Fine

25 gennaio 2010

Mi è capitato spesso, ultimamente, di pensare alla ‘fine’.

Fine di azioni, avvenimenti, legami, affezioni, pensieri, intenti, progetti e così via.
Fi-ne.

Presto, a un evento, dirò che ‘morire ci terrorizza’. Dirò che non è solo la morte intesa come fine, black out improvviso, bensì è quel transito tra la vita e la morte.
La morte è ‘una’ fine.
Anche se poi, non siamo tutti d’accordo sul concetto in sé.
Ma non è questo il punto.
Ogni nascita contiene già la morte. La fine. Non ricordo chi lo disse, in questo momento mi sfugge. In ogni caso, semplicemente, è vero.
Eppure della ‘fine’ abbiamo una paura folle. Si fa veramente di tutto per scacciarla, impedirla, fingere che non esista, che non sia possibile, che non ci toccherà. E vale per le cose quanto le persone, per i fatti quanto i sentimenti.

E’ di certo rassicurante, dolce, facile, seguire una storia dove si entra nella dimensione de ‘l’amore eterno’. O dove si incontrano amici che comunque, tra colpi di scena e capovolgimenti, non si perdono, il legame resta magari più forte e stabile. Poi i mestieri, i talenti. Quanta soddisfazione dà seguire l’escalation di uno sportivo, un creativo, di ‘uno’ che piano piano raggiunge la vetta (vince una gara, diventa attore, ballerino, manager, avvia un’attività redditizia, vende i suoi quadri, entra in una squadra professionista…)? Molta, soddisfazione. Perché se anche finisce la storia (film, serie tv, libro, pubblicità) resta in sospensione, ci volteggia davanti, la non-fine. L’idea, la proiezione, il bisogno, che quel nuovo status durerà. Sempre. Molto. Almeno fino alla morte del protagonista (che è poi la nostra, nell’immedesimazione).

La morte è sicuramente la fine-fine. La regina degli stop. Sebbene, il più dolce dei nettari è quello che ci sbatte direttamente in gola i sentimenti im-mortali, quelli che restano nonostante la caducità carnale, nonostante la morte di almeno uno dei due interessati. A qualcuno deve essere anche capitato di soffocarsi con quel nettare, ma non importa. In fondo, ciò che conta è il volerci credere. Imporsi che esistono quelle cose-lì. Le non-fine. Le circostanze-immortali.
Io credo sia tutta una questione di angolazioni.

Dal momento che ultimamente ho virato, mi sono spostata, inginocchiata, stesa a terra, ruotato il collo, transitato strisciando, correndo, muovendo i piedi lentamente. Dal momento che difficilmente sto dritta, ferma, composta. E’ possibile che il mio ‘sentire’ la fine delle cose, dei pezzi di cose che siamo, dipenda dall’angolazione.
Tutto ha una fine, per me. E il negarlo non ne riduce il ‘male’ che ci fa, che è. Credo anche che ci sono tanti tipi di ‘fine’ e che non necessariamente tutte ci feriscono, stordiscono, svuotano, spezzano, cambiano allo stesso modo. Certe volte la fine di una cosa è anche l’inizio di qualcos’altro, né migliore né peggiore, semplicemente altro. Forse la vita è una sequenza di altro. Altro. Altro-altro. Altro. [AltroAltroAltro]. Non lo so. Però che di ‘fine’ si tratti sempre e comunque, non mi sembra poi così labile, incerto.
La mia bisnonna, attualmente ultra novantenne, ha trascorso sessant’anni assieme a suo marito, il bisnonno che è morto l’estate scorsa. Una di quelle storie etichettabili facilmente in ‘amore eterno’. Può davvero la mia bisnonna definirlo così? Amore. Eterno. Non lo so. Bisognerebbe mettersi d’accordo sui significati, i sensi, dei termini. Stesso discorso per i c.d. ‘legami di sangue’. La fine è la morte degli interessati? Per me no, ma è ovviamente un’opinione soggettiva, parziale.

Quello che davvero non capisco, non mi capacito di come si possa galleggiarci molto sopra, senza un contatto concreto che sia sostanza: è il totale rifiuto. Della fine. Perché la fine delle cose, di ogni cosa, dovrebbe essere così temibile, pericolosa, devastante; al punto da fare il possibile pur di non vederla, sentirla, toccarla, viverla?
La fine arriva comunque. Allora tutto quello che ci si è negati prima, cadute, dolori, crolli, sanguinamenti; tutto arriva a presentare il conto (non sarebbe più onesto insegnarlo?).
Certo, se ci si nega il tocco è un po’ come se non ci fosse mai stato. Certo. Un gioco per sopravvivere. Chissà.
Io sto cercando di smettere, quel gioco.

