cambiare? Lo svela l’autore, nel corso della narrazione, senza troppe presentazioni ufficiali.

“… Le idee, per dimostrare di essere giuste e cambiare lo stato delle cose, non possono mai diventare indottrinamento, verrebbero imposte e non comrpese. E’ così che, degenerando, portano alla nascita delle dittature” dice Giulia, conosciuta da poco da Riccardo ( il personaggio che più spicca nella storia ) ma già – subito – importante. Una prima ’imbeccata’ al lettore, attraverso le parole di un personaggio estraneo al gruppo. Poi un’apparente precisazione più avanti, a pag. 87: “… ma la cosa appariva ancora un gioco che altri, solo i criminali veri, quelli che finivano con la foto segnaletica sul giornale, potevano pensare veramente di portare a termine”. Portare a termine, diventa un concetto-chiave dunque.

Poi la consapevolezza, anzi, l’ufficializzazione della consapevolezza (in parte sottintesa dalla stessa quarta di copertina di Barbera) qualche pagina dopo: “Uno sguardo gli bastò per capire che erano il punto di interesezione d’infiniti determinismi, in apparenza liberi di agire e creare il loro destino, ma la situazione in cui si erano ritrovati, come tutte le situazioni, era solo apparentemente frutto di una loro scelta.” Punto d’intersezione-infiniti-determinismi sono incastri precisi, netti, come pure apparenza-liberi-apparentemente-scelta. Qui la terminologia diventa ricerca espressiva fondata sulla sostanza, una frase per chiarire ogni sottinteso che fino a quel momento, attraverso la narrazione di oltre metà libro, era rimasto in volontaria latitanza.

Ma c’è anche, una collocazione sociale, una serie di potenziali ruoli attribuibili ai personaggi: “La gente li avrebbe chiamati delinquenti, i politici li avrebbero definiti terroristi, tutti pronti all’unanime condanna… […] Le rivoluzioni devono cambiare tutti i tempi, rivedere il passato, mutare il presente, modellare il futuro. Per questo i cambiamenti della società non erano mai stati e non potevano essere indolori ma dovevano servire a sgretolare le false certezze e ribaltare le posizioni mummificanti il metabolismo cerebrale. [..] Ma ci voleva la scintilla, quella che avrebb fatto sollevare gli animalisti in tutto il mondo…” (pag.98). Cambiamenti e scintilla. Ecco chi sono questi ragazzi che Grugni tratteggia con imperfezioni fisiche ma soprattutto interiori, ognuno con demoni diversi da tenere sotto controllo, paure, incertezze, consapevolezze e memorie quasi mai facili da portarsi in giro.

In realtà c’è già, molto prima, una definizione trasparente lasciata da Riccardo stesso in una sorta di corrispondenza epistolare unilaterale col ’Maestro’ Ennio Morricone sulla cui dinamica tornerò dopo, Riccardo dice:

“Maestro, mi piace immaginare che io e gli altri siamo mucchio selvaggio pronti per quello che la gente definirà un pubblico oltraggio, per me è solo un gesto di alto linguaggio. […]… anche se le diranno che sono dei criminali, non è vero, hanno solo difeso gli animali.” (pag. 46)

C’è dunque, questa netta spaccatura, da subito, tra come verranno ‘qualificati’, ‘etichettati’ dalla gente, e ciò che invece pensano i personaggi stessi, quello che le voci tentano di trasformare in materia, in scelta consapevole e motivata, seria insomma, ’mucchio selvaggio’ dice Riccardo, ma capace di procurare quella ’scintilla’ che potrebbe avviare il cambiamento. Se ne percepisce la purezza negli intenti, che naturalmente contrasta con l’idea stessa del ’rapimento’ e del suo svolgimento pratico raccontato da Grugni con un’interessante scelta strutturale ovvero la spaccatura in ’frame’ poi assemblati, in ogni frammento è l’angolazione di un personaggio a dominarne contenuti e osservazioni, in modo tale da ’rivedere’ anche gesti e sequenze più d’una volta ma attraverso ‘occhi’ diversi.

