Verminsetti

20 aprile 2009

Facevi la ricercatrice e ti piaceva, si vedeva da come ti muovevi fluida, sicura di te. Il camice poi ti donava. Eri una bella donna, niente da dire. Slanciata, curata e dal sorriso facile.
Lavoravi in un laboratorio sperimentale, praticamente ci vivevi.
Cercavi una certa proteina negli insetti ma anche tra i vermi, usavi spesso paroloni come ‘platelminti’ e ‘ nematodi’ ma, comunque te la rigiravi, erano stramaledetti vermi viscidi, umidicci e poco inclini alla compagnia. Eri circondata da cubi di vetro straripanti di varietà tenute in vita finché il bisturi e la chimica li reclamavano.
Ti piaceva quello che facevi, avevi le ‘manine d’oro’ come sussurravano i colleghi, prima di ridacchiare tra loro.
Ma il grande capo no, a lui non piacevi.
Ti riceveva nel suo ufficio quasi ogni giorno e accendeva un disco, sempre lo stesso, ripetitivo e stagnante. Eri la sua bambina cattiva, non c’era modo di evitarlo, eri l’elemento disturbante da schiacciare, il tuo ronzare lo infastidiva. Allora ti metteva in un angolo per riempirti di parole inconsistenti, cave ma che aprivano nuove ferite, scavavano tra carne e sangue fluido.

Un giorno, uscendo, hai deciso.
Pochi istanti e avevi la soluzione in mano, tra la pelle.
Se non eri abbastanza brava, all’altezza come si dice, se non ci arrivavi ragionando, studiando, sezionando. Se da sola non eri abbastanza.
Avresti ottenuto l’unico aiuto che nessun altro era disposto a chiedere.
Quello di insetti e vermi.
Ne hai liberati alcuni, piano, con cautela. Loro ti amavano già, lo sentivi da come volavano e strisciavano corteggiandoti. Ti sei spogliata lasciando che il tuo corpo si mostrasse, hai chiuso gli occhi e sei rimasta in piedi, immobile e vuota.
Le zampette erano fresche, molli, sulla tua pelle tiepida. Li hai sentiti scivolare, camminarti sopra e non pensavi a niente. Stavi stringendo un patto, non ti serviva altro.
Ti sono entrati dentro senza fretta, ognuno seguendo una strada diversa, sul tuo corpo dolente, abbandonato.

Seduta nel solito ufficio ti sentivi stranamente calma, galleggiavi insieme ai tuoi verminsetti. Il capo, il Professore, neanche ti ha guardata, impegnato a leggere mucchi di scartoffie.
E hai lasciato che parlasse come sempre. Nuvole, fumo, coas inutile, ti divertiva sentire il suono stridulo della sua voce. Finalmente era solo un uomo qualunque, che per sopravvivere usava gli altri come pavimento.
Quando ti sei alzata l’occhio destro ti sanguinava, erano loro, i verminsetti che lavoravano su di te. Per te. Il Professore era ammutolito, ti ha lasciata fare perché anche lui aveva capito chi eri. Silenzio, lo ricordi com’era tesa l’aria, elettrica?
Ti sei avvicinata alla lavagna nera, enorme roccaforte del potere, e hai iniziato ad incidere simboli, legami chimici, linee varie. Ormai i vestiti si muovevano da soli, i verminsetti correvano su di te, entravano e uscivano ipnotizzati dalla tua perfezione.
Eri soddisfatta. Ti sentivi bene, eterea.
Allora perché? Te lo sei mai chiesta dopo, in quel brevissimo attimo prima che?

Nessuno è venuto a cercarti.
Sei entrata in uno dei piccoli laboratori per studenti, dopo le cinque quelle stanze asettiche diventavano il regno delle creature non umane. E tu te ne stavi lì seduta, inebetita e piena, in preda a un’indigestione infinita.
Finché l’hai visto.
Non potevi non notarlo, ti è uscito dai pantaloni.
Lungo e liscio, almeno quanto un braccio. Un tronco sottile ma ben formato, occhietti brillanti, inespressivi.
L’hai chiamato per nome, ma non te ne sei preoccupata. Lo sapevi e basta. Lo accarezzavi e dentro di te cresceva una nuova sicurezza. Sapevi e potevi, il resto – il mondo – era un’inutile miniatura. Non avevi bisogno dell’approvazione del Professore, delle risate dei colleghi, del camice.
Ti bastavano loro, piccoli e indifesi eppure solidi, secoli di esperienze e sopravvivenze mute. I loro corpi molli, gusci sottili, erano il tuo. I loro sensi confusi, deformati, e quel modo di vedere da lontano, tutto ti apparteneva ormai.

