Quelle volte

24 novembre 2008

Quelle volte,
quando il cielo si fa strano
quando l’aria si intiepidisce
e li sento sulla pelle,
gli odori del tempo che fugge, si rintana.

Quelle volte,
se sto aspettando
ma non so chi o cosa
allora la pioggia e il vento mi rassicurano
e fissandoli ti sento, forse ci sei.

Quelle volte
che sembro una fine porcellana
scricchiolo e mi sbecco a ogni passo
poi mi rialzo
ma non serve, tremo.

Quelle volte
forse è solo la bocca secca,
il cuore matto e la pelle ruvida, cadente
forse è così che sono,
e dentro, dove neanche io arrivo
so che non c’è posto per le costruzioni.

L’autunno è quelle volte,
conosce i segreti e li sussurra,
sa come spiegarti
che anche io.

[versi pubblicato su PB il giorno del mio trentesimo compleanno]

Noi due, mi mancava quello che avevamo, che eravamo.
E in certe notti solitarie, mentre fuori pioveva o il vento muoveva i rami degli alberi vicino alle finestre, mi concentravo. Tentavo in tutti i modi di ricordare e non ci riuscivo mai. Potevo anche essermelo immaginato. Quello che eravamo. Poteva anche averlo costruito, tutto da sola, idealizzando gesti o parole.
E se non fosse mai esisto quel ‘noi’?
Se.
Aspettavo, cercavo e chiamavo una condizione inesistente, immaginaria.
Allora – forse – ero io che avevo spostato traiettoria, angolazione o quello che volete.
Avevo la testa immersa in un liquido molliccio e denso. Caos bavoso, lava in movimento.
E continuava a sentirmi scricchiolare le ossa, lo stomaco, la testa.
Se c’era stato, oppure no, mi mancava comunque.
E non volevo vivere così.
Con un ‘vicino’ che non mi ascoltava, che rimaneva sempre e comunque un’entità autonoma e indipendente da me. E io lo stesso.
Non sapevo quasi niente.
A parte che avrei dato i miei, di polmoni, per salvare mio figlio.
E che non volevo più sentirmi mortalmente sola.
Mortalmente come se fossi condannata a vivere in quel modo per sempre, come se nulla potesse più cambiare dentro e attorno a me.
Mortalmente era una sentenza che non ammetteva deroghe o sconti. Acido puro che bruciava le mie ferite senza curarle, aprendole sempre di più, centimetro dopo centimetro.
Io, invece, cercavo un’offerta promozionale. Un ‘tre per due’ per l’esattezza.
Mi stavo scoprendo sarcastica.


——————–
Bozza imperfetta, stridente scritta il 20/9/08 ore 21.30. Corpo cavo.

T.b.di Barbara Gozzi

17 settembre 2008

Ricordo una bambina che guardava fuori dal finestrino.
Era buio. Tutta la famiglia si era infilata in macchina dopo cena, salutando i nonni. Tratta stradale: Ferrara – provincia di Modena. Capitava che la domenica diventasse un transito: partenza in tarda mattina tra schiamazzi e borbottii, ritorno notturno e silenzioso.
Ricordo che l’abitacolo la rassicurava, quella bambina che fissava insistentemente il paesaggio indistinguibile. Campagne. Tetti. Alberi e macchie. Qualche luce lontana.
Ci pensi mai alla morte, mamma?
Ricordo le parole esatte. Perfino il tono, frettoloso ma deciso, che è uscito dalla bocca della bambina.
Poi il caos. La madre col volto arrossato, balbettante sbirciava il padre alla guida. I fratelli ridacchiavano tra loro e la radio in sottofondo, a coprire una risposta che non è mai arrivata.
Quella bambina ero io, ormai vent’anni fa.
E da allora il mio rapporto con la morte è cambiato, da individuo quanto, da alcuni anni, anche da genitore.

Allora queste righe strane, storte direi, tentano di lasciare una traccia precisa.

Della morte ho paura, mi confonde, la temo e la rincorro, la vedo attorno a me e spesso mi sento accarezzata.

Ma non vorrei mai – davvero mai – allontanarla. Scansarla. Ignorarla o peggio. Lasciarmi sospesa, come se potessi (e dovessi) aspettarmi l’eternità.

