C’è un pianoforte che suona.
Ed è un suono armonioso, potente, che arriva a urlare tant’è profondo e fiero.
Ma c’è anche tutto quel bianco che a vederlo così vicino agli occhi non è tranquillizzante, per niente. Tutt’al più invadente, onnipresente. Sotto, dov’è sdraiato lui; sopra, avvolge la macchina che lo sta fotografando emettendo dei rumori che si, lui finge di non sentire (il pianoforte è ancora più forte, per ora) finge ma se si deconcentra un attimo eccoli che arrivano, i botti e il bianco. Abbraccia tutto, questo bianco muto, serpente.
Anche la questione dello ’stare fermo’ è diventata complicata. Quando la donna dietro il vetro gliel’ha ripetuto – con quel fare cadenzato e annoiato – le ha sorriso, per commiserazione. Certo che lo so, voleva dire quel sorriso e adesso se lo rimangerebbe volentieri, se potesse. Basterebbe spostarsi di lato, spingersi verso il pavimento; così gli sembra di vederla, la tentazione di infrangere le regole. E’ la macchina che lo sta incoraggiando. Da, vai, ti basta spostarti a destra usando la spalla, scendi con le gambe e vattene da qui, brigati!
Basta si.
Gli viene da pensare a suo fratello.
Erano anni che non gli succedeva, di pensare a lui all’improvviso. Di vedere il suo volto scavato, quella pelle verdastra cucita su un corpo rinsecchito, un verde chiaro con qualche venatura violacea, colori stridenti eppure altrettanto naturali su di lui. Perché suo fratello era malato e lo ricorda solo in questo modo, da malato insomma. Però era anche abilissimo con gli esami, lui una macchina così se la sarebbe mangiata, l’avrebbe staccati a morsi (col pensiero) pur di non farsi schiacciare. Lui si.
Il pianoforte continua a suonare.
Com’è che certe volte diventiamo così piccoli e fragili che neanche ci riconosciamo? Se lo chiede proprio mentre l’ovale candido sopra di lui ricomincia a emettere intervalli svelti di tonfi cupi, mitragliate.
Chiude gli occhi e suo fratello torna. E’ sempre lo stesso, coi jeans della Charro larghi e scoloriti e una felpa rossa che adorava. L’aveva ricevuta in regalo, prima che.
C’è sempre un prima che, però è più facile fingere di non averlo visto, quel momento lì che si avvicina al ‘che’. Prima succede sempre qualcosa, anche una cosa piccola, insignificante. Ma noi la ricorderemo sempre perché siamo fatti così, viviamo di attimi, ricordi che la mente afferra e cataloga – dove, lo sa solo lei – e ogni tanto riusciamo anche a nasconderli, quei pezzi del passato. Riusciamo ma facciamo una fatica bestia. Finché di nuovo si liberano e tornano a danzare, per noi. Davanti a noi.
Suo fratello sorrideva prima che. Gli stava ricordando tutta una serie di cretinate che avevano fatto da bulletti alle scuole, le sceneggiate sugli autobus (all’immancabile vecchietta mezza sorda e mezza cieca sul trentotto), i ritrovi sui colli (e le bottiglie di birra rubate da casa), gli scherzi alla Letizia che era davvero una rompicoglioni (graziosa ma rompicoglioni), l’atmosfera del mercato quando si mettevano i giubbotti da fighetti e giravano tra i banchi affollati per fare l’occhiolino (sgembo e nel complesso ridicolo) alle belle ragazze.
Tracce che credeva perse.
Invece no.
Mentre suo fratello osservava serio, con quegli occhi vivaci che dicevano tante cose e tutte insieme, lui si sedeva accanto al letto e attaccava a ricordare ad alta voce. I ricordi non sono processi controllabili, questo l’ha imparato sulla pelle.
Finito.
Si rialza un pò stordito, confuso.
Finito?
La donna gli lancia un’occhiata guardinga ma non si sbilancia (chissà quanti futuri malati le passano tra le mani ogni giorni, chissà. Troppi comunque). Cerca di scendere dal lettino ma gli gira la testa.
E’ tutta una questione di importanze, gli aveva detto una volta suo fratello. Quanto pensi che conti per me questa flebo adesso? Lui era rimasto con la bocca semi aperta, incerto, ogni risposta che gli saliva alle labbra poteva essere sbagliata, offensiva perfino. Si sbagliava. A suo fratello non fregava niente della flebo perché non si riferiva al corpo (Il corpo? Un involucro che ci contiene, nient’altro. E se il mio è difettoso non lo posso sostituire, i sette giorni di prova sono scaduti da un pezzo!, è l’unica fregatura dell’essere umani e non oggetto). Suo fratello pensava al resto. All’energia, le passioni, i colori e i legami. Ecco allora che la flebo diventava un puntino ridicolo se.
Qual’è il mio se, adesso? Si sente domandare.
Ma non c’è nessuno in quella sala alta e bianca. Nessuno che possa rispondere per lui, che possa spiegarli qual’è la prospettiva giusta (se c’è). Lui, che non è abituato a essere malato, arranca, gli sembra di aver nuotato per giorni senza fermarsi. E non è per niente una bella sensazione, di polmoni strizzati e ossigeno indigesto.
Si volta indietro e la macchina è lì, a qualche passo. Immacolata e muta.
Fra una settimana le mandiamo i risultati a casa, boffonchia la donna ma non lo guarda, non si volta neanche – lo schermo del computer l’ha risucchiata – e lui annuisce. La porta scorrevole si apre e scende le scale strette senza sapere bene dove andare. Quasi corre e ha paura di scivolare dall’urgenza di.
Andare.
Aspettare.
Intanto il bianco se n’è andato. Fuori, per strada, i colori sono ovunque; il grigio domina, contamina, investe.
Si guarda in giro, il bianco è rimasto tra le mura che odorano di disinfettante e fiori finti anche se il silenzio, quello se l’è portato appresso.
Il silenzio.
Gli servirà.
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Annotazioni dall’ ‘Officina’.
Racconto: risale a fine novembre, quando mi sono effettivamente sottoposta a una risonanza.
In quel periodo ascoltavo di continuo un cd di Roberto Cacciapaglia (Quarto tempo).
Poi sotto a quella macchina mi sono vista come dall’alto. Ero un uomo che ricordava il fratello morto. L’associazione con il bianco asettico della stanza, gli odori e i rumori hanno fatto il resto. Forse ero semplicemente più preoccupata di quanto volessi ammettere eppure lì dentro c’era quest’uomo che, al posto del mio corpo, meditava di scappare e rammentava questo fratello così abituato agli esami clinici da esserne ‘immune’. Una sorta di priorità capovolte tra i due.
Immagine: l’ho scattata in uno dei palazzi adiacenti al centro medico, mentre aspettavo il taxi. Avevo bisogno di portare con me una scheggia di quella strada, di quel posto così brulicante quanto decadente ai miei occhi un pò stanchi (nel caso qualcuno fosse pratico, si tratta di Via Irnerio a Bologna). C’era un cielo bellissimo, bianco e azzurro come nei cartoni, però la via era buia, grigia come accenno nel racconto, i palazzi alti facevano da scudo protettivo contro la luce. Così mi è rimasta impressa.
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Foto BG.
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Pagina tratta dal Moleskine.