La puzza all’improvviso ti ha svegliata. Sangue marcio, fluido lungo la gola, sul petto.
Il verminsetto enorme ti si era attaccato alla gola e stringeva.
Hai urlato, sentivi le ossa stridere, cartilagini pronte a cedere.
Avevi paura.
Per la prima volta ti sei vista esattamente – tristemente – per quella che eri.
Avevi trasformato il tuo sapere, ti eri plasmata nel corpo, accettando le intrusioni, abbandonandoti a una condizione da ospite. Tutto senza chiedere, lasciandoli fare, accogliendoli come vecchi amanti mai dimenticati.
E a loro interessavi tu, certo, ti volevano fino alla fine.
Ma in quella fine, in quel morso che ti stringeva la gola mentre sentivi i piccoli denti appuntiti, in quella stretta c’era il sapore amarognolo, legnoso, della sconfitta.

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Racconto apparso su Fogli bianchi.

Da QUESTO post di Satisfiction, è stato lanciato un piccolo gioco con gli incipit, supervisionato da Giulia Belloni.

Assieme a Paolo Zardi (che riprende anche lui l’esperimento QUI) ne è uscita quasi una micro-novel.

Riporto di seguito gli incipit ‘intrecciati’ (ma ce ne sono altri altri ormai, indipendente e interessanti) senza nome dell’autore, se siete curiosi potete sempre cercare gli originali sul post di Satisfiction:

1.
c’era questa musica assordante e la solita umidità notturna. sapevo che lì ero fuori posto, ridicola nel mio vestito a fiori, lungo oltre le ginocchia. e poi tutta quella gente sudata che si muoveva a ritmo mi dava fastidio. allora sono uscita e ho voltato l’angolo. degli arbusti bassi mi impedivano il passaggio, li ho scavalcati a gambe aperte. all’improvviso avevo fretta, ho cominciato a camminare più veloce, come se qualcuno mi seguisse. i muri della vecchia villa erano ruvidi, mi sono fermata e ci ho appoggiato la schiena, ad occhi chiusi. è stato allora che ho sentito un rumore e intravisto la sagoma di un ragazzo, era seduto lì per terra, a gambe incorociate, accanto a me. nonostante la sua presenza, l’oscurità e la campagna mi stavano calmando: mi sentivo meglio, laggiù.
– Si è tagliata, signorina.
Un intenso odore di sapone aleggiava, poi ho sentito una mano, calda, che mi risaliva oltre il polpaccio, verso le coscia. ho abbassato il mento, ma non ho preso il fazzoletto che lui mi allungava con l’altra mano, quella libera. sono rimasta immobile, non mi sono mossa.

2.
L’avevo detto al mio amico che lì non si cuccava. Gente vecchia, gente che ha smesso di pensare al sesso negli anni ottanta, roba da museo – da museo delle cere, intendo. Così ho preso la mia giacca, e sono uscito – davanti alla porta ho trovato una bottiglia di gin, su un tavolino, e ho preso anche quella. Fuori, si stava già meglio: luna piena, praticello, qualche pianta, il rumore della musica da distante. Ok, ho pensato, questa sera mi sbronzo, e va bene così: mi sono seduto a gambe incrociate, e mi sono ciucciato il mio gin, come avessi tutta la notte davanti per finirlo.
Dopo un’ora è arrivata una ragazza con un bellissimo vestito a fiori – appena li ho visti, ho pensato alla tomba di mia nonna, e mi è venuto da ridere; poi, invece, a un roseto di quando ero bambino, che a settembre lasciava giù tutti i suoi petali. Doveva aver scavalcato il muretto, quella ragazza, sennò era un fantasma, o io ero troppo ubriaco. Carina, ho pensato. Si è appoggiata al muro della villa, con gli occhi chiusi. Un soffio d’aria mi ha gelato la schiena. Sta arrivando l’autunno, mi sono detto, domani è settembre. E’ lì che mi è venuta voglia di cogliere quei fiori.