In trentun anni non toccare ‘la fine’ mi ha trascinata in un’apparenza inutile, che ha schiacciato ciò che sono, corpo compreso, che mi ha ingabbiata lentamente tra finzioni, apparenze, costruzioni e reset a beneficio di altri che però non sono me. E che delle mie fatiche, di dolori, rinunce e annullamenti se ne fregano. Giustamente. Dunque perché non fregarmene anch’io? Di quei modi di considerare, respirare e inserire dentro di me la ‘fine’, ogni fine?

La fine di certe favole, certezze, affezioni, legami ‘dna dipendenti’, gesti, galleggiamenti.

La fine è in tutto. Ovunque. Ogni giorno. Ora sto per finire di scrivere. So che non ho espresso tutto. So che altro vorrei aggiungere. Ma  sto per finire. Punto.

Certe morti, in passato, mi hanno segnato la carne anche perché non ero preparata al loro arrivo, stavo in un’altra posa, vedevo e sentivo da altre angolazioni. Certi sentimenti mi hanno spolpata, per lo stesso motivo, perché mi rifiutavo di considerarne la fine.
Ora no.
(Fanno ancora male, ci sono quei mali lì e ancora-sempre ci saranno. Ma non nego più. Non volto la faccia. Me lo prendo diretto il colpo).

Ora.
Fine.

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[Bg, domenica 24 gennaio, 2010]

Photoshoperò di Francesco Forlani da ‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ di Barbara Gozzi per la performance all’interno dell’evento ‘Corpo di donna: corpo politico e corpo poetico’ che si terrà a Bruxelles il 30/01/2010. Musiche di Frank Lassalle. Citazione Magritte di Georgia.

[Grazie a Francesco e Frank. Bg]


La cronologia delle pubblicazioni on line del progetto ‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ QUI.

Su Nazione Indiana.

Il comunicato stampa dell’evento, in una prima versione in francese.
Il comunicato stampa completo, aggiornato:

Il Club del libro asbl e l’Associazione Gramsci Bruxelles

Presentano

CORPO DI DONNA
CORPO POLITICO & CORPO POETICO

29 e 30 Gennaio 2010
29 Gennaio ore 20,00
Radio Alma FM 101.9 on air

30 Gennaio ore 21,00 Sale
Culturelle Expace Marx

Salle Culturelle Expace Marx
Rue Ruppe 4, 1000 Bruxelles
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‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’
di Barbara Gozzi
e con Francesco Forlani

Il progetto nasce per contrastare cecità e smemoratezze dell’Italia di oggi partendo da un corpo, quello di Eluana Englaro, nodo centrale di fatti recenti, battaglie legali, mediche e massmediatiche.
Eluana Englaro è morta a Udine il 9 febbraio 2009 dopo diciassette anni di vita in stato vegetativo.
Il suo corpo è stato ‘oggetto’ conteso, immagine deformata, capovolta, violata nell’identità, nella non-voce, nelle volontà. Ha subito imposizioni, strumentalizzazioni che dalla sua carne si sono diramate alle complesse questioni del testamento biologico, lo Stato di Diritto e le libertà individuali. Fino ai corpi-tutti.
‘Attorno al corpo di Eluana Englaro’ è una trattazione in tre movimenti: ascoltare, dire e raccontare. Movimenti che recuperano ciò che questo corpo è stato, ciò che è diventato nell’immaginario collettivo quanto nella dimensione intima della carne.
Ora il progetto trasmuta in performance con la collaborazione e l’interpretazione di Francesco Forlani.

Per recuperare ascolto e accoglienza verso i corpi nella loro essenza, dimensione dell’umano.
Per non dimenticare ciò che è già stato, ma che può cambiare.
Perché ogni corpo non diventi – prima o poi – ‘oggetto’ nelle mani di circuiti altrui, volti sfocati incapaci di essere e decidere.

Per recuperare la morte come transito, accompagnamento, rispetto, scelte.

Testi e performance di Barbara Gozzi.
Interpretazione video in photoshoperò e performance di Francesco Forlani.
Musiche originali dal vivo di Franck Lassalle.

Contenuti del movimento uno: i fatti attorno al corpo di Eluana Englaro (cronologia e testamento biologico in Italia); attorno al saggio ‘Corpo morto e corpo vivo ‘ di Giulio Mozzi (Transeuropa, 2009 con nota finale di D.Paolin); massmedialità (il corpo di Eluana Englaro attraverso i media); Quando l’etica manca di benevolenza (intervento inedito di Piero Bocchiaro); non epilogo – appendici (evoluzioni sociali, espansioni culturali e artistiche dal-nel corpo di Eluana Englaro).
Movimento due: Errant entre les pages effiloché ( La mia voce è questa, esiste. E’ ).
Movimento tre:Pelle’, una storia.
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Per il movimento uno: Piero Bocchiaro (collaboratore). Teresa de Cesare e Federica Sgaggio (consulenti). Grazie a Giulio Mozzi, Demetrio Paolin, Claudia Boscolo. Grazie a Barbara Garlaschelli e Luca Radaelli.