La struttura del romanzo non distingue capitoli, non in senso tradizionale. La narrazione è una successione di ‘parti brevi’ unite dallo stesso registro, dall’intento di raccontare una scena o un personaggio. Ma in queste parti il narratore e la struttura stessa variano alternando così la voce di Riccardo (che però ‘parla’ sempre con Giulia) con – meno frequentemente – la voce di Giulia (che a sua volta ‘parla’ esclusivamente con Riccardo) dal narratore esterno fino alla lunga corrispondenza al ‘Maestro’ (Morricone, già citato sopra). Quattro macro strutture di fatto, ognuna funzionale, spezzate poi unite a formare un composto preciso, dal ritmo serrato.

Le voci di Riccardo e Giulia, che si parlano a distanza, pensando, ragionando finiscono piano, piano con l’avvicinarsi facendosi bastare rari e preziosi incontri che restano nell’aria, li rendono vicini nella lontananza, nonostante gli avvenimenti che pressano, e l’affondare in logiche difficili, complesse quali le conseguenze delle azioni umane sugli animali. Una storia d’amore delicata, non scontata, che si alimenta di bisogni semplici e restituisce l’immagine di un protagonista pieno di sfaccettature, che non è solo il ‘capo’ del gruppo, bensì molto altro.

Poi Morricone. Una scelta notevole, secondo me, perché attraverso questa sorta di corrispondenza silenziosa (è Riccardo che scrive al Maestro, non c’è bilateralità) Grugni ha la possibilità di introdurre numerose tematiche ‘spinose’, dolorose e difficili, quel genere di scavi che normalmente annoiano, infastidiscono o peggio, tediano. Affrontati in questo modo, invece, veloci, frasi secche, in rima, quasi non ci si accorge di averli letti. Quasi. Perché i sensi restano, graffianti fino all’osso, ferocissimi. In rima, si. Perché a Riccardo viene ‘naturale’ scrivere così. Un espediente strutturale interessante insomma, che spezza il ritmo, non pesa al lettore e ‘fa passare’, trasmette, nozioni crude, necessarie. E’ proprio scrivendo a Morricone che Grugni, usando la voce di Riccardo, denuncia: caccia e cacciatori ( utile il sito della Lega per l’abolizione della caccia ), caccia alle balene, vivisezione, corrida e circhi, gavage, macellazione, mucca pazza, Laika (la cagnolina lanciata nello spazio nel ’57), pesca e pescatori, le ricerche per l’Aids, cyber hunting (caccia visivamente riproposta on line, di solito attraverso web cam ), finning, diventare vegetariani, l’uso di medicinali sugli animali, alcune abitudini alimentari dei cinesi, cavie, i danni del linguaggio (frammento di un’ironia fulminante), abbandono degli animali, combattimenti tra cani, infine il concetto di ‘uguaglianza’ tra uomo e animale.

Ma non solo, scrivendo al Maestro, Riccardo si permette nomi illustri, della politica quanto del mondo dello spettacolo (moda e sport compresi ovviamente), dell’economia e delle arti; e lo può fare solo in questo modo, non intervenendo nella narrazione principale, evitando l’effetto ‘boomerang’ ovvero la strumentalizzazione di talune affermazioni in bocca a personaggi o dentro scene. 

Lo stile di Grugni, merita una considerazione a parte.

La presentazione di scene e personaggi frantuma schemi e regole di sintassi, in favore della semantica. Il lettore potrà sentirsi confuso, all’inizio, l’assenza di distinzioni oggettive, distinguibili facilmente, può spiazzare. Ma è una percezione labile, che passa presto, secondo me. L’amalgama di Grugni è pulsante, piena di passato, presente in corso, pensieri e discorsi diretti che si flettono, mischiano, incastrano, restituendo un flusso narrativo visivo, sensoriale quanto frizzante.