No. La morte scandisce il tempo. Ci restituisce una precisa dimensione, di creature fragili che vivendo possono fare e disfare in continuazione. La morte è ‘l’ ‘incognita che sottolinea la forza del tutto che ci circonda. Colori, sapori, umori, moti, gesti, suoni e.

Allora io chiedo di poter morire senza che il mio corpo diventi un mero contenitore freddo. Non accanitevi su un involucro che non ha colpe, è progettato per deteriorarsi, non conosce l’eternità.

Ma chiedo anche di non essere lasciata sola. Chiedo, a chi mi vuole bene, di non voltare la faccia, di non fuggire né di delegare. Chiedo di essere accompagnata nell’unico modo possibile: rimanendomi vicino. Il gesto, lo so, può sembrare inutile forse addirittura insensato. Ma non lo è.

E mi rendo conto, di essere egoista. Di ‘pretendere’ qualcosa di doloroso, difficilissimo. Lo so.

Ma la voglio urlare questa, come la precedente, dichiarazione perché nella morte abbiamo bisogno di comprensione, appoggio. Di poterci aggrappare mentre ci lasciamo andare. I viventi la dovrebbero sfiorare (la morte) e il morente sentire, quella carezza lieve, magari distante, offuscata.

Spero che il silenzio non mi separi anzitempo dalle persone amate, tutte, senza distinzioni di gradi o legami. Vorrei sapermi rispettata nel corpo quanto nella mente. E mi auguro, chiedo, che il transito venga legittimato, capito e accettato.

Chiamatelo pure testamento biologico allora.

Ma è anche un impegno preciso che prendo ora, qui, adesso. Giovedì 11 Settembre 2008, una giornata qualunque, quella in cui ho deciso consapevolmente di espormi.

Amore, rispetto e vicinanza. Anche attraverso la morte.

——————
Testamento biologico pubblicato su Vibrisse e Primo amore.

Consiglio la lettura dei commenti su Vibrisse che ampliano l’orizzonte, propongono un dibattito.

Consapevolezza pericolosa

15 settembre 2008

– Hai letto l’altro ieri di quella bambina che…
– Ma lascia perdere per favore, mi fai venire mal di stomaco la mattina presto!
– Come siamo delicatucci…

– Era solo per dire che col sesso si va ormai ovunque…
– Sai che novità.
– Intendevo già a dieci, dodici anni. Sanno come fare e non si fanno troppi problemi.
– Infatti siamo proprio alla frutta.
– Se lo dici tu.
– Perché, a te sembra normale? Che una ‘bambina’, perché cavolo, se non sei bambina a dodici anni cosa sei? Comunque, a quell’età lì, che magari manco hai le mestruazioni, eppure già sai come muovere il corpo, come giocare con la sessualità…
– Non è che ci voglia poi una laurea.
– Noi a quell’età lì forse avevamo qualche vago pensiero, facevamo gli asini se vuoi, ma eravamo anni luce da queste robe qui, dai, ammettilo!
– No, infatti.
– Oggi c’è una consapevolezza pericolosa.
– Sarebbe a dire?
– I giovani sanno che possono ottenere quello che vogliono anche se i genitori li ostacolano. Basta usare internet o darla via a pagamento… non è neanche troppo difficile. Usano i cellulari come fossero prolungamenti delle mani per non parlare dei computer…

– Ti pare che a noi veniva in mente di fotografarci proprio lì, per poi vendere gli scatti? E poi con che cosa? Te la immagini la faccia del fotografo, del Ciccio, ad esempio, mentre ci allunga le foto e ci dice il conto? (Risata bassa)

– Allora? Non sei d’accordo?
– No. Cioè, si. E’ vero. Solo.

(silenzio)

Allo specchio

5 settembre 2008

ALLO SPECCHIO (clicca qui per la slideshow)

Lo specchio è rettangolare.
Illuminato da un neon giallastro.