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Punto di fuga 03 Corpo di donna
di e con Dale Zaccaria e Francesca Checchi

Puntodifugaproject nasce dall’idea dell’artista Francesca Checchi insieme ai testi alle parole di Dale Zaccaria.

Si cercano puntidifuga per uscire dalle barriere-dittature sociali storiche o politiche o semplicemente intime e personali.

Poesia video performance installazioni diventano così i “contenitori artistici” per un proprio punto di fuga.

Il terzo punto di fuga sarà il corpo femminile. Corpo poetico e artistico il corpo di donna creerà il proprio spazio attraverso la poesia, le immagini video – audio, la musica, e la voce. Il corpo di donna protagonista assoluto, soggetto creativo e dominante del proprio spazio. Il corpo di donna quale fulcro di attività creatrice che “evade” trova il proprio “passage” nell’atto stesso della creazione.
Creazione e fuga diventano così semplicemente sinonimi del femminile poetico.

Testi di Dale Zaccaria
Immagini Video Audio Installazione di Francesca Checchi
Musiche Elettroniche di Roberta Vacca

L’introduzione al progetto e la prima parte QUI.

Parte II

Chi è Girolamo De Michele e perché proprio Ferrara, la Solvey e il CVM?

Recita la quarta di copertina del libro:
Girolamo De Michele, nato a Taranto, vive a Ferrara. Ha pubblicato diversi saggi di storia e di filosofia (tra i quali Felicità e storia, Quodlibert, 2001) prima di affermarsi con il romanzo Tre uomini paradossali pubblicato nel 2004 da Einaudi. Scrive di filosofia e critica letteraria su diversi giornali, ed è redattore di Carmilla, magazine online diretto da Valerio Evangelisti. Nel 2005 ha pubblicato Scirocco (Stile libero Noir, Einaudi); nel 2008 è uscito il suo ultimo romanzo La visione del cieco (Stile libero).
Tentando di spostare l’angolazione, rivolgo a De Michele alcune domande.
Vivi a Ferrara ma sei originario di Taranto. È stato questo, il ‘viverci’, la causa scatenante di ‘Con la faccia di cera’? O la scelta del luogo e delle tematiche ha altre radici?
La proposta di un romanzo che avesse come argomento le morti della Solvay è stata formulata dai responsabili della collana VerdeNero, che hanno redatto una lunga lista di crimini di ecomafia per poi mettersi alla ricerca degli autori. Io avevo la più ampia libertà creativa, tanto è vero che ho proposto una ghost-story invece di un noir. A questo si aggiungono le ragioni personali, che mi hanno portato ad accettare la proposta: il vivere a Ferrara, il desiderio di scriverci su – e su questo ha pesato molto l’influenza di Bassani, che non ho mai nascosto; ma anche, l’essere originario di Taranto, una città devastata dall’industrializzazione, macchiata a lutto da una agghiacciante catena di omicidi bianchi, di morti per tumore e leucemia. Scrivendo su Ferrara ho scritto anche su Taranto, e sull’Italia di ieri e di oggi.
Sei redattore di Carmilla, hai pubblicato diversi romanzi recentemente per Einaudi, tutti scaricabili in copyleft dal web come precisa la casa editrice stessa. Ma non è facile trovare informazioni su di te. Ti chiedo allora, chi è Girolamo De Michele, lo scrittore? Cos’è la tua scrittura, non soltanto nel noir di ecomafia oggetto di questo approfondimento; cos’è che più ti interessa, scrivendo?
Beh, non è del tutto vero che non è facile trovare informazioni su di me. Non ho un blog, è vero, non sono su Facebook o su MySpace, però non vivo nascosto. Più che altro, mi interessa molto poco parlare di questioni personali che non siano in qualche modo attinenti alla mia attività letteraria: preferirei che per me parlassero i miei libri. Per rispondere alla tua domanda: Girolamo De Michele è uno scrittore che è passato dalla ricerca filosofica alla narrativa – e credo che questo si veda, in quel che scrivo. La filosofia (che coltivo ancora) mi ha dato uno sguardo sul mondo, e degli strumenti preziosi per la lettura e la critica dello stato di cose esistente. La narrativa – e anche l’attività giornalistica, sul web o su carta stampata – è il modo di dare espressione a questo sguardo critico. In tutti i miei romanzi ho cercato di esprimere un’idea al tempo stesso semplice e complicata: che la realtà non è quella che si vede, che la rappresentazione dell’esistente non è la vera sostanza delle cose. E questo secondo strato di realtà non appare per epifania: bisogna conquistarlo. Quello che appare del mondo è il risultato dei vincitori di un conflitto, che ha lasciato vincitori e vinti. E i vinti, gli sconfitti, non hanno spazio nel mondo “ufficiale”, vivono negli angoli delle strade, nascosti agli occhi dei passanti: come la donna che compare in “Tre uomini paradossali” che viveva in un’automobile alla Bolognina, a due passi dalla famosa sezione del PCI, e della quale i giornalisti che andavano a sentire della svolta di Occhetto non si accorgevano; o il barbone di “Scirocco”, che qualcuno ha definito “shakespeareano”, ma che esiste davvero. Io cerco di ridare voce a questi esclusi, ma soprattutto cerco di trasmettere un’attenzione alla ricerca e alla visione di questi fantasmi quotidiani.