“In casa girava una gatta che nessuno aveva mai pensato di sterilizzare, di notte rimaneva in giardino e ogni anno restava incinta, sua madre prendeva i cuccioli appena nati e li buttava nel cesso, lei li guardava galleggiare per un secondo poi giù nelle foglie (1). In viale Porpora per la fretta prese un rosso senza accorgersene, evitò l’impatto all’ultimo istante (2), brutta troia dove vai (3). Insieme al suo gruppo di preghiera stava ore inginocchiata a recitare il rosario, le ginocchia gonfie, la lingua secca… […] (1) Arrivò all’appuntamento che gli altri erano lì per andarsene, solo Richy era ancora in piedi… (2)”

(1) frammento passato – n.d.r.
(2) frammento degli sviluppi in corso – n.d.r.
(3) scheggia discorso diretto –n.d.r.

Mettendo temporaneamente in stand-by le cause animaliste nel complesso (a tal proposito ripropongo un sito segnalato dallo stesso Grugni trai i ringraziamenti nel libro: AgireOra per gli animali. ), ci sono, a mio avviso, due ’macro tematiche’ sfiorate da questo libro e che hanno scatenato dibattiti e pareri contrastanti.

L’essere, ma anche il diventare vegetariano oppure (risottolineo ’oppure’) vegano.

E la ’speranza’ intesa come messaggio ’finale’, come eventuale approccio alle denunce stesse sollevate dal romanzo.

Tornerò su questi elementi con un altro pezzo, sperando di riuscire a unire la voce di Paolo Grugni con quella di un altro autore, Jeffrey Moussaieff Masson, che con un saggio, pubblicato in Italia da Cairo Editore da neanche due settimane, si propone di chiarire ’Cosa c’è nel tuo piatto?’.

Ultime annotazioni personali: per chi ha letto, legge o leggerà ’Aiutami’, da non perdere alcune frecce linguistiche preziose.
“Siamo tutti vivi terminali”;
“Il senso contromano della vita”;
“ammobiliare in fretta un pensiero”,
“Gli occhi senza sonno, marmellata di luce”.
Poi certamente: ‘la maggior parte della gente quando scopa, scopa se stessa’.


Link alla pubblicazione originale su AgoraVox.

La prima pillola QUI

Il primo racconto, nel complesso, mi è arrivato di più, probabilmente per l’incedere, lo scegliere un raccontare coinvolgente, che in ogni pagina srotola lentamente una matassa mutevole. Il ventisettesimo anno è quello che libera il protagonista da una precisa schiavitù legata alla morte di un fratello maggiore. Oltre il ventisettesimo anno c’è il nulla, perché l’altro fratello, venuto prima, non è vissuto abbastanza per mandare avanti le lancette del tempo, per compiere altri anni e generare quindi memorie, esperienze, punti di riferimento da richiamare, cercare o forse anche emulare.

Mentre la realtà invocata dal secondo racconto finisce in una storia macabra consumata tra cimiteri e parti gemellari dai contorni quasi morbosi, ma raccontata in un locale qualunque bevendo tra il vociare sempre più fastidioso.

Il primo racconto è un’esplorazione simil chirurgica dell’esistenza di un personaggio, prima bambino poi adulto, che crescendo scopre, si interroga, costretto ad affrontare perdite difficili da riassorbire, come tanti piccoli ematomi mai scomparsi del tutto. Ed è un’esplorazione intima, profonda, dove il narratore esterno non risparmia, affonda. Con un finale che in un certo senso recupera l’inizio, e che mi ha fatto ripensare all’ouroboro, serpente che si morde la coda, simbolo e chiave di un altro romanzo del quale Mancassola scrisse, prevedendone gli echi (Uno in diviso di Alcide Pierantozzi). Il racconto inizia nel ‘prologo’ con la scena di un incidente e si conclude con un altro incidente dai contorni sfocati. “ Un incidente è una deviazione improvvisa” si legge nelle ultime righe, “E’ qualcosa che ti porta lontano, sempre più lontano, da un tragitto originario che non ricordi neppure più, ma che pure dev’esserci stato.” (pag.53). E ‘incidente’, ‘morte’ e ‘lontano’ sono termini ricorrenti per sensi,e scavi.

