T.b.di Barbara Gozzi

17 settembre 2008

Ricordo una bambina che guardava fuori dal finestrino.
Era buio. Tutta la famiglia si era infilata in macchina dopo cena, salutando i nonni. Tratta stradale: Ferrara – provincia di Modena. Capitava che la domenica diventasse un transito: partenza in tarda mattina tra schiamazzi e borbottii, ritorno notturno e silenzioso.
Ricordo che l’abitacolo la rassicurava, quella bambina che fissava insistentemente il paesaggio indistinguibile. Campagne. Tetti. Alberi e macchie. Qualche luce lontana.
Ci pensi mai alla morte, mamma?
Ricordo le parole esatte. Perfino il tono, frettoloso ma deciso, che è uscito dalla bocca della bambina.
Poi il caos. La madre col volto arrossato, balbettante sbirciava il padre alla guida. I fratelli ridacchiavano tra loro e la radio in sottofondo, a coprire una risposta che non è mai arrivata.
Quella bambina ero io, ormai vent’anni fa.
E da allora il mio rapporto con la morte è cambiato, da individuo quanto, da alcuni anni, anche da genitore.

Allora queste righe strane, storte direi, tentano di lasciare una traccia precisa.

Della morte ho paura, mi confonde, la temo e la rincorro, la vedo attorno a me e spesso mi sento accarezzata.

Ma non vorrei mai – davvero mai – allontanarla. Scansarla. Ignorarla o peggio. Lasciarmi sospesa, come se potessi (e dovessi) aspettarmi l’eternità.

No. La morte scandisce il tempo. Ci restituisce una precisa dimensione, di creature fragili che vivendo possono fare e disfare in continuazione. La morte è ‘l’ ‘incognita che sottolinea la forza del tutto che ci circonda. Colori, sapori, umori, moti, gesti, suoni e.

Allora io chiedo di poter morire senza che il mio corpo diventi un mero contenitore freddo. Non accanitevi su un involucro che non ha colpe, è progettato per deteriorarsi, non conosce l’eternità.

Ma chiedo anche di non essere lasciata sola. Chiedo, a chi mi vuole bene, di non voltare la faccia, di non fuggire né di delegare. Chiedo di essere accompagnata nell’unico modo possibile: rimanendomi vicino. Il gesto, lo so, può sembrare inutile forse addirittura insensato. Ma non lo è.

E mi rendo conto, di essere egoista. Di ‘pretendere’ qualcosa di doloroso, difficilissimo. Lo so.

Ma la voglio urlare questa, come la precedente, dichiarazione perché nella morte abbiamo bisogno di comprensione, appoggio. Di poterci aggrappare mentre ci lasciamo andare. I viventi la dovrebbero sfiorare (la morte) e il morente sentire, quella carezza lieve, magari distante, offuscata.

Spero che il silenzio non mi separi anzitempo dalle persone amate, tutte, senza distinzioni di gradi o legami. Vorrei sapermi rispettata nel corpo quanto nella mente. E mi auguro, chiedo, che il transito venga legittimato, capito e accettato.

Chiamatelo pure testamento biologico allora.

Ma è anche un impegno preciso che prendo ora, qui, adesso. Giovedì 11 Settembre 2008, una giornata qualunque, quella in cui ho deciso consapevolmente di espormi.

Amore, rispetto e vicinanza. Anche attraverso la morte.

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Testamento biologico pubblicato su Vibrisse e Primo amore.

Consiglio la lettura dei commenti su Vibrisse che ampliano l’orizzonte, propongono un dibattito.