Hai definito ‘Con la faccia di cera’ una ghost story, e in effetti di misteri, fantasmi e nebbie ce ne sono praticamente ovunque, tra le pagine. Ma è stata anche una scelta rischiosa, affrontare in questo modo la storia che ha precisi collegamenti con una dolorosa realtà ad oggi non del tutto risolta. Puoi spiegare come sei arrivato a concepire il romanzo? Perché questa virata dal noir in senso stretto, un genere forse più vicino alle aspettative del lettore?
Avevo sempre desiderato scrivere una storia di fantasmi, ma non ero riuscito a farlo nei precedenti romanzi (anche se ci avevo provato), per le ragioni che ti ho già detto, ed anche per una lunga serie di influenze letterarie e cinematografiche – dal “Giro di vite” di James a “Sesto senso” di Shyamalan, per non parlare degli sceneggiati RAI degli anni Settanta, a cominciare dal “Segno del comando”. In una storia di fantasmi ci sono più strati di realtà, che si intersecano tra loro: e io credo che il “reale” sia fatto così. Del resto, elementi fantastici, o addirittura fantasmi, sono disseminati anche negli altri romanzi “noir” (ad esempio, il dialogo tra il narratore e il fantasma della sua ex morta dieci anni prima o il funerale del narratore narrato dal narratore stesso in “Scirocco”, la fotografia finale nella “Visione del cieco”): solo che in pochi se ne sono accorti. E poi in una città come Ferrara l’elemento fantastico mi è sembrato la scelta migliore per rendere al meglio l’incredibile ricchezza di questa città. Ferrara è piccola, ma ha una tale storia, piena di delitti, magie, fantasmi – pensa ai romanzi di Maria Bellonci – che potrebbe essere al centro di una serie di storie, un po’ come la Parigi del ciclo di Nestor Burma di Leo Malét, che ambienta ogni romanzo in un singolo quartiere: basta sostituire alla topografia la scala temporale…
Cosa ne pensi dell’attuale situazione di Ferrara e dei suoi lavoratori/abitanti in relazione al recente processo (che vede tra gli imputati i dirigenti Solvey) e alle condizioni di vivibilità (o meno) ‘lasciate’ dalla produzione di CVM negli anni passati?
Purtroppo a Ferrara c’è una gran voglia di far finta di niente, di dire che è una storia vecchia e ormai passata. C’è un’agguerrita minoranza che lotta su questi temi, ma è una minoranza. Un esempio concreto, che risponde alla tua domanda, è la vicenda dell’asilo di via del Salice: un asilo già costruito, la cui inaugurazione è per ora sospesa, che sorge su una vecchia discarica illegale di CVM. E in tutta franchezza non so se si riuscirà a bloccarne l’apertura. Il punto è questo: il CVM (e non solo lui) non è svanito nel nulla, ma è presente nelle acque, nelle terre, sotto i suoli. Così come le polveri sottili, le sostanze che le fabbriche ferraresi scaricano nell’aria e quelle che il vento ci porta dalla Montedison di Ravenna. Quando inquini, lo fai per secoli. E a Ferrara, come in buona parte d’Italia, respiriamo, beviamo e mangiamo l’eredità di un modello di sviluppo sbagliato, che prevedeva che in cambio del lavoro si potesse anche morire: Si lavora per vivere, e per lavorare si muore. Ma solo la regione Puglia si è impegnata a varare una legge che costringerà le fabbriche pugliesi a scendere al di sotto non degli standard nazionali, che sono ridicoli, ma di quelli europei. Se volessi fare della retorica mi chiederei perché la regione Emilia-Romagna non recepisce una legge analoga: ma so bene che l’eccezione è, appunto, la Puglia di Nichi Vendola e dei sindaci di Bari e Taranto. Tornando a Ferrara, rimane la speranza che almeno dal punto di vista formale si possa giungere a una condanna dei dirigenti Solvay: non andranno in galera, ma la condanna sarebbe la prima della Solvay, che è una multinazionale e fa in giro per il mondo quello che ha già fatto a Ferrara. Il processo Aldrovandi, con la condanna dei quattro agenti che hanno provocato la morte di Aldro, ha dimostrato che è possibile avere, se non giustizia, almeno “un po’ di giustizia”, come ha scritto il giornalista Cecchino Antonini: se succedesse di nuovo sarebbe una buona notizia.