Nel secondo racconto, invece, si esplora una storia dove i personaggi appaiono e scompaiono, mutano nelle forme (e non solo in senso metaforico) eppure si resta – leggendo – fermi su un’inquadratura apparentemente lontana proprio perché chi narra è anche personaggio: la scena iniziale (che si sottintende essere la principale) inquadra due amici a bere in un locale.

Ultima annotazione tecnica: si ritrova un uso moderato e controllato delle parentesi come ‘contenitori’ di frasi che sono contenuti su piani non coincidenti con la narrazione principale. Un’ulteriore amplificazione dei sensi di un dato momento narrativo.

E mentre sapeva anche allora, naturalmente, che quelle cose un giorno, pur continuando a rappresentare un’idea di divertimento, avrebbero di fatto contato meno (forse perché è il divertimento a non essere più centrale nei suoi pensieri, ad aver dimostrato l’efficacia, come una medicina cui le malattie hanno imparato a resistere, al riscatto di qualunque cosa si potesse o dovesse riscattare), ciò cui non pensava era quanto simili sarebbero apparsi, a un occhio esterno e senza tempo…
(pag.38)

Un ‘piccolo libro’ che si legge velocemente, scivola ma assesta colpi e riflessioni. Adatto alle pause brevi e che invoglia, viene da chiedersi cosa può fare l’autore con questi e magari molti altri strumenti narrativi, formando, curando e restituendo storie di altra lunghezza.

Questa edizione è impreziosita e contaminata profondamente dalle fotografie di Pierantonio Tanzola, valore aggiunto coraggioso (per il mercato editoriale) quanto espansione creativa colma di suggestioni e potenziali interpretazioni.

Link alla pubblicazione originale su ThePopuli.

