Tassello
7 gennaio 2009
Più o meno tutti in realtà.
Il compagno, Giulio. La figlia Susanna, che aveva sedici anni quando lei. L’altra figlia, Teresa, di undici.
Poi parenti vari, amici e vicini. Conoscenti, parenti dei conoscenti, amici degli amici.
Qualche giornaletto locale ha fatto alcune ipotesi, nei mesi successivi a. Sono anche finiti in tribunale per certi articoli decisamente pretenziosi. Giulio sembrava impazzito. Inveiva contro tutti, non lasciava uscire le figlie, non rispondeva più al telefono. Vivi ma invisibili. Per molti anni, dopo la sua morte, le parole hanno rotolato tra muri e vestiti. Frasi sospese, incomprensibili.
E se lei avesse anche solo immaginato scene del genere, chissà. Magari avrebbe rinunciato. O posticipato. Forse no, però. Susanna se n’è andata, vive con un tizio francese oltre il confine e fa la commessa.
Giulio è tornato al paese dei suoi, verso le montagne. Non che lì le chiacchiere siano meno. Tutt’altro. Però i ricordi sono diversi. Parlano di un bambino e di una famiglia ‘finita bene’ (i genitori di Giulio si sono spenti l’anno scorso, di vecchiaia, uno dopo l’altro col sorriso sulle labbra).
Solo Teresa è rimasta. Non ha voluto vendere l’appartamento. Ci vive sola, adesso. Con due gattone rossicce. Però certe notti ancora si sveglia. E lo sente, il suono del telefono. Non che dovrebbe ricordarlo, non c’era. Però era lei che telefonava a casa, cercando sua madre. Era lei che ascoltava gli squilli di rimando immaginandola fuori o sotto la doccia. Solo che non aveva azzeccato nessuna previsione. Lei c’era, in casa. Ma era sdraiata sul letto, coperta di sangue.
Così torna, quel suono che dopo ha immaginato rimbombare per la casa vuota. Teresa si è vista spesso dentro la scena. Come se avesse in mano una telecamera e potesse girare riprendendo le stanze silenziose. Cercando mentre il telefono continuava a lamentarsi in sottofondo.
E ogni volta la scena si interrompe alcuni secondi prima di inquadrare la camera da letto. Vede gli stipiti. Il marmo sbiadito dell’ingresso. Un angolo del comodino.
Non c’era un altro, dopo tanti anni lo saprebbe.
Non aveva vizi particolari, non mortali almeno (qualche sigaretta al giorno non rientra di certo nella categoria).
Non c’erano debiti o prestiti in ballo, anche quello saprebbe ormai. I creditori se ne fregano della morte, riscuotono dai vivi.
Non prendeva medicine particolari.
Quando Teresa si sveglia, tra i suoi gatti addormentati e la stanza scura pensa. Ricostruisce.
Ma ogni volta non è abbastanza. Non è mai abbastanza quando l’unico tassello che manca è proprio quello che non esiste più. Se n’è andato con lei, è rimasto impigliato tra le le sue labbra sottili, screpolate.
Quelle volte
24 novembre 2008
Quelle volte,
quando il cielo si fa strano
quando l’aria si intiepidisce
e li sento sulla pelle,
gli odori del tempo che fugge, si rintana.
Quelle volte,
se sto aspettando
ma non so chi o cosa
allora la pioggia e il vento mi rassicurano
e fissandoli ti sento, forse ci sei.
Quelle volte
che sembro una fine porcellana
scricchiolo e mi sbecco a ogni passo
poi mi rialzo
ma non serve, tremo.
Quelle volte
forse è solo la bocca secca,
il cuore matto e la pelle ruvida, cadente
forse è così che sono,
e dentro, dove neanche io arrivo
so che non c’è posto per le costruzioni.
L’autunno è quelle volte,
conosce i segreti e li sussurra,
sa come spiegarti
che anche io.
[versi pubblicato su PB il giorno del mio trentesimo compleanno]
Il giorno che
15 novembre 2008
Ed era normale, giusto così.
Per quelle-robe-lì di sentimenti tu non c’eri mai, ti veniva l’orticaria, la lingua si arrotolava e sudavi.
Io lo sapevo, ormai ti avevo vomitato addosso tutta la mia rabbia ma non era servito, tu non ti scalfivi mai. Eri come il granito. Non ti potevo spostare, non riuscivo a graffiarti.
E c’era un bel sole, caldo, lungo l’autostrada.
Mentre realizzavo.
Dentro le macchine le facce erano annoiate, stanche. Si tornava.
Ma io no, capivo in quel momento che.
Tu, davanti a me, stringevi un altro volante e magari pensavi alla prossima partita in tv.
L’autunno sarebbe arrivato presto.
Il solito stronzo
17 ottobre 2008
Non ti affezionare.
Lo hai pronunciato lentamente, convinto.
Lei ti ha fissato con gli occhi sbarrati, deformati dal sesso appena consumato e l’alcool ancora sul comodino.
Ma non aveva capito.
Infatti si è abbandonata a un lungo sbadiglio senza muoversi dal cuscino.
Lo hai ripetuto, sempre più deciso. Ruvido.
Non ti affezionare, è meglio.
E lì qualcosa dev’essere scattato perchè si è alzata provocando singhiozzi al materasso, e ti ha dato del ‘solito stronzo’. Ma non aveva ancora realizzato che non ti riferivi ai giochetti che facevate. Per niente.
Era solo una faccenda di odori, suoni e umori. Qualcosa di terribilmente stuzzicante, piacevole. Solo che da lì non doveva muoversi. E non era tanto per quella casa che ti aspettava, coi giocattoli sparsi e l’odore di mangiare a ogni ora. Era per te.
Non te lo potevi concedere.
Un altro sentimento.
Altro come ennesimo, perché, in ordine di tempo, negli ultimi dieci anni ti eri innamorato quattro volte, sposato (una) e avuto due figlie.
Eppure mancava sempre qualcosa.
I buchi c’erano, non si potevano ignorare, mutavano nelle forme ma non smettevano di rosicchiarti la carne, le ossa, il cuore.
Per questo giocavi. Ricostruivi quello che non provavi più da troppo tempo. Ricreavi atmosfere, percezioni. Brividi. Non era premeditato, fare ‘il solito stronzo’, tutt’al più c’eri diventato. Per non cadere, per non finire ancora nella rete marcia delle illusioni. Quel ‘non ti affezionare’ ti era scappato, scivolato tra le labbra gonfie ma era per te solo, in realtà, che lo avevi pronunciato.
Come se bastasse quello, il tirartelo fuori dalle viscere, per renderti immune.
Hai sentito il rubinetto che si apriva, il gorgoglio della vasca che si riempiva lentamente e non hai resistito. Ti sei alzato e l’hai raggiunta. Così com’eri. Ancora nudo, sudato.
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Foto e testo di Bg.