Grazie a Girolamo De Michele.

Link alla pubblicazione originale su AgoraVox.

Antefatto

I miei nonni materni hanno abitato oltre cinquant’anni a Ferrara. Esattamente nella zona di Mizzana, oggi considerata frazione (circa dieci/quindici minuti in bicicletta dal Castello Estense). Da bambina rimanevo interi mesi da loro, d’estate o per le vacanza natalizie. E ricordo una Ferrara. Fatta di viottoli persi nel tempo, la piazza ampia, aperta al cielo, il parco Massari e le sue favole, arterie silenziose circondate da periferie con qualche fabbrica a delimitarne confini. Ma anche i prezzi competitivi (lo sentivo cantilenare in casa, per ’noi’ che invece abitavamo nell’interland modenese). Il pane era delizioso. Poi l’acqua. ’Si’ diceva che la si poteva bere dal rubinetto che era ’buona’, depurata. Io non ci riuscivo (a berla), avevo in testa gli echi delle ramanzine dei miei, e l’idea di mettere il bicchiere sotto il rubinetto per poi portarlo alla bocca mi paralizzava. A Mizzana però, in molti bevevano così. Senza comprare le fantomatiche ’bottiglie’ da portare in giro in bicicletta (i nonni, i miei e molti altri della via, non conoscevano patenti, non avevano mezzi motorizzati e neanche ne sentivano la mancanza). Poi certe notti estive, tra afa sonnecchiante e zanzare, mentre noi (bimbetti)ragazzini giocavamo in lungo e in largo nell’unica via serpente del quartiere, l’aria ’sputava’ un prepotente odore dolciastro, zucchero amaro.

Mio nonno materno è morto ormai da diversi anni, di un ’brutto male’. Ha lavorato nelle fabbriche della zona tutta la vita. In quale non ha importanza. E ha vissuto vicino a fabbriche tutta la vita. Quale in particolare è facilmente intuibile per chi è pratico di Google Maps o affini eventualmente.

Suo fratello è morto il giugno scorso, per altri percorsi ma sempre in seguito a ’brutti mali’.

E così potrei continuare, in realtà.

Di tutte le famiglie, residenti o native di Ferrara e provincia, che conosco personalmente, tra parenti, amici, conoscenti, vicini, negozianti. Non ce n’è una – UNA – che non sia stata colpita da forme tumorali, in diversi modi e maniere. Giuro. Non una me ne viene in mente a distanza di oltre dieci anni da quando nonna, da vedova si è trasferita vicina a mia madre, nel modenese. Qualunque senso abbia o non abbia questa mia soggettiva e personale considerazione, è.

Da qui parto.

Da un libro.

E da una serie di fili che lo collegano ad altro.

Dalle voci. Che attraverso le pagine del romanzo, insistenti, tediose, emergono, chiedono ascolti, non mollano. Voci che sono artifici narrativi con radici reali, crudelmente reali e rintracciabili perfino nell’immensa rete. Voci di ferraresi vivi o vissuti. Voci che l’autore, Girolamo De Michele, ha recuperato correndo rischi, inserendole – queste voci – direttamente nel tessuto narrativo sapendo che il lettore avrebbe finito per inciamparci e forse non avrebbe gradito.

Dunque un romanzo. Un autore. Un progetto sociale ed editoriale. E una realtà fatta di persone, fabbriche, morti, sentenze e la città. Ferrara appunto.
In sostanza quello che segue è tutto qui.