3.
Era tutta la sera che lui si faceva sotto – “ti porto da bere?”, “balli con me?”, “da chi hai ereditato quel sorriso?” – ma lei proprio non ne voleva sapere. Pensava ad altro – ad un concorso che stava preparando, e che si stava avvicinando senza che lei trovasse la voglia di studiare; al piccolo incidente che le era capitato quella mattina, parcheggiando, e alle urla del proprietario dell’auto che aveva ammaccato. E poi, non le era mai piaciuto ballare. Ma soprattutto, pensava ad altro in generale – così, quando l’aveva visto avvicinarsi ancora una volta, con quel sorriso pieno di intenzioni, si era fatta strada tra la gente, fino ad arrivare ad una finestra che dava sul giardino, immerso nel silenzio, pieno di odori. Gli occhi, piano piano, si abituarono a quell’oscurità: un po’ alla volta riconobbe la sagoma di un albero (secolare, di sicuro, pensò), il bordo di un muretto, qualche siepe. C’era anche qualcosa che assomigliava ad un ragazzo – pareva seduto sul prato a far niente. Poi si accorse di una figura chiara, appoggiata al muro. Un vestitino a fiori, lungo. E lui che si avvicinava a lei, lentamente. Per un attimo ebbe il timore che stesse succedendo qualcosa di terribile – e stava già per gridare, quando capì che non c’era nulla da temere. Rimase alla finestra ancora un po’ – forse dieci minuti. Poi, con un brivido lungo la schiena per una sottile brezza che annunciava l’autunno, tornò verso la sala, e quando incrociò gli occhi di lui, non pensò più ad altro.

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14/07/2008

Niente

1 marzo 2009

Non ho voglia di niente.
Il caffè è opaco, denso. La televisione non la capisco. Il divano è scomodo e io ho male da qualche parte, non so dove e neanche ci voglio pensare.
Esco.
In macchina la radio mi invade di parole poi note e ancora parole, ritornelli, messaggi promozionali cantati con vocette innaturali.
Guido piano, non voglio fare rumore ma ho anche fretta. Dove vado?
Timbro il cartellino poi lo stringo, fisso la fila di cartoncini, poi il metallo lucido del rivestimento, e l’enorme orologio sul basamento. E’ bianco e nero. Insipido. Io sono da qualche parte, cerco un posto vuoto e quando lo vedo continuo a fissarlo. Adesso lo so, cos’è che mi fa male. Sono gli occhi. Bruciano, devono essere arrossati.
Mi fermo davanti all’armadietto, ci infilo il cartellino che scivola sul fondo, la borsa con dentro tutta la mia vita (chiavi, portafoglio, foto, lucidalabbra, pillole magiche anti qualcosa, assorbenti). Aggancio la giacca e richiudo l’anta che cigola, oltre il muro i rumori dei macchinari mi proteggono.
Apro la piccola porta, la stessa che mi ha fatto entrare poco fa. Me la chiudo alle spalle e mi lascio avvolgere dall’aria fredda. Fisso solo il cemento della strada, lo seguo nelle sue infinite scanalature sconnesse.
Mio nonno diceva ‘se hai voglia di ridere, fallo, ma fallo con gusto’ e io mi stropicciavo il vestitino da bambola che mi aveva infilato mia madre, lo sgualcivo apposta mentre ascoltavo seria poi ridacchiavo solo per vedergli fare la stessa cosa.
Ho capito solo dopo, molto dopo, cosa intendeva.
Allora oggi aggiungo un pezzo alla filastrocca.
Sei hai voglia di piangere fregatene e lasciati andare.
Vomitare melma aiuta a liberare quello che dentro preme, rosicchia e apre vuoti. Fa male (mi stupirei del contrario) ma non lo si può evitare.
Dunque cammino e piango, in realtà passeggio, la mia è più un’andatura irregolare, trascinata.
Non ho voglia di niente.

Foto di Bg

Tempo per

8 febbraio 2009

Rivoglio il profumo dell’autunno.

