C’è un sottile filo che unisce due autori contemporanei e due romanzi profondamente diversi: Chuck Palahniuk – Ninna Nanna e Don DeLillo – L’uomo che cade.
Il filo è davvero sottile eppure palpabile, è impossibile non notarlo.
Si tratta, secondo me, di un comunissimo ‘loop’, una dinamica semplice che si ripete ciclicamente, spesso silenziosa, che non si fa annunciare tanto meno pretende il centro dell’attenzione. Eppure c’è.

In ‘Ninna nanna’ Palahiunk ricorre spesso a ripetizioni che acquistano ogni volta un senso preciso, angolato, calzante con l’episodio o il preciso svolgimento della trama. Eppure, tra tante annotazioni a margine che ritornano, una di quelle più pressanti é:

” Il trucco per dimenticare il quadro d’insieme è osservare i dettagli da vicino. Il modo più rapido per chiudere una porta sulla realtà è seppellirsi nei dettagli.” (pag.46)

Un’affermazione questa, che poi trova riscontri precisi nella narrazione, il protagonista si concentra in effetti su dettagli, su singole azioni, obbiettivi semplici e pratici che gli impediscono di ricordare la famiglia persa (il dolore più grande, insopportabile) ma non l’obbiettivo principale (distruggere ogni copia della filastrocca). Ecco dunque che di notte (il momento peggiore, quando non sta lavorando e sono tutti più o meno a casa o comunque in compagnia dei propri cari) Carl costruisce modellini di edifici, si concentra su pezzi minuscoli e li assembla nel silenzio dei rumori che lo circondano.

DeLillo non lancia nessun amo, non la manda a dire. In ‘L’uomo che cade’ i dettagli colpiscono e basta. Dal primo capitolo. E’ come se, attraverso le descrizioni minuziose di gesti comuni, banali anche, l’autore tentasse di stordire, di sbucciare una realtà frantumata dall’undici settembre, da quei crolli che diventano ferite perennemente aperte per i protagonisti che comunque riprendono a vivere, ritrovano affetti, case, mestieri e routine solo all’apparenza rassicuranti. Il vero ‘click’ che scatta in ognuno è il loop delle piccole e semplici azioni ripetute a cui aggrapparsi. Che diventano riti salvifici. Anestesia dai pensieri bui, dal terrore di vivere. Attraverso questi gesti ripetuti, appuntamenti fissi in giornate che sembrano di pastafrolla, in mezzo a dialoghi lucidi quanto confusi, i personaggi rischiano di cadere in ogni pagina ma poi, in un qualche modo e ognuno diversamente, restano in piedi, resistono.

Dunque un filo sottile, un unico messaggio che passa attraverso due autori diversissimi eppure la percezione di un intento comune si sente, colpisce duro.
Davanti a un grande dolore, perdita fisica o sentimentale che sia, probabilmente esiste un bivio che nasconde infiniti percorsi intermedi ma le ‘macro scelte’ restano – forse – due: abbandonarsi totalmente, interamente, perdutamente al dolore o ridurre il campo visivo, concentrarsi sul presente, sulla praticità dei bisogni, sui piccoli ma grandi gesti da ripetere senza pensarci troppo, automatismi quasi. Dedicare, dunque, energie ad azioni semplici, microscopiche e proprio per questo meno rischiose, che non hanno retrogusti (di solito), non impongono grandi ragionamenti, ma obbligano a concentrarsi evitando virate.
E paiono perfino messaggi scontati, inutili.
Ma se ci si pensa sul serio probabilmente è già capitato, nel piccolo di ognuno, di applicare questa ‘regola’ silenziosa alla propria dura realtà.

” Si stava calando in qualcosa che era plasmato a sua immagine e somiglianza. Mai era se stesso come in quelle sale, mentre un mazziere annunciava un posto vacante al tavolo diciassette. Guardava una coppia di dieci, in attesa del suo turno. Erano i momenti in cui fuori non esisteva nulla, nessun balenare di storia o di ricordo a cui tornare inconsapevolmente nello scorrere monotono della carte.” (pag. 233 – L’uomo che cade)

” Trovava rigeneranti quelle sessioni, quattro volte al giorno, le estensioni del polso, le deviazioni dell’ulna. Erano quelle le vere contromisure al danno che aveva subito nella torre, nel caos della discesa. Non la risonanza magnetica, né l’intervento chirurgico che l’aveva riavvicinato allo stare bene. Era quel modesto programma casalingo, contare i secondi, contare le ripetizioni, i momenti della giornata che riservava agli esercizi, il ghiaccio che applicava dopo ogni serie. ” (pag.42 – L’uomo che cade)

” Lei viveva in una condizione di imminenza costante.
Si abbracciavano, senza dire nulla. Più tardi cominciavano a parlare in toni sommessi, che contenevano una sfumatura di tatto. Prima di parlare di cose rilevanti arrivavano a condividire anche quattro giorni interi di discorsi indiretti. Era tempo a perdere, progettato fin dal primo istante per non essere ricordato. ” (pag.218 – L’uomo che cade)