Dedicato a qualcuno, più d’uno, che sa.
Barbara Gozzi
Parte I
Del romanzo (analisi, approfondimenti)
VerdeNero è una collana di narrativa il cui slogan ormai rinomato rimbalza, ‘noir di ecomafia’. Ed è proprio questo ‘biglietto da visita’ a collocare – in apparenza – i romanzi all’interno di una precisa ‘maglia’ del mercato. Eppure i colori della collana, verde e nero, non sono vincoli piuttosto spunti di una mission entro cui mi addentrerò nell’ultima parte di questo progetto.
Ecco dunque che ‘Con la faccia di cera’ non è neanche lontanamente un ‘noir’, l’autore l’ha definito “una ghost-story con evidenti debiti verso Il segno del comando, ma anche verso Blow-up e Lost”. In effetti gli echi si sentono, prepotenti.
‘Con la faccia di cera’ inquadra un fotografo e c’è senza ombra di dubbio un ‘mistero’ o forse più d’uno, il narratore ne avverte l’odore dalle prima pagine pur non essendoci nulla di definito.
Non manca, insinuante, maliziosa, sorprendente, una donna che appare e scompare con un’abilità dall’evidente collocazione ultra-terrena.
Poi il tempo che è un non tempo, oltre logiche cronologiche, sequenziali piuttosto sovrapposizione tra scene passate ma mai vissute e un presente che sfoca con la facilità degli scatti dietro un obbiettivo. Ci sono tutti, questi elementi le cui radici si diramano dal’66 attraverso le menti di Cortàzar, Antonioni e Guerra ma anche artigli aggrappati a frantumazioni di certezze temporali che dal piccolo schermo, virus semi letale, ha contagiato milioni di telespettatori nel mondo a partire dal 2004.
Eppure.
C’è dell’altro, sfuggente, tra classificazioni che paiono necessarie come il caffè la mattina. E sfugge perché oltre le mission, i progetti e le logiche sociali, ‘Con la faccia di cera’ è una storia. Con una location che ha precisi echi, ciottoli su cui camminare, fabbricati dismessi e respiri, tanti respiri. Poi personaggi, sviluppi e ‘sottotracce’ che affondano i denti nella storia recente, in documenti che ancora urlano silenziosamente, tra avvenimenti che sfilano sotto il naso restando – il più delle volte – invisibili.
Questo romanzo, insomma, non ha un peso specifico in quanto narrazione sociale, non solo. De Michele scrive consapevolmente, avvalendosi di strumenti che rendono porosa la lettura, lascia spazio al lettore, alle interpretazioni, si flette seguendo le rughe e le increspature delle fronti. Fornisce spunti.

C’è una Ferrara che odora di vecchio e nuovo, in trasformazione quanto piena, traboccante di spennellate di altre epoche, volti, sguardi che attraverso il tempo insistono, rumori (ig)noti e carne che accoglie e coccola. Ferrara mantiene ritmi paralleli ma mai del tutto coincidenti con quelli di altre città emiliane, mai del tutto plasmata dalla frenesia, il degrado figlio degli sguardi che troppo a lungo hanno indugiato su un futuro anelato ed eccessivamente desiderato. “E’ una città da bianco e nero, da colori d’epoca, Ferrara…” (pag.15).

Chi ci è passato almeno una volta lo sa, che non è capace di restare al passo con il secolo di appartenenza. Mantiene una dignità, un ancheggiare attraverso storia, politica ed economia, che non lascia troppo spazio agli annullamenti luccicanti, le novità tecnologiche, morfologiche e ancora oltre, mentali. A Ferrara si respira aria uguale e diversa, bisogna predisporsi per capire. Chiudere gli occhi il tempo di una folta di vento, il suono di un clacson. Passare i polpastrelli tra le ruvide scanalature di un muro del centro. Annusare vicoli incasellati quanto periferie contratte tra geometrie mutevoli e mai disordinate. Ma è anche città che si difende, chiusa entro mura (in)visibili, ‘dentro’ di sé, dove l’indifferente crudeltà (r)esiste. “ … siamo a Ferrara, dopo tutto. Qui ti può capitare di essere massacrato di botte sino a crepare, e nessuno si affaccia a soccorrerti”. (pag.70)
E tutto questo è parte del romanzo di De Michele non soltanto grazie a una precisa volontà dell’autore, ma anche per la puntuale capacità dello stesso di tratteggiarla con onestà. Il mistero che la avvolge e che il lettore sente sulla pelle, non è solo frutto dell’invettiva narrativa, della storia e le finalità sociali. Il mistero è, a Ferrara, in. Ferrara.
Uno degli elementi che più ricorrono, assillano, attraverso il quale De Michele ricrea precisi immaginari, propone simbolismi, è ‘la nebbia’. Ovunque scivola, striscia mentre in primo piano la storia prosegue. Nebbia dunque a localizzare incastri temporali quanto miscele di certezze e verità taciute. Nebbia come indicatore di evoluzioni fantastiche, assieme ai bagliori e quel senso di freddo al tatto, segnali decodificabili con facilità anche per il lettore più distratto, frettoloso. Eppure tra la nebbia si celano sub-strati, allegorie di quella che a tutt’oggi (fine luglio, agosto 2009) è ancora una ‘vicenda’ in divenire, dai contorni variabilmente (in)certi. Ecco che l’arrivo della nebbia scandisce precise evoluzioni nella trama, inghiotte personaggi e accadimenti, altri ne mostra per poi riprenderseli. La nebbia è anche condizione temporale precisa, che i ferraresi conoscono, atmosfera necessariamente sensoriale, dal vago sapore dolciastro, umido rarefatto. Infine, scavando ancora, è la materia pulsante di una realtà ‘sospesa’, che pende ora da una parte, ora dall’altra, e che vede sfilare cavalli che sono vite umane in bilico, pronte a gareggiare, cadere, morire.
Anche i cavalli, il palio, hanno consistenze e sottolivelli diversi. “La storia si svolge l’ultima settimana del Palio di Ferrara, mentre tra le vie della città compaiono personaggi venuti dal passato.” Spiega De Michele in un’intervista on line. Il palio dunque è parte della trama, è per inseguire un lavoro, fotografare l’evento appunto, che il protagonista finisce ‘inseguito’ dal passato. E contestualmente un altro lavoro, illustrare un libro sul polo industriale ferrarese commissionato dalla Camera di Commercio, da il giusto pretesto all’autore per inseguire i fili dei documenti sul ‘caso Solvey’, le dichiarazioni degli operai, voci rubate a nebbie senza tempo laddove le conseguenze ancora insistono, (r)esistono, ma anche volti persi tra procedimenti e tentativi di evitarli.

