E’ il primo testo che leggo di Andreoli, ho completamente invertito l’ordine di pubblicazione e la logica. Ho inizio proprio da questo saggio per l’argomento, la necessità e la curiosità verso un aspetto così controverso e culturalmente rifiutato. Le fragilità.
Andreoli è psichiatra e scrive come se fosse paziente e medico di un’interminabile seduta. E’ un flusso di parole, questo saggio, quasi un monologo da teatro per certi aspetti. Parole che lo denudano in primis come uomo, essere umano, ma anche che analizzano, lucide e feroci nell’afferrare fili precisi e seguirli anche molto lontano dal ‘seminato iniziale’.
E’ un’analisi, una visione, quella che emerge da ‘L’uomo di vetro’ che spiazza dalle prime pagine.
Non ci si aspetta che uno psichiatra, un professionista che lavora tra menti in difficoltà ogni giorno, sia così aperto, disposto a mettersi ‘in gioco’ al punto da apparire, come accennavo sopra, nudo davanti al suo pubblico. Andreoli ammette da subito di essere fragile. E già quest’affermazione è una demolizione delle certezze ‘moderne’ ma soprattutto di quelle passate.
Per la generazione dei nonni, ad esempio, ma anche dei miei genitori, le fragilità erano quasi un tabù. Era vietato mostrale, in taluni casi anche agli amici. I figli venivano (e vengono tutt’ora in moltissimi casi) educati secondo la regola che ‘non si deve avere paura (di niente e nessuno)’, e ‘non bisogna mostrarsi deboli’ piuttosto il contrario. E’ necessario indurirsi, crearsi protezioni precise, corazze o armature per difendersi dagli altri e difendere se stessi non mostrando ‘certi’ lati del proprio carattere.
Eppure è proprio dall’analisi delle fragilità che Andreoli parte per smontare queste logiche distorte. Attraverso ragionamenti precisi, puntuali e argomentati, scarnifica quelle dinamiche che sono diventate radici culturali, sociali di questo nostro vivere in perenne lotta per raggiungere ‘il potere’, verso l’autoaffermazione, attraverso corse spesso vuote ma che ci danno quel ritmo che sembra indispensabile per non ‘perderci’.
Poi la morte.
Ci sono svariate pagine di questo saggio che trattano della morte. E, seppure partendo da logiche ed esperienze in parte diverse, è impossibile non cogliere parallelismi velati con quanto afferma Iona Heath in ‘modi di morire’. Lei medico generico inglese, lui psichiatra italiano. Entrambi a contatto ogni giorno con la gente. Entrambi dedicati alla cura, ma di due ‘elementi’ che sembrano diversi pur non essendolo completamente. Ed entrambi constatano non con amarezza ma con una certa energia propulsiva che:

“La morte deve promuovere la voglia di comprender l’altro, di conoscerlo, di poterlo aiutare. […] E ogni difficoltà è già dolore senza un uomo che ti guardi e ti sorrida.
In questo mondo folle di fronte al dolore si tende a prescrivere un lenimento e non a dare un supporto di umanità. Una ricetta, invece che un sorriso. Una pasticca, invece che una stretta di mano.” (pag. 59- L’uomo di vetro)

Iona Heath sostiene che anche il dolore è necessario, fa parte della vita, ci restituisce una precisa dimensione del nostro corpo, del nostro ‘esserci’ ed ‘essere’ e per questo non andrebbe semplicemente e solamente annullato, annientato con la chimica moderna.
Vittorino Andreoli sposta l’angolazione e nota come, in realtà, esisterà sempre un tipo di dolore che nessuna tecnologia, nessuna scienza potrà mai sconfiggere: ” il dolore di vivere, quel male che sembra attaccarsi al respiro, all’esserci ” (pag.60)
Entrambi dunque, arrivano alla stessa, dolorosa conclusione: abbiamo bisogno di recuperare la morte, stiamo perdendo il contatto con il dolore al punto da scansarlo, evitandolo attraverso la scienza e siamo disposti a tutto pur di togliercelo di dosso, di evitare il passaggio. Tanto più che la morte non sembra più un transito ma una materiale quanto sterile ‘tappa’ finale.
La Heath analizza il fenomeno dal punto di vista del medico, si tende per mostrare quant’è importante il ruolo di qualcuno che ‘accompagna’ il morente, Andreoli non distingue ruoli o mestieri ma sottolinea come si sta perdente ‘il contatto diretto’, sentimentale, e lo facciamo consapevolmente grazie alle scorciatoie mediche, attraverso quelle dinamiche che ci permettono di ‘non esserci quando’.

Ma le fragilità non sono solo dentro di noi, parte della stessa natura umana. Ci circondano e tornano ogni volta a ricordarci che la perfezione non esiste. Così Andreoli ricorda episodi recenti ormai fissati nella memoria collettiva e presto nella storia. Singoli episodi che hanno svelato le fragilità dei nostri sistemi moderni, quello di difesa quanto quello medico. L’organizzazione stessa del mondo nel XXI° secolo è fragile. Perché è così che deve essere secondo Andreoli.

La forza delle fragilità è probabilmente il concetto più ribadito e argomentato, in questo saggio, ricorre, se ne sente l’eco. Andreoli ammette di essere quello che è, e di poter ogni giorno ascoltare e lavorare con malati e menti in difficoltà proprio perché è fragile. Secondo lui non è possibile avvicinarsi a un malato se non si è consapevoli di potersi ammalare, se non si riconosce la fragilità del corpo, del proprio prima di tutto. E il sentirsi, sapersi, fragili ci rende più ricettivi verso i dolori altrui. Ci apre quei canali che invece le regole di questo nostro vivere oggi sembrano intenzionate a chiudere.