Rivoglio il tempo per annusare l’aria, ascoltare le campagne che si addormentano poi sussurrano.

Rivoglio quel piccolo spazio, cassetto vuoto, per rinchiuderci il freddo pungente che ancora si sopporta, che raggiunge la punta delle dita ma non lo stomaco.

Rivoglio il silenzio, quel tipo di silenzio che non è attesa, tanto meno groviglio. Rivoglio l’ascolto della terra, del mio esserci dentro mentre l’umido mi fa lacrimare e le nebbie si preparano a ricoprire tutto.

Rivoglio quel senso di pace e totale inutilità di esserci senza chiedersi niente, senza aspettative o progetti incompiuti. Senza pendenze a pesare sulla testa piena. Senza intestini in agitazione, delusioni aggrappate alle caviglie e vuoti sparsi tra i tendini.

Rivoglio l’incompiutezza di un tempo che era eppure non esisteva, mi scivolava addosso in quei tramonti di fine settembre, coi rumori lontani e un cielo enorme davanti, pronto a mescolarsi.

Rivoglio l’illusione di avere ancora tanto – tantissimo – tempo per.

Tassello

7 gennaio 2009

Per molti anni, dopo la sua morte, se lo sono chiesto.
Più o meno tutti in realtà.
Il compagno, Giulio. La figlia Susanna, che aveva sedici anni quando lei. L’altra figlia, Teresa, di undici.
Poi parenti vari, amici e vicini. Conoscenti, parenti dei conoscenti, amici degli amici.
Qualche giornaletto locale ha fatto alcune ipotesi, nei mesi successivi a. Sono anche finiti in tribunale per certi articoli decisamente pretenziosi. Giulio sembrava impazzito. Inveiva contro tutti, non lasciava uscire le figlie, non rispondeva più al telefono. Vivi ma invisibili.

Per molti anni, dopo la sua morte, le parole hanno rotolato tra muri e vestiti. Frasi sospese, incomprensibili.
E se lei avesse anche solo immaginato scene del genere, chissà. Magari avrebbe rinunciato. O posticipato. Forse no, però.

Susanna se n’è andata, vive con un tizio francese oltre il confine e fa la commessa.
Giulio è tornato al paese dei suoi, verso le montagne. Non che lì le chiacchiere siano meno. Tutt’altro. Però i ricordi sono diversi. Parlano di un bambino e di una famiglia ‘finita bene’ (i genitori di Giulio si sono spenti l’anno scorso, di vecchiaia, uno dopo l’altro col sorriso sulle labbra).
Solo Teresa è rimasta. Non ha voluto vendere l’appartamento. Ci vive sola, adesso. Con due gattone rossicce.

Però certe notti ancora si sveglia. E lo sente, il suono del telefono. Non che dovrebbe ricordarlo, non c’era. Però era lei che telefonava a casa, cercando sua madre. Era lei che ascoltava gli squilli di rimando immaginandola fuori o sotto la doccia. Solo che non aveva azzeccato nessuna previsione. Lei c’era, in casa. Ma era sdraiata sul letto, coperta di sangue.
Così torna, quel suono che dopo ha immaginato rimbombare per la casa vuota. Teresa si è vista spesso dentro la scena. Come se avesse in mano una telecamera e potesse girare riprendendo le stanze silenziose. Cercando mentre il telefono continuava a lamentarsi in sottofondo.
E ogni volta la scena si interrompe alcuni secondi prima di inquadrare la camera da letto. Vede gli stipiti. Il marmo sbiadito dell’ingresso. Un angolo del comodino.

Non c’era un altro, dopo tanti anni lo saprebbe.
Non aveva vizi particolari, non mortali almeno (qualche sigaretta al giorno non rientra di certo nella categoria).
Non c’erano debiti o prestiti in ballo, anche quello saprebbe ormai. I creditori se ne fregano della morte, riscuotono dai vivi.
Non prendeva medicine particolari.

Quando Teresa si sveglia, tra i suoi gatti addormentati e la stanza scura pensa. Ricostruisce.
Ma ogni volta non è abbastanza. Non è mai abbastanza quando l’unico tassello che manca è proprio quello che non esiste più. Se n’è andato con lei, è rimasto impigliato tra le le sue labbra sottili, screpolate.

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