Abiti tessiture, insomma. David Belli, protagonista e fotografo ha una ‘dote’ necessaria agli sviluppi e ai messaggi (più o meno) individuabili dalla superficie. Immortala. Fissa. Ruba per sempre. Scene che sono miscele esplosive di oggetti, azioni, persone. Testimonianze indelebili attraverso registrazioni. E’ lo strumento, in questo caso, l’elemento chiave che determina priorità e sensi. Il mestiere del protagonista è scelta (per l’autore) quanto vincolo. Perché solo con e attraverso questo tipo di registrazioni, De Michele restituisce una precisa realtà.
Quello che sta accadendo ora resterà in eterno: accadrà per sempre.
(pag.159)
E questa realtà, narrativa ma con echi reali, tra muri che dalla bidimensione dei fogli si proiettano in materia, non è mera utopia secondo me. E’ qualcosa che ha una consistenza tangibile. “Non pagherà nessuno, amore. Non paga mai nessuno” precisa Lucia, la donna misteriosa, “Se un operaio uccide un padrone è terrorismo, se un padrone uccide cento operai di tumore è normale amministrazione, è un prezzo del benessere” (pag.120). Frasi apparentemente finalizzate alla scena, volutamente casuali ma che sono decodifiche quanto interpretazioni. Perché con questo romanzo De Michele non ha cercato il risultato della partita tra Bene e Male, zero a zero palla al centro. Non ha costruito castelli invisibili eppure stupendi. Tanto meno ha cercato soluzioni. Non pagherà nessuno è macigno pesante, insopportabile. Vero. Seppure tendenzialmente sgretolato da altre volontà che il protagonista (e con lui il lettore, in punta di piedi) avverte, tra ossa e sguardi fissi, di cera appunto. “ Perché devo saperlo proprio io tutto questo?” Chiede con insistenza David, cerca di snodare matasse contorte e sfilacciate con la consapevolezza che qualcosa, qualcuno, c’è, attende e come lui cerca. La non resa. David ha un potere. Un dono, volendola sfarfallare sul mistico o forse no. “Tu hai il potere di fermare le cose nelle foto e farle esistere per sempre”(pag.121). Esistere per sempre, così come sono. E se questo non è un sotto livello non so cosa lo possa essere. Allegoria di una prepotente ferocia, difficile da trascurare leggendo. Lasciar essere in eterno un ‘qualcosa’che non chiede altro: mostrarsi, essere riconosciuto, per quello che è. Nudo. Esposto. Inalterabile. Giudicabile certo, ma nel suo stato originale, nella sua natura originaria, oltre le contraffazioni, alterazioni, deformazioni e abrasioni. Null’altro. Esattamente quello che invocano gli ex operai e familiari, vivi e morti, che a Ferrara hanno lavorato a contatto con il CVM. Esattamente quello per cui ancora, dopo sette anni, c’è chi si schiera in aule di tribunali, tra prescrizioni e decessi.
La piazza resta vuota.
Niente cavalli.
Niente pittore.
Niente Lucia.
Resta solo questa profondità abitata dalla mia inquietudine, il freddo sotto la pelle, e una macchina che mi dirà se quello che ho visto è davvero esistito.
(pag.94)
De Michele ha portato a termine un intento preciso, secondo me. Avvalersi di un linguaggio apparentemente semplice, liquido e moderatamente innocuo, per tentare contatti sbucciabili. Dove lo strato raggiunto dipende da quanta pazienza, voglia e opportunità si ha, leggendo. ‘Con la faccia di cera’ è un frutto. Uno qualunque dall’esterno. Dalla buccia granulosa a tratti, ma nell’insieme nulla di troppo lontano dagli altri (frutti). Basta un coltello qualunque per iniziare l’operazione di spolpamento. Basta si, un coltello, dita che lo stringono e polso fermo. Bastano ingredienti di una banalità noiosa, per ‘smascherare’ gli intenti. La volontà di inseguire che attraverso parole, voci e pagine si insinua, bisbiglia. In-seguire una storia dentro storie, voci tra parole, realtà tra fantasie.