Non è sempre facile seguire i ragionamenti di Andreoli, ogni tanto si finisce altrove, si ha l’impressione che la ‘zattera’ sia alla deriva e che questo scrivere dentro un flusso continuo tenda verso un ‘tutto’ troppo ampio, spazi verso argomenti importanti che diventano accenni, si confondono. La famiglia. I figli (l’esserlo poi l’averne). La crescita. Le ribellioni. Il matrimonio. I potenti e i saggi. La politica. L’attuale situazione medica. La cultura del progresso. Il potere. La Fede. Dio.
Non sono d’accordo su tutta una serie di logiche esposte nel saggio di Andreoli, che probabilmente eccede in certi toni e spinge le argomentazioni verso un ‘io’ dell’autore a tratti troppo personale, pressante. Forse ci sono (anche) troppe certezze, tra le logiche così puntualmente esposte, in una ‘sfera’ dove personalmente mi trovo in difficoltà a riconoscere distinzioni precise, ricette univoche, e additare ‘questo è un uomo’ e ‘questo non è un uomo’ mi lascia un sapore amaro in bocca, da ‘giochino troppo facile’.
Ma è un libro che contiene anche precisi messaggi sulle fragilità. Messaggi che possono suonare banali, ovvi ma che ugualmente meritano almeno una riflessione.
Noi siamo creature fragili, che ci piaccia o meno.
Il nostro corpo lo è, per quanto facciamo di tutto per curarlo, preservalo o ignorarlo.
La mente è un’entità di vetro. Forse la più friabile.
E il continuare, ogni minuto, a combattere queste consapevolezze ci inaridisce, ci rende ciechi, rabbiosi, ci allontana dall’umanità, ci trasforma in predatori, sostiene l’autore.
Anche se, forse (penso io), è altrove che andrebbero cercare le spiegazioni più profonde di una natura (quella umana intendo) che si evolve come tutte, che cerca di sopravvivere adattandosi all’ambiente che lo circonda (e quindi oggi tra tecnologie scintillanti, reality, corpi esposti e violati, corse e sguardi che non vedono, …).
Il messaggio finale di Andreoli è positivo o almeno propulsivo, eppure continuo a sentirci un ‘non so ché ‘ di esagerato, come a voler focalizzare l’attenzione lì, a voler riassumere certi ‘mali’ dentro una precisa bolla che attende solo di essere scoppiata (in questo caso legata all’ammissione delle fragilità, all’accettazione e alla gestione di un ‘io’ che sia più saggio e meno votato al potere).

In conclusione credo che in questo saggio manchi un pizzico di mediazione con la realtà che viviamo, con la quotidianità che spesso (per non dire sempre) ci porta in rotta di collisione con ambienti e persone che si nutrono delle fragilità, che aspettano nel fantomatico angolo buio e silenzioso.
Spero un giorno di insegnare a mio figlio che sentirsi ed essere fragile è una condizione umana di cui non ci si deve vergognare, tanto quanto l’ammetterle, queste fragilità, non ci rende meno meritevoli di amore, o credibili o rispettabili. Anzi. Ma spero anche di trasmettergli che non è possibile aspettarsi altrettanto dagli altri, che ci sono circostanze o comunque situazioni in cui è bene mediare, che non vuol dire tradirsi o costruirsi di sana pianta, ma evitare i colpi più duri, quelli che potrebbero ferirci o farci comunque del male. Non per debolezza, o per manifesta inferiorità. Bensì per istinto, perché c’è – secondo me – qualcosa nella natura dell’uomo che lo porta a cercare una posizione, un determinato potere (economico, sociale, politico, culturale…). C’è questo fattore dentro di noi, in misura e propensione diversa ma esiste. E, nonostante le argomentazioni corpose e, a tratti liriche, di Andreoli, non mi sembra sufficiente accettare e riconoscere le fragilità per recuperare quella sensibilità (propensione) verso noi stessi e gli altri che probabilmente il nostro vivere oggi schiaccia con facilità sin dall’infanzia.

“La fragilità non è sinonimo di debolezza, che è mancanza di forza, un difetto a cui porre rimedio. La fragilità non è povertà, intesa come mancanza di risorse che permettano di rispondere ai bisogni elementari e che è possibile cancellare con un pò di giustizia. La fragilità non è incapacità di fare, di pensare. Non si lega a una dotazione sminuita di abilità intellettiva o emotiva. Non è sintomo o, peggio, un insieme di sintomi tali da definire una malattia. La fragilità non è una inferiorità nel confronto di altre situazioni che paiono invece espressione di una ricchezza di personalità. Non è un difetto, una menomazione o una condizione che comunque la pone sul piano del patologico. E’ semplicemente una visione del mondo che si lega all’esistenza, non al singolo che ne è parte. E’ la visione del proprio essere nel mondo, è la percezione che deriva dal dolore, dal senso del limite.
La fragilità non conduce al male, ma semmai alla saggezza… ”

[pag.29]

” La percezione della fine è dentro ciascuno di noi, è uno stigma della specie, un marchio della sua caducità. La fragilità è dentro l’anatomia dell’uomo, fa parte della sua sostanza costruttiva che non è di ferro, ma di carne da macello. L’uomo porta i segni della fine, la si sente anche da ubriachi e c’è un momento in cui, di fronte alla morte, si vorrebbe contare su qualcuno che affermi di essere presente, se non toccherà prima a lui sparire. Un legame anche nella morte. “

[Pag.20-21]

L’uomo di vetro
di Vittorino Andreoli
Rizzoli – 2008
Isbn: 978-88-17-02007-7