Siamo in pieno agosto, tempo di vacanze per qualcuno, per altri solo afa, caldo e città semi deserte. Tempo di sospensioni, lunghe o brevi che siano.
Comunque.
Già da luglio, in alcuni casi giugno, sono iniziati i ‘proclami’ da letture ’estive’. Come se le stagioni imponessero per tutti gli stessi ritmi, le stesse dinamiche di fatica e riposo, presenza e assenza, tempo o non.
Allora in questo giovedì post ferragosto propongo una lettura che non ha nulla a che fare con l’essere sotto l’ombrellone o in coda davanti al semaforo. Un libro che non è best seller internazionale tanto meno novità dell’ultim’ora.
Sorvegliato dai fantasmi di Gabriele Dadati.
Quando questo libro è arrivato per la prima volta in libreria era il 14 febbraio 2006: avevo ventitré anni. L’avevo consegnato all’editore verso la fine del 2004, e scritto nei due anni precedenti…
(pag.205)
Nella ‘nota alla nuova dizione’ Dadati dice tutto quello che il lettore non sa ma dovrebbe. E lo fa con intelligenza, semplicità. Lo fa, forse senza la piena consapevolezza, preparando il lettore a ‘un’ Dadati che nel 2008, anno della nuova pubblicazione per Barbera, non solo compie ventisei anni ma procede attraverso un percorso narrativo, strutturale ed esplorativo cbe, fra qualche settimana, si evolverà con l’uscita di un nuovo romanzo.
A rileggermi e a ripensare a quel Gabriele mi viene un naturale senso di tenerezza.
(pag.205)
E bisogna aspettare il nuovo libro per capirne a pieno il senso. Bisogna spostare piani temporali. ‘Sorvegliato dai fantasmi’ è stato scritto da un poco più che ventenne con diverse idee in testa, storie, strumenti narrativi da testare, sperimentare, affinare. E’ stato scritto per essere tante cose in uno, nell’insieme che è poi diventato già dalla prima pubblicazione.
Si tratta di una raccolta di racconti. Ma non ho intenzione qui di riprende l’ormai raggrinzita diatriba tra ‘romanzo si, racconti no’. Diatriba peraltro irrisolta, seppure le meravigliose statistiche di gradimento e vendita delle case editrici non lasciano spazio a logiche. Il mercato, in generale, non ha poi tutta questa voglia di teorizzare, gli basta instupidire, il più delle volte.
Questi racconti però, che hanno avuto precisi riscontri già dalla prima pubblicazione (qui una sorta di rassegna stampa di PeQuod, primo editore), sono piccole tessiture imperfette che racchiudono generi, sensi e storie mai prevedibili, mai uguali tra loro, mai scontate o banali. “Se un romanzo costruisce un universo, un racconto crea un mondo. Gabriele Dadati, i suoi mondi, li costruisce con cura e abilità’ scrive Gianluca Morozzi nell’edizione per Barbera. E credo renda perfettamente l’idea che resta dopo la lettura.
I racconti scorrono in autonomia, sono indipendenti quanto variabili. In un certo senso si può affermare che accontentano anche ‘gusti diversi’. Il Dadati ventenne ha padronanza della penna, conosce la lingua, in parte se la flette a piacimento, ma soprattutto si mette alla prova con strumenti che sono tecniche e strutture della narrativa oltre la linearità e le trattazioni convenzionali. Dunque sapori, odori e intenti differenti. Ci sono gli sposi alla ricerca della felicità condivisa, i genitori che hanno perso l’ ‘io’ per un figlio amatissimo ma che in qualche sottile finestra scura, risveglia anche altro. Poi le indagini con annessi colpi di scena, scambio di identità e malattie. Perfino Max Pezzali, c’è, assieme all’ex compagno Mauro Repetto e ai sogni realizzati poi infranti. Ci sono lettere da prigioni, e prigioni tessute. C’è un’apocalisse annunciata a gran voce, vissuta oltre la fine poi disattesa, e portaceneri che sono schegge di ricordi e volti familiari persi.
“E’ il nascondimento di uno scrittore’ spiega la voce dello stesso Dadati in questo video-presentazione per Booksweb.tv, “ I fantasmi del titolo sono degli io narranti diversi dall’ io biologico dello scrittore che vengono ad esigere che la loro storia sia raccontata”. E sono “storie di prove affrontate” conclude l’autore, storie – aggiungo io – di tappe, evoluzioni, scelte e conseguenze. Ed è sorprendente, l’ho pensato sin dal primo racconto, come un ventenne possa entrare in sentimenti così diversi, angoli che si, sono comuni ma a chi li vive o li ha vissuti come l’essere genitori, ma anche l’amare nell’impossibilità di stare insieme, o ancora rincorrere un amore, attendere una fine annunciata accudendo, ricercare e assecondare verità scomode, insomma tanti spigoli che Dadati coglie con una certa precisa onestà. Rara direi, molto rara. Per età, crescita, e approfondimenti.
Altrettanto stupefacente è la capacità di ogni storia di ‘riempire’. Non che i sospesi manchino, anzi. Nulla si esaurisce, non soltanto per la lunghezza della narrazione ma anche per una sorta di visione d’insieme che riconosce le numerose variabili nelle storie e si sofferma solo su alcune. Questo fa il narratore, i fantasmi che (rac)colgono e sussurrano a personaggi addormentati quanto al lettore, chiunque esso sia, ovunque.