Entra e si spoglia in fretta.
Via
i pantaloni, la camicia color vinaccia e i gambaletti grigiastri. Si ammassano dentro la lavatrice, l’oblò rimane aperto, in attesa.
La luce dello specchio la fa sembrare più colorita, con le dita si allunga la pelle delle guance, l’angolo delle sopracciglia, le labbra. Si guarda con attenzione ma quello che c’è – dall’altra parte – quella sagoma riflessa non le piace.
E non è la giornata lunga, la pioggerella subdola, il fumo o il sudore. E’ proprio lei che non.
Respira piano, quasi rantola. Smette di toccarsi la faccia.
Il beauty è un astuccio nero enorme rivestito di brillantini. Con la mano destra rovista, le è venuta una certa frenesia.
La spazzola passa attraverso le sottili maglie dei capelli lunghi, sono folti e castani con qualche venatura chiara. Li liscia con cura annullandone la piega rimasta miracolosamente in equilibrio per più di dodici ore. Alcune ciocche finiscono davanti agli occhi, le solleticano le ciglia. Inizia proprio da quelle. Le lame sottili delle forbicine scivolano sicure, forti, sente una leggera resistenza mentre conclude il primo taglio ma è uno sbuffo veloce. Prosegue con lo stesso ritmo mentre le lunghezze scivolano come burro fuso sul lavandino. Taglia seguendo una melodia stonata, casuale. Restano spuncioni corti, cespugli radi dall’andamento sconclusionato.
La testa è adesso una palla lucida ricoperta da peluria irregolare, si distingue la pelle candida, timida. Sa di avere il rasoio, da qualche parte, ma non lo cerca.
E’ così che vuole essere. Nuda e imperfetta.
Posa le forbicine sul mobile accanto al lavandino e immerge le dita nel barattolo dello scrub. La crema è fredda, densa e grumosa. Se la plasma attorno al collo, raggiunge ogni spigolo del volto e ricopre la pelle della testa. Interamente fasciata da uno strato abbondante di esfoliante inizia a massaggiarsi. Movimenti piccoli, circolari che strizzano la pelle e le fanno assaporare pieghe e incavi, ruvidità e pori. Inizia così a frizionare più forte, spinge i polpastrelli e affonda nei cerchi immaginari che sta seguendo, sul naso, nella gola, lungo la fronte, attraverso la testa spoglia fino al retro delle orecchie. Si sente friggere, migliaia di pizzicotti invisibili la procurano brividi involontari.

Infila la testa dentro la doccia, afferra il rubinetto dal collo morbido e lo apre con movimenti meccanici. Il getto è bollente, le arrossa la pelle del collo poi tutta la testa che perde il colorito biancastro e l’unto della crema, la schiuma scivola rapida verso lo scolo e lei la fissa con gli occhi semichiusi che bruciano, l’acqua le è finita tra le labbra secche, sta aprendo nuove ferite.
Lo specchio la aspetta. Serio.
Allora recupera le pinzette da un cassetto e avvicina il volto al vetro. E’ un lavoro che richiede tempo e pazienza. Inizia a strapparsi le sopracciglia. Una a una. Ne afferra l’estremità con cura poi tira secca, i gomiti saltellano concentrati.
Gli occhi sembrano più piccoli, adesso, si perdono nelle pianure tortuose quanto morbide. Eppure sono lucidi.

Non sembra più una faccia.
Non sembra più una testa nascosta dietro ornamenti e vezzi faticosi. Le barriere sono sparite, erbacce selvatiche strappate con forza. Via i capelli, il trucco e le cellule morte, perfino le sopracciglia.
E’ diventata un ammasso deforme, splendente. Ci sono angoli, spigoli vivi e distese chiare che seguono le rotondità del cranio. Le gocce d’acqua rimaste sulle spalle si stanno asciugando. Nel bagno c’è caldo, ha alzato il riscaldamento prima di entrare.
Si slaccia il reggiseno poi sfila le mutande. Entrambi finiscono per terra. E lei lì, dritta e immobile.
Eccola finalmente.
Così com’è all’esterno.
Si sorride e la fa stare bene quel movimento dei muscoli facciali. Si sente pronta.
Le forbicine sono ancora sul mobile, silenziose. Le afferra con cautela, lucide e sottili, quasi inconsistenti.
Adesso si, è davvero pronta per la scarnificazione.
Per cercare al suo interno.

C’è questo gusto, di sapone e ferro.
Il neon ammorbidisce i contorni, sul lavandino i dettagli sono nitidi, segnano il tempo, scandiscono lo spazio.
E quel rosso che scende, cola, si mescola a peli e capelli morti, quel rosso la sta liberando dalla schiavitù dello specchio. La svuota.

———————————

> Alcune riflessioni  su Declinate.