Ho sbagliato tutto

30 novembre 2008

Ieri sera ti ascoltavo parlare e realizzavo per l’ennesima volta quanto siamo diversi.
Non me lo ricordavo, in fondo ormai ci si vede quando capita. Un mese si e tre no.
Allora con questo caldo che strozza anche dopo cena, mi sono concesso il lusso di ascoltare e basta. I rumori della strada, bambinelli frignoni che non ne vogliono sapere di starsene fermi sui passeggini (o quelle robe lì), i ragazzi in bicicletta rigorosamente in short (qui ho sbirciato) che cinguettano di nulla.
Mai uscire coi vecchi amici nelle serate estive dominate dall’afa malata della padania. Anzi no. Ho già cambiato idea. Uscire va anche bene (dipende da chi resta in casa) è il ritrovare gente quasi persa di vista che se si può, conviene evitare.
Comunque è andata così. Io e te siamo diversi. Punto.
Allora come abbiamo fatto a diventare inseparabili?
Va bene, te lo concedo. Eravamo giovani e fessacchiotti. Tu, con quella specie di bandana che sembravi un cartone animato e io con le solite fisse. Magari eravamo solo temporaneamente complementari.
Comunque ieri sera ti ho guardato per bene. Quand’è che ti sei inscurito i capelli? No, ti dico che sono sicuro. Mica ce li avevi così, anni fa. Non ti consiglio di ribattere. Il massimo che ho cambiato io è la dimensione della pancia (lievitata, mi pare ovvio).
Poi cavoli.
Quel tuo salutare tutti, per strada, al bar, nel tragitto verso le macchine.
Mi sa che sono io.
Quello che non è cambiato per niente. Diciamo poco, allora.
E a vederti, ieri sera, mi sa anche che ho sbagliato tutto.


Aspetta

27 novembre 2008

Ti sei voltata quasi per caso.
Seduta sul letto, al buio, sei capace di passarci le ore. Senza fare niente. Stai lì, acciambellata sulle coperte aggrovigliate e aspetti.
Ma quella volta là, è stato diverso.
Ti sei sentita, diversa.
Il corridoio era sempre il solito quadrato di pelle che con le porte chiuse sembra uno sgabuzzino finito lì per caso. Solo che stavolta avevi lasciato la porta della camera aperta, le altre no.
Allora ti sei voltata.
Nessun rumore, forse un clacson molto in lontananza verso la provinciale.
Eppure più lo fissavi, quel corridoio fatto di spigoli legnosi e marmo, più ne eri attirata.
Certi spazi hanno sentimenti, ti sei ricordata all’improvviso. Lo diceva tua nonna, quando già aveva gli occhi semi ciechi e le mani tremanti, un frullatore perennemente acceso.
Certi spazi hanno sentimenti.
Hai inarcato la schiena spostando il bacino. C’era solo buio denso, fitto. Lo sapevi che era tutto lì, quello che i tuoi poveri occhi miopi potevano vedere.
Eppure continuavi, insistevi.
Silenzio. Buio. Una leggera brezza che si infilava attraverso la fessura degli scuri accostati.
E’ stato allora che è successo.
L’oscurità si è mossa, ne hai visto i riflessi. Appena un attimo poi più nulla. Alcuni minuti poi di nuovo. Per la prima volta in quel corridoio il nero diventava materia, solidificava armoniosamente.
Non ti sei mossa perché ti sembrava giusto così.
I corridoi bui, di notte, diventano qualcos’altro, in quel momento questa nuova certezza ti ha riempito le narici, inumidito gli occhi.
Si modificano per recuperare quei canali che il giorno annulla. I rumori, gli orari, e le parole. Tutto li sovrasta. Ma la notte no.
Specie in un piccolo appartamento senza finestre con un’unica inquilina che dopo l’una spegne le luci ma non dorme. Aspetta.

Testo, foto e rielaborazione di Bg

Quelle volte

24 novembre 2008

Quelle volte,
quando il cielo si fa strano
quando l’aria si intiepidisce
e li sento sulla pelle,
gli odori del tempo che fugge, si rintana.