Smonta dal destriero. Mi viene incontro. Mi guarda.
Sollevo la telecamera e gliela mostro, annuendo.
Sorride. La mano color alabastro che mi carezza la guancia è fredda come la notte nella quale sono piombato. Le sue labbra lo sono ancora di più.
A volte il male ha un volto familiare.
I contradaioli vestiti di tenebra sventolano le loro bandiere sopra le tribune ammutolite. […] Si uniscono alle migliaia di Esclusi, di Ultimi che continuano ad arrivare a stormi, a frotte.
Sfilano con i loro occhi fiammeggianti, con le loro bocche nere e profonde davanti ai potenti in costume seduti sotto i portici della piazza, assisi in una rappresentanza senza più fine. […]
Silenti.
Immobili.
Tutti grigi come grattacieli.
[…]
(pag.161.162)
In questi stralcio, qui decontestualizzato dunque meno potente e sensato, ci ho sentito la forza e l’urgenza della volontà di De Michele. Semplicità nella buccia, a richiamare strati di polpa viscida, sempre più mutevole nel gusto quanto nella consistenza fino a un nocciolo che è pulsazione allo stato puro, contatto, legame, tra pagine piatte, ferme, e una realtà che a Ferrara, nel 2009, qualcuno ancora respira, vive. Ma che sembra, insistere, per essere un’altra storia.
Elemento determinante per la comprensione del romanzo è ‘il condominio’. Entità assestante in pratica. Il Condominio come agglomerato di cemento, corpi, menti plas-mate e pla-giate da quella stessa contaminazione sottile che è nebbia e scatti sfocati. Entro un cerchio imperfetto che si stringe, nodo alla gola, i condomini agitano mani incontrollate, lanciano rimproveri sclerati, manipolano realtà (in)esistenti in un crescendo di malate dinamiche schizzate, assurde nella consistenza quanto manifestazioni-simbolo delle stesse reazioni contaminate denunciate dalle voci del passato.
Una nota di ‘colore’, da non lasciar passare sotto silenzio è l’uso moderato del dialetto ferrarese. Di quella tipica cadenza del parlato che solo chi ha sentito, può riconoscere, capire fin nel fondo. Congiunzione sussurrata, certo, eppure stretta, aggrappata a una tradizione, che è luogo quanto storia. Che è. Vita. Di oggi e ieri.
La Frara d’na volta, zuv’nott, era divisa dalle mura. Ecco le otto contrade. Ma Ferrara non è più quella di una volta…” (pag.83)
Infine segnalo un intercalare notevole, tra pag.151 e pag.154. Che inizia con un tratteggio preciso.
Sotto il portico di piazza Ariostea le nobiltà vecchie e nuove, di toga, di spada, di fama e d’elezione attendono l’arrivo del corteo storico. Fingono ammirazione per gli esercizi degli sbandieratori. Affettano cortesia e distinzione. Portano alla bocca il bicchiere di vino.
Parlano.
(pag.151)
E da quel ‘parlano’in poi, subentra un flusso che è lava allo stato puro, entro cui rintracciare messaggi, uno in particolare ricreato anche unendo i titoli dei capitoli, ma anche un altro, l’ultimo, di una semplice durezza disarmante. Se qualcuno si ritrovasse il libro tra le mani, cercatelo questo passaggio. Merita qualche minuto in più, ripaga. Le nobiltà che attendono e fingono, affettano cortesia e distinzione. Infine. Parlano. Quelle nobiltà cedono poi il passo gli Esclusi, che con poche frasi, sussurrate, inghiottite dall’abituale rarefazione che attutisce e sbiadisce; con poche frasi dunque riassumono tutto il tormento di condizioni non cercate, eppure imposte da alti, fino a sfiorare la morte, cedendogli.
E ancora la mano di nebbia si solleva dalla piazza lasciando splendere i colori rossi e gialli e verdi e azzurri assiepati nelle tribune affacciate sul percorso del Palio… […]

(pag.154)

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