Una particolarità, elemento ‘curioso’ forse, anomalo di questa edizione per Barbera, è la necessità dell’autore di farsi presente, oltre i fantasmi e le storie in sé. ‘Necessità’ l’ho definita io, perché è così che mi è arrivata leggendo. C’è la già citata ‘nota alla nuova edizione’ ma anche uno scritto, l’ultimo non credo a caso, intitolato ‘Dovuto alla madre. Una lettera di dedica’. Tra queste pagine, in pratica le ultime otto su duecentosei, mi sembra siano diretta espressione del Dadati autore contemporaneo alla nuova edizione, scrittore ma anche essere che si espone, lascia parole che sono le sue, parlano di ciò che è oggi, che era, di ciò che è diventato o dove si tende mentre scrive, tra ricordi e volontà. Non conosco personalmente Dadati, eppure tra le righe qualcosa, piccola nervatura guizzante, sembra lasciarsi sfiorare.
Decidendo di scriverti invece mi costruisco lo spazio per chiarire i motivi per cui questo libro è tuo, e il primo motivo è questo: il libro che hai tra le mani è una restituzione. Queste storie pagano quelle che hai speso per me, su di me, quando ero piccolo.
(pag.201 – Dovuto alla madre)
E non c’è nessun bisogno che sia io a far notare come queste pagine diventano anche incursioni in una sorta di privato dell’autore, lo dicono le parole, il periodare, l’intimità che quasi pare violarsi nel momento stesso in cui viene letta. Eppure è anch’essa parte del libro, ne è elemento aggiunto forse, valore che si affianca alla pura narrazione, alle storie nate da digitazioni ed elaborazioni, scritture e riscritture, sebbene. Anche questa è una storia, un’altra.
I racconti sono strutture adattabili. Dunque vanno bene tra creme abbronzanti e bagni, quanto entro pause caffè o pranzi in piedi al bar. Di notte, sotto le coperte con la stanchezza che già pulsa sulla fronte o la mattina presto col caffè bollente tra labbra indolenzite.
Questi racconti impastati da Gabriele Dadati chiedono, però, qualche attenzione in più, rispetto alle storie che generalmente si decantano in questo periodo, d’estate intendo, in vacanza possibilmente (ammesso che in agosto si possa davvero non lavorare, tutti insieme appassionatamente). Richiedono un pizzico di attenzione perché celano spunti, dettagli e intenti. Non ancora così stratificati quanto, credo, nei prossimi scritti ma abbastanza da essere. Compiuti e intensi.
Tecnicamente la scrittura di Dadati ha già in questi racconti tratti caratteristici. Accenni in alcuni casi. Eppure importanti per ciò che era e forse sarà, virando o potenziando.
Le ripetizioni o meglio, l’abile uso di parole che si ripetono ravvicinatamente acutizzando percezioni e sensi.
Poi, durante il dicembre scorso, ha scoperto come muoversi nel buio e dove potesse portarlo il muoversi nel buio perché le porte della sua camera e della nostra camera si fronteggiano ed entrambe restano aperte la notte. Così, visto che c’era un calore speciale tra il corpo di Roberto e il mio, ha deciso di abitare quel calore, di tornare in possesso di quel calore che, si può dire certamente adesso che mi viene in mente, è proprio il calore da cui è nato. Quel calore, questo calore, perché parte esattamente da qui, …
(pag.10 – Vittorio si è scavato una nicchia)
Anche le parole, alcune in particolare, tendono all’emersione, si tendono nel tentativo – forse – di farsi notare più di altre. Credo che la più prepotente, tra le diverse storie sia ‘corpo’(e le sue declinazioni), prepotente e quasi onnipresente. Una partenza che è eredità. Un’altra che fa capolino, ancora acerba è ‘male’, ma anche ‘l’uomo’, ‘tempo’, ‘pioggia’, ‘idea’, ‘morto’, ‘calore’. Dadati ha lavorato molto, con le parole, si sente la ricerca, l’accuratezza.
Non mancano i simbolismi, tra le storie, alcuni più evidenti e forti di altri. Dadati si avvale di azioni, situazioni, gesti e personaggi, per lasciare ogni tanto altri messaggi, sensi che non solo finalizzati al racconto in sé.
Una cosa che mi fa impressione è aspettare su una banchina lungo un binario, stando al di là della linea gialla. Poi passa velocemente il treno in transito e se rimango fermo ho di fronte al volto un mentre di grande moto in cui se mi buttassi contro il fianco del treno verrei rimbalzato, a terra, rotto. Invece un attimo dopo il treno è passato, tutto è nuovamente fermo. Il fatto che non ci sia una gradualità del passaggio tra i due stati, il moto e l’immobile, è quello che mi riesce a impressionare.
(pag.59 – Portacenere)
Partendo da qui, prossimamente, il 3 settembre (salvo cambiamenti dell’ultimo momento) proporrò un’analisi-confronto sul nuovo romanzo di Gabriele Dadati, Il libro nero del mondo, Gaffi Editore. Con alcune domande all’autore.

Link alla pubblicazione originale su AgoraVox.