Quelle volte,
se sto aspettando
ma non so chi o cosa
allora la pioggia e il vento mi rassicurano
e fissandoli ti sento, forse ci sei.

Quelle volte
che sembro una fine porcellana
scricchiolo e mi sbecco a ogni passo
poi mi rialzo
ma non serve, tremo.

Quelle volte
forse è solo la bocca secca,
il cuore matto e la pelle ruvida, cadente
forse è così che sono,
e dentro, dove neanche io arrivo
so che non c’è posto per le costruzioni.

L’autunno è quelle volte,
conosce i segreti e li sussurra,
sa come spiegarti
che anche io.

[versi pubblicato su PB il giorno del mio trentesimo compleanno]

Trattieni il cellulare, lo culli nel palmo poi componi il suo numero, ancora lo ricordi a memoria e non ti impressioni, lo fai e basta.
Sette squilli vuoti.
Poi altri cinque.
Finché la sua voce affannata mormora un ‘si?’ che ti sta lanciando onde anomale precise, nel modo, con un tono in bilico tra lo stupito e l’irritato. Ma tu non ci fai caso, non puoi, provi a iniziare il discorso che in testa sta assumendo forme precise, sempre più pressanti. Ho bisogno di parlarti, vuoi dirgli, è successa una cosa che. Ma non ti da il tempo di finire. Prende a discutere da solo, lancia frasi del tipo ‘guardi è un brutto momento, poi sa oggi è domenica e sono a casa, non avrò la lista aggiornata dei campioni fino a domattina, diciamo verso le undici, le può andare bene?’. Unica sorsata pronunciata senza prendere fiato, monologo senza pubblico. Ti sta lanciando un messaggio cifrato, un codice nuovo, ma tu lo ignori. Non lo hai mai chiamato. In più di un anno solo la volta che sei stata male, una maledettissima volta in quanto? Quattordici, diciotto mesi? Ah no, ti sei contraddetta, c’è stato anche un altro precedente ma non per colpa tua: quando il cuginetto ha pensato bene di avvisarlo che sembravi in trance o roba simile e gli avevi invaso la casa nuova. Ma non è la stessa cosa, pensi. Diciamo una volta e mezzo, concludi, e sei così arrabbiata che non puoi chiudere la comunicazione e basta. Devi urlarglielo che è urgente, che hai bisogno di parlargli di cose serie, che non te ne frega un cazzo se si sta scopando la mogliettina o se fa jogging, devi vederlo oggi stesso. Percepisci il suo imbarazzo, forse sta simulando facce assorte, finge di ascoltare le repliche di un collega inamidato, o magari si guarda in giro in cerca di un posto appartato dove infilarsi e nel frattempo sorride a Ginevra.
Facciamo così, vedo se posso liberarmi per due ore oggi pomeriggio, capisco l’urgenza di cui parla, i nuovi prodotti sono sempre una grana, lo diciamo tutte le volte ma poi non ne possiamo fare a meno.
E ride.
Ti sta ridendo in faccia per inscenare una specie di battuta.
E tu lì come una disperata a urlare a un telefonino nel bel mezzo di una cucina deserta alle otto di mattina.
Spingi il pulsante rosso, fine della conversazione.
Pat non ha tempo per te, non quando ne hai un bisogno inspiegabile, un’urgenza da farti piangere e battere i pugni contro al muro.
[…]
Una fottutissima e bastarda volta. Una sola, è tutto quello che gli hai chiesto. L’hai praticamente implorato, ti sei zerbinata più che hai potuto rompendo il patto, lo hai chiamato, stavi per chiedergli ma niente. Vuoto. Fermo immagine. Silenzio.
E’ in questo preciso momento che inizi a capire.

E ogni volta

18 novembre 2008


E ogni volta che mi perdo

dimentico cosa sono,
ignoro le urla (le mie),
mi lascio appesantire dai doveri,
mi trastullo tra paure, silenzi e pianti.

E ogni volta che me ne accorgo
non so cosa